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Mondi fioriti (di Paola Carini)
24.07.2008
Una delle primissime fantasticherie sul continente americano fu la diceria che fosse El Dorado, la terra dell’oro. Favoleggiando su di una sua presumibile abbondanza, quando gli spagnoli videro sovrani agghindati d’oro scambiarono immediatamente la chimera per realtà. Negli altipiani della Colombia, ad esempio, il popolo dei muisca sottoponeva il proprio sovrano ad una cerimonia particolare prima che questi fosse intronizzato: ricoperto di una finissima polvere d’oro cosparsa su tutto il corpo, il nuovo re si doveva gettare nelle acque di uno dei laghi dell’altipiano per offrire sé stesso e una notevole quantità di oggetti d’oro e di pietre preziose alle divinità. L’evento, tinto di leggenda e ingigantito, arrivò alle orecchie degli spagnoli, tanto che in tre, ignari uno dell'altro, giunsero nella regione negli anni trenta del Cinquecento alla ricerca dell’oro. Ma fu un quarto, Hernando Perez de Quesada che, giuntovi pochi anni più tardi, organizzò il recupero degli ori dal fondo del lago vulcanico. Costringendo i muisca ad abbassarne il livello svuotando il lago con dei secchi ricavò ben poco, come facilmente intuibile, e si dovette limitare a ciò che affiorava lungo le rive. Imprese successive per far defluire le acque franarono letteralmente, mentre uno scavo ottocentesco di un canale di svuotamento parve riuscire se non che, dopo qualche ora, le acque ricominciarono ad occupare la loro dimora filtrando da sottoterra. La melma spessa aveva impedito il saccheggio, e le acque avevano provveduto a ricoprire, placide ma risolute, secoli di offerte votive.
Intanto altrove, gli indios morivano a migliaia nelle miniere spagnole.

La marcia spagnola verso nord non fu altrettanto fortunata dal punto di vista dell’aspettativa di ricchezza. Hernando de Soto, veterano di battaglie e massacri nell’odierno Perù, quando si avventurò nel Nord America via Florida, poi Georgia e South Carolina, con presumibile disappunto non trovò oro ma un aspro scontro con i guerrieri choctaw di Tuscaloosa, nell’odierna Alabama. Malconci e in territorio nemico, De Soto e i suoi uomini virarono lontano dalla costa e raggiunsero il fiume Mississippi. Ancora senza oro e senza nemmeno tatto diplomatico, chiesero ai chickasaw parecchi uomini per attraversare il fiume. Pretesa negata, campo attaccato e via di nuovo verso l’Arkansas, dove de Soto morì senza aver visto nemmeno l’ombra delle ricchezze del favoleggiato “nuovo” mondo.
Eppure quella che sarebbe divenuta l’America abbondava di ricchezze, oltre il baluginante oro di anelli, pendenti, orecchini, oggetti d’artigianato, sacri o funerari, come si potevano trovare nel “vecchio” mondo. Solo che erano cose ritenute preziose secondo un altro metro di misura, era un mondo dorato secondo altri standard, un El Dorado con un nome diverso e con altre particolarità.
Gli yaqui lo chiamano Yo Ania, ossia Mondo Incantato.

Della cinquantina di gruppi tribali autoctoni di quello che ora è il Messico, solamente gli yaqui vivono in una riserva che grosso modo incorpora le loro terre ancestrali lungo il fiume omonimo nella regione occidentale di Sonora. Gli otto villaggi originari esistono tuttora disseminati lungo il fiume come, miracolosamente, esistono ancora gli yaqui. Porfirio Diaz ne fece massacrare, torturare, smembrare e vendere come schiavi a centinaia; molti finirono in zone diverse del paese, altri in Arizona, ma per tutti loro, sopravvissuti od esuli, la loro terra è il “mondo incantato”, o anche Sea Ania, il “mondo fiorito”.

Prima che i villaggi si riducessero ad uno squallore di periferia, prima che in parte fosse trasformato in campi coltivati e parzialmente disboscato, il territorio lungo il fiume Yaqui era un’area riboccante di alberi e fiori. La vegetazione spontanea era così varia e ricca che in primavera lo sbocciare della natura forniva uno spettacolo ineguagliabile, talmente incredibile da essere incorporato nella vita sociale e spirituale del popolo yaqui. Rituali, danze e canti sottolineano la bellezza del posto, di flora e di fauna, intrecciando l’esistenza degli uomini a quella della natura. I danzatori che eseguono la Deer Dance, la Danza del Cervo, ripetono con la mimica i movimenti eleganti dell’animale e cantano e raccontano del Mondo Fiorito, dei suoi colori, dei suoi profumi, del legame ancestrale con Cervo, loro fratello, che sacrificava la sua vita affinché loro potessero vivere, degli avi, della vita e della storia degli yaqui. E, cosa unica nel suo genere, il rituale ingloba molti elementi cristiani, più specificamente cattolici, che gli yaqui hanno accolto e fuso con le loro credenze autoctone in maniera spontanea, senza esserne costretti, quando tra la fine del Cinquecento e gli inizi del Seicento alcuni gesuiti furono invitati a vivere con loro.

Non esiste forse esempio più comprensibile per chi nativo-americano non è, che lo stretto legame tra luogo e identità del popolo yaqui. Ebrei, cristiani e musulmani praticanti comprendono immediatamente la rilevanza di Gerusalemme in quanto città santa, testimonianza fisica di un mondo spirituale seppur percepito in maniera diversa. Così è per gli yaqui, per i quali la Terra Santa non è la Palestina bensì Yo Ania; Gesù non crebbe e visse laggiù ma a Yo Ania, i miracoli li fece lungo il fiume Yaqui e non sul Giordano e visse la Passione e la Resurrezione proprio là, a Yo Ania.

Il Mondo Incantato degli yaqui è rimasto il Mondo Fiorito nonostante la Storia, ma esistono altri “mondi fioriti”, altri giardini incantati che i colonizzatori non riuscirono a vedere. Le donne anishinabe decorano tuttora i tessuti con magnifici disegni floreali così come le donne yaqui ricamano le loro lunghe gonne di fiori sgargianti, le donne wintu scelgono un nome floreale mentre durante le cerimonie primaverili le donne maidu della California si agghindano di fiori spontanei – tra i capelli, sulle vesti, al collo. Anche per loro le terre ancestrali sono un mondo fiorito dal nome di Yo’ngokodo, un mondo che nel Settecento colpì persino gli spagnoli per la varietà di colori e di profumi primaverili.
E Yo’ngokodo esiste ancora, tra i monti oggi chiamati Sutter Buttes, a ricordare che il Creatore diede origine al mondo proprio là, che là creò la stirpe umana e che il centro spirituale, l’ombelico del mondo se volete, si trova proprio laggiù. Una natura così sgargiante e di un’esuberanza così feconda non poteva che essere opera del Creatore, ed è questo che gli europei non colsero.

Essi colsero la bellezza di quel mondo con la limitatezza dei sensi – olfatto, vista, tatto. Essi videro la magnificente imponenza dei campi fioriti californiani, degli altipiani in fiore colombiani, persino i giardini galleggianti – chinampa − che chiudevano ad anello la città azteca di Tenochtitlan, ma null’altro.
Accecati dal luccichio dell’oro persero di vista ogni altra cosa, perdendo così l’opportunità di vedere – e apprezzare − una testimonianza straordinaria della Creazione.
Con qualsiasi nome l’avessero voluta chiamare.

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