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Ombelichi del mondo (di Paola Carini)
7.01.2009
Con rispetto, venerazione, o timore, sin dall’alba dei tempi l’umanità ha variamente prestato culto alle acque e alle rocce: nell’antica Grecia gli oracoli erano spesso situati presso corsi d’acqua, centri di “emanazione del potere profetico delle acque stesse” come ricorda lo studioso di religioni Eliade, e incarnati in dei come Poseidone e in altre divinità minori come Acheloo, re dei fiumi, figlio di Oceano e padre delle Sirene. E se Esiodo ricordava di portare rispetto alle acque con preghiere e aspersioni prima di attraversarle, nel Medioevo i laghetti di origine glaciale profondi e scuri si tinsero di un aspetto inquietante, mentre nei secoli successivi bizzarre supposizioni li vollero abissi insondabili che collegavano tutte le acque del globo. L’aspetto positivo delle acque, che fosse curativo o propiziatorio, persistette nella pratica quotidiana – magari inglobata in rituali di festività cristiane – così come caverne, rocce, montagne o semplici pietre assursero a teofanie, simboli della manifestazione delle divinità che favorivano la fecondità e facevano da tramite tra il mondo dei vivi e quello dei defunti. Le leggende come quella di Excalibur ne conservano la memoria: si narra che la spada di Artù emerse da un lago come dono al giovane sovrano o, in altre versioni, che era conficcata saldamente in una roccia. Il famoso oracolo di Delfi, alle pendici del Parnaso, sorgeva sulla pietra che indicava la morte del mostro Pitone, ucciso da Apollo. Luoghi con simili attribuzioni, disseminati in tutto il pianeta; esistono ancora e sono ritenuti sorgere al centro del mondo e vengono identificati con sorgenti, fiumi, laghi, stagni oppure con pietre, conformazioni rocciose o monti. Sono ombelichi del mondo (omphalos in greco), rappresentazione del bisogno dell’umanità di ritrovare il legame ancestrale che unisce l’essere umano con ciò che si trova oltre sé stesso, laddove la discesa – che sia nel ventre di Gea, la Terra, o in altri mondi – è anzitutto volontà di ritrovarsi.

L’idea di un ombelico del mondo come “anello di congiunzione tra vari piani cosmici” (Eliade), si ritrova un po’ovunque nelle culture e arriva ad inglobare non solamente acque o pietre ma persino agglomerati urbani come Gerusalemme, centro del mondo per tre religioni monoteiste, e la lontana Cuzco, sulla cordigliera andina, concretizzazione del punto di collegamento tra il mondo sotterraneo, quello fisico e quello ultraterreno. Ma se Cuzco, ovvero qosqo, era ombelico di tutto il mondo inca, per le popolazioni pueblo di Arizona e New Mexico l’ombelico del mondo è sia acqua che terra, sia lago che roccia, come il Lago Blu dei taos*. Per tutte esso trova corrispondenza in sipapu**, il passaggio verso i mondi sotterranei che hanno preceduto l’emersione, cioè la genesi. A Walpi esistono tre sipapu, a Zuni esso è presente nella piazza principale come a Isleta, e in entrambi i villaggi si crede che attraverso di essa lo sciamano della città scenda “nel centro esatto dell’ombelico”. Sipapu, vera e propria cavità nella terra, è presente anche all’interno delle kiva, le camere cerimoniali dei pueblo, e tra gli hopi la piccola e tonda copertura di legno che la ricopre viene rimossa in occasione dei riti che vi si svolgono affinché possa avvenire il contatto con le divinità dei mondi sotterranei. Ad Acoma la kiva stessa rappresenta sipapu, ad Oraibi un dipinto su sabbia raffigurante piccoli quadrati concentrici – eseguito cospargendo una base di sabbia indurita con della sabbia colorata, del polline e altre polveri fini − raffigura sipapu da cui gli hopi emersero, ma è tra i tewa che il concetto di ombelico del mondo come fulcro della creazione si fa incredibilmente articolato e sorprendentemente concreto.

