28.06.2007
I pensionati finanziano il bilancio pubblicodi Carlo Clericetti
Il dato è contenuto nel “Rapporto sullo Stato sociale 2007” presentato a Roma alla Sapienza. Bisogna infatti considerare anche le imposte che vengono pagate sulle pensioni. I poveri in Italia sopra la media europea
Sono i pensionati che finanziano il bilancio pubblico, e non viceversa. L’affermazione, decisamente controcorrente, è contenuta nel “Rapporto sullo Stato sociale 2007”, presentato oggi, 27 giugno, all’università di Roma La Sapienza. La tesi è sostanziata da una tabella a pagina 231 del Rapporto. Il saldo tra spesa e prestazioni è negativo per circa 50 miliardi di euro, ma 30 di questi sono dovuti a prestazioni assistenziali (quelle a fronte delle quali non ci sono contributi versati e dovrebbero dunque essere poste a carico della fiscalità generale); rimarrebbe un deficit di 20 miliardi, ma lo Stato ne incassa quasi 28 dalla normale tassazione sul reddito dei pensionati. Alla fine, dunque, il saldo risulta attivo per il bilancio pubblico, per quasi 7.300 miliardi.
Il Rapporto, curato come ogni anno dall’economista Felice Roberto Pizzuti e promosso dal Dipartimento di economia pubblica della Sapienza e dal Criss (Centro di ricerca interuniversitario sullo Stato sociale, presieduto da Maurizio Franzini), contesta a suon di cifre una serie di affermazioni considerate scontate nel dibattito economico-politico. Sul costo dell’abolizione dello “scalone” previdenziale, per esempio: negli attuali conteggi, osserva il Rapporto, non si considera che la prospettiva dello “scalone” ha già modificato i comportamenti, accelerando la “fuga” dal lavoro di chi ha potuto permetterselo, mentre molti sono comunque obbligati a rimanere il più possibile – a prescindere da qualsiasi norma – per procrastinare la riduzione del reddito che avranno andando in pensione. Se si rifanno i conti tenendo conto di questi fattori, il costo dell’abolizione – o della trasformazione dello scalone di tre anni in tre scalini da un anno – risulta assai ridotto.
Quanto alla famosa “gobba”, cioè l’aumento della spesa per pensioni previsto intorno al 2030, era stata calcolata stimando l’ingresso di 150.000 lavoratori stranieri l’anno, ma la media degli ultimi anni è stata un numero più che doppio: tutti lavoratori che verseranno contributi che non erano stati considerati, facendo così sparire la “gobba”.
Quella sulla previdenza è solo una delle sezioni del rapporto, che si occupa anche di sanità , inclusione sociale, formazione, problemi del mercato del lavoro.
Si rileva per esempio che le persone a rischio di povertà sono da noi oltre il 19%, contro una media europea del 16; ma nelle regioni meridionali l’incidenza della povertà è ben cinque volte maggiore rispetto alle regioni del nord.
Quanto poi al mercato del lavoro, la parola d’ordine in tutta Europa è da alcuni anni “flexicurity”, cioè aumentarne la flessibilità ma nello stesso tempo garantire alle persone una certa sicurezza, sia come sostegno economico nei periodi di disoccupazione, sia come formazione e altre politiche attive per il passaggio ad un nuovo lavoro. In Italia, però, è stata attuata solo la prima parte di questo programma, ossia la flessibilità del lavoro: l’indicatore Ocse sul grado di protezione legislativa del lavoro colloca il nostro paese nella metà più bassa della classifica. A fronte di questo, le garanzie sono del tutto insufficienti e per intere categorie semplicemente inesistenti. Oltretutto, le categorie meno protette nel mondo del lavoro non staranno meglio quando andranno in pensione, perché con i loro versamenti bassi e discontinui avranno assegni che li collocheranno senz’altro entro i livelli di povertà . Insomma, conclude il Rapporto, da noi la flessibilità viene vista solo come un modo per ridurre il costo del lavoro, a vantaggio, quindi, di imprese poco competitive e poco innovative, invece di essere utilizzata per rendere più dinamico il sistema produttivo.
Il Rapporto, insomma, offre al dibattito una serie di dati e di analisi che, come ha osservato Luciano Gallino, uno dei relatori, dovrebbero essere alla base dell’attuale discussione sulle riforme dello Stato sociale, mentre sembra che ben pochi le conoscano.
(27 giugno 2007)
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