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I 60 anni di Israele. Fragile, ma non debole
7.05.2008
Maria Grazia Enardu in www.affarinternazionali.it
Il 60° anniversario di Israele coincide con un anno di paralisi armata, di attesa di sviluppi che nessuno sa o vuole prevedere.

Una ricorrenza che ha anche un aspetto surreale: il presidente americano più screditato arriva a Gerusalemme per festeggiare con un primo ministro israeliano impopolare e sotto inchiesta - di nuovo - per non precisate accuse, si sa solo che la faccenda è seria, più del rapporto Winograd.

Sul fronte diplomatico è tutto fermo, un\'immobilità resa più evidente dall\'agitarsi di molti, come il segretario di stato Rice, alla sua ennesima visita per caldeggiare un bizzarro shelf agreement, un accordo da firmare e non applicare. O come i costanti tentativi egiziani di trovare una soluzione, ovviamente temporanea, che eviti il collasso o l\'esplosione di Gaza.

Re Abdullah di Giordania continua ad ammonire che rimane poco tempo, più o meno le stesse parole del primo ministro palestinese Fayyad, in bilico tra la debolezza di Abu Mazen e la necessità di recuperare le aree controllate da Hamas.

I rapporti tra Israele e Siria sono, a dir poco, assai complessi, ma una cosa è chiara: se il prezzo della pace è il Golan, annesso nel 1981, e se il confine rimane tranquillo, le cose rimarranno come sono, e a lungo. Anche perché la sola idea di un altro sgombero è del tutto impraticabile per un debole governo Olmert e fuori questione per un eventuale governo Netanyahu.

Il governo israeliano ha un ministro della Difesa di indubbia competenza come Ehud Barak, che vuole restituire alle forze armate il prestigio perso nel 2006, ma anche leader di un partito laburista in difficoltà. Barak sa bene che per prepararsi alle prossime elezioni è meglio proiettare un\'immagine di forza, in grado di competere con la destra. Le operazioni militari contro Gaza non hanno solo lo scopo di fermare i razzi Qassam su Sderot ma soprattutto di dimostrare che Hamas non deve avere un ruolo politico, né contro Abu Mazen né - men che mai - assieme a lui.

Il fattore America
Però ogni ragionamento, ogni scenario, dipende dalle elezioni americane del prossimo novembre. Israele spera in McCain, confida in Clinton, diffida di Obama. La vittoria di McCain avrebbe l\'indubbio vantaggio di non mutare troppo la linea di Washington nell\'area, non nel breve periodo. Questo renderebbe la cesura tra le due amministrazioni più breve e prevedibile, mentre un\'amministrazione democratica avrebbe bisogno di un più lungo periodo di orientamento.

Quindi la paralisi di oggi è di lunga durata, almeno un anno, con il pericolo che - per renderla meno evidente o per puro incidente - si