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L’onere della prova (di Paola Carini)
20.08.2009
“V’ha un’altra celebre quistione, a cui ha principalmente dato luogo la scoperta del nuovo mondo. Si domanda se una Nazione può legittimamente occupare qualche parte di una vasta contrada nella quale non trovansi che popoli erranti, incapaci per lo scarso loro numero di abitarla tutta intera… Quei popoli non possono attribuirsi più terreno di quel che loro abbisogna e che sono in istato di abitare e coltivare. La loro abitazione in quelle immense regioni non può passare per un vero possesso legittimamente preso, ed i popoli dell’Europa, troppo ristretti nel loro paese, trovando un terreno di cui i selvaggi non avevano alcun bisogno particolare, e non facevano alcun uso attuale e costante, poterono legittimamente occuparlo e stabilirvi Colonia…Non è dunque un traviare dalle mire della natura, ridu[rre] i selvaggi entro a più angusti confini”.
Così scriveva, in piena età dei lumi, il giureconsulto svizzero Emmerich De Vattel nel primo tomo della sua vasta opera a proposito dei diritti intrinseci – la legge naturale − degli esseri umani, delle nazioni, dei sovrani.
Questa tesi, insieme ad un vasto corpus di teorie filosofico-politiche settecentesche, influenzò fortemente l’atteggiamento dei colonizzatori, giustificando intellettualmente tutto ciò che sarebbe seguito − il diritto a possedere e il diritto ad eliminare ogni ostacolo pur di ottenerlo − con un aggravio ulteriore, più sottile, meno apparente ma in prospettiva più devastante: l’onere della prova, l’obbligo, per gli indiani, di dimostrare sempre di rispondere alle aspettative, di rientrare negli schemi, di essere quello che ci si aspettava che fossero. Una cosa così subdola da sopravvivere sino ai giorni nostri nelle coscienze dei nativo-americani.

Gli yupiak del sudovest dell’Alaska ricordano un tempo lontano, nunam qainga mamkillrani, il tempo in cui “la crosta terrestre era sottile”, nel quale il legame tra ogni essere vivente era così stretto che gli animali potevano trasformarsi in esseri umani e gli esseri umani divenire animali, quando la comunicazione tra le specie era possibile e frequente, quando il ruolo di ognuno e di ogni cosa era funzionale allo svolgersi armonioso dell’esistenza del tutto e di tutti. Sostentandosi attraverso la pesca, la caccia e la raccolta, per secoli gli yupiak condussero un’esistenza di condivisione delle risorse di terra e acqua. Nessuno mai si sarebbe sognato di possedere un pezzo di terra, una pianta o uno specchio d’acqua, perchè non era necessario il possesso per vivere come intendevano gli yupiak. In una singola parola, ella, essi condensano il modo di intendere il mondo e il modo di intendere sé stessi, il concetto di terra, di cielo, di universo, di energia del creato e di coscienza. Una consapevolezza riassunta in quattro lettere che i colonizzatori non avrebbero mai compreso.

Gli hopi dei villaggi dell’Arizona sono ancora oggi popolazioni agricole. Nei loro racconti sulla Creazione si narra che gli esseri umani ricevettero in dono dal Creatore delle pannocchie di granturco; agli hopi toccarono le più piccole, quelle dalla colorazione blu. Granturco, meloni, fagioli, zucche, piselli, cipolle, carote e alberi da frutto sono da secoli le colture praticate dagli hopi in zone particolarmente secche come quelle delle mesa. Utilizzando ingegnosi sistemi di irrigazione che sfruttano sia lo scioglimento delle nevi dei picchi montuosi sia le scarse piogge estive delle zone meno elevate, gli hopi riescono a trasformare terreni difficili compresi tra i 1400 e i 1700 metri di quota in orti e giardini. Secondo la loro Genesi, quando emersero in questo mondo, il quarto, gli hopi sapevano che l’esistenza sarebbe stata difficile, ma accettarono la piccola, modesta pannocchia di mais dai chicchi blu. Fu un atto prorompente di fiducia, di attesa, di pazienza e di speranza che avrebbe plasmato irrevocabilmente il modo di essere e di pensare di generazioni di hopi. Fu una consapevolezza che i colonizzatori, nemmeno in questo caso, avrebbero mai compreso.