Con il termine tewa si indicano le popolazioni autoctone del New Mexico dei villaggi di Nambé, Pojoaque, San Idelfonso, San Juan (in lingua tewa Ohkay Owingeh), Santa Clara e Tesuque. Accomunati dalle varianti di una stessa lingua, il tewa, essi vivono a poca distanza da altri villaggi pueblo, in tutto diciannove comunità differenti. Per i tewa esistono quattro montagne sacre dislocate nei punti cardinali, i rilievi che le coppie di fratelli mitici loro antenati videro per primi quando emersero da Sipofene (Sandy Lake): Conjilon Peak (Picco Nebbioso per i tewa), Tsikomo (Monte di Ossidiana), Sandia Crest (Monte della Tartaruga) e Truchas Peak (Monte dell’Uomo di Pietra). Essi sono i confini del mondo fisico e spirituale tewa, sono l’universo concreto e concettuale in cui scorre l’esistenza, sono punti di riferimento geografici e metafisici che danno ordine al sensibile e narrano l’ultraterreno. In ognuno esiste uno specchio d’acqua o lago ritenuto omphalos perché vi dimorano alcune divinità, ma vi si trova un particolare tipo di ombelico del mondo – più appropriatamente l’ombelico della Terra – chiamato “nan sipu” in cui dimorano le divinità che guidarono i tewa durante l’emersione e che ora vegliano sul loro mondo. Non si tratta di una cavità o di acqua, bensì di pietre sistemate in maniera peculiare con un’apertura a forma “di buco della serratura” nella direzione dei villaggi tewa. L’antropologo tewa Alfonso Ortiz spiega che questo particolare tipo di ombelico del mondo è sia canale di comunicazione col mondo spirituale che ha collocazione sottostante, sia mezzo da cui raccogliere “benedizioni” da dirigere verso i villaggi, intese forse come energie creative, positive, epifanie*** di cui ogni essere umano fa esperienza e declina a modo suo. Esiste poi un terzo omphalos chiamato “luogo mediano dell’ombelico della Terra, di Madre Terra” (nan echu kwi sipu pingeh), situato nella piazza centrale sud del villaggio di San Juan. Esso è il centro dei centri, dice Ortiz, l’ombelico di tutti gli ombelichi, l’ombelico di Madre Terra formato da pietre sistemate in circolo con aperture in tutte le direzioni, perché tutt’attorno ad esso vive e pulsa il mondo dei tewa. All’interno esiste un tunnel, o forse esso stesso è il tunnel, che conduce nel ventre della Terra, nel luogo più sacro in assoluto, ed è in esso che ogni inverno gli sciamani depositano i semi delle colture che danno sostentamento ai tewa. Cerimonie si svolgono in loro prossimità, canti propiziatori e gesti rituali che si ripetono da secoli protetti dalla più inviolabile segretezza. Per chiarire meglio, aggiunge Ortiz, nan sipu è il collettore di tutte quelle energie creative che vengono poi indirizzate verso i villaggi, mentre l’ombelico di Madre Terra è la fonte primaria di quelle energie. Poi ci sono gli ombelichi del mondo degli animali, ad esempio del cervo, situati in punti di confine tra il loro habitat naturale e i campi coltivati. Sebbene esista un clan – il Clan della Donnola – che ha il compito di favorire la stagione di caccia depositando in corrispondenza di questo tipo di omphalos delle offerte votive, ogni persona dei villaggi vi si può recare per assicurarsi un buon carniere. Il rito per questo tipo di ombelico del mondo è semplificato rispetto a quello compiuto all’ombelico di Madre Terra, ma l’essenza non cambia perché un ombelico del mondo, racconta un tewa allo stesso Ortiz, è come un aeroporto: come gli aerei tornano tutti in aeroporto, così animali, persone e spiriti tornano tutti all’ombelico del mondo.

La semplicità di questo assioma è disarmante: tutto ritorna nel luogo in cui ha avuto inizio ed è in questo processo di ritorno che l’uomo può ritrovare sé stesso, e sfiorare con lo sguardo l’incredibile grandezza e vastità del Creato.

*Nell’articolo “Il Lago Blu” di questa rubrica
**In “Creazioni”
***In “Rivelazioni”

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