La sorte di entrambe queste popolazioni fu identica a quella di tutte le altre nazioni indiane, che fossero civiltà agricole o meno. Laddove esse vedevano l’invisibile ordito dei fili della Creazione che teneva insieme il mondo e le esistenze, gli europei vedevano terra da coltivare, sfruttare, vendere. Sulla vita umana come ricerca incessante di armonia dentro e fuori di sé, gli europei imposero l’angustia dei recinti concettuali e l’infallibilità statica dei dogmi. In un continente in cui milioni di persone ritenevano che “la pace più importante”, cioè quella che riempie l’anima, avviene “quando gli uomini traducono in realtà la loro…unità con l’universo… quando si rendono conto che al centro dell’universo dimora il Creatore e che “in realtà questo centro è in ogni punto, in ognuno di noi”, come ricordava Alce Nero, l’onda lunga della conquista traboccò, e avrebbe continuato a sommergere, implacabile, paesaggi e coscienze.

Da qualche anno a questa parte la produzione letteraria di scrittori di origini nativo-americane ha assunto dimensioni rilevanti per quantità e qualità. Essendo difficilmente inquadrabile nei generi classici, essa ha ingenerato un nuovo, originale filone di critica letteraria imprescindibile dall’analisi del sostrato tribale che arricchisce romanzi, racconti e poesie. E da qui è nata una curiosa diatriba intellettuale che sta attraversando gli ambienti accademici: chi ha le competenze per analizzare una tale opera letteraria? Un critico letterario qualsiasi oppure un critico letterario di discendenza nativo-americana? E appartenente a quale nazione tribale? La stessa dello scrittore, oppure no?
Millantatori a parte, uno scrittore mezzosangue magari non affiliato a nessuna nazione indiana o cresciuto lontano dalla riserva, può essere preso in considerazione in quanto scrittore nativo-americano e scrivere di cose tribali, oppure è scartato a priori perché manchevole di requisiti quali il riconoscimento ufficiale o la frequentazione della comunità tribale?

Riassumendo, chi può scrivere letteratura definita “nativo-americana”? E chi la può commentare?

Chi si pone questa domanda presuppone parametri pregressi, criteri inoppugnabili, principi inossidabili che costruiscono una visione etnocentrica, cioè dall’interno, che non fa sconti a nessuno, né “ai traditori interni, né agli oppressori esterni”. Affermazioni dal carattere così bellicoso, espresse a più riprese da alcuni intellettuali indiani, oltre che a negare la realtà che la maggioranza degli scrittori nativo-americani di oggi è di sangue misto, (come lo è la gran parte dei nativo-americani) pretendono lo stesso incasellamento senza sbavature che i colonizzatori per primi pretesero. È l’onere della prova che si esige, la prova di essere quello che qualcun altro ha stabilito che si debba essere. È una guerra che fomenta l’opposizione tra “indiani veri e indiani virtuali, indiani delle riserve e quelli nell’accademia, tra oralità e scrittura, tra autodeterminazione e multiculturalismo”, come afferma lo studioso bianco adottato dai lakota Kenneth Lincoln. Rifiutare ciò che non rientra negli schemi predeterminati come la parte bianca della propria discendenza è rifiutare sé stessi, gli fa eco la scrittrice e musicista muskogee Joy Harjo. Ma soprattutto, come profetizzava Alce Nero, “non ci sarà mai pace” tra le persone “se non si conosce la prima vera pace…la pace dell’anima”, quella cioè che non esige nulla e che non teme nulla, tanto meno le differenze.

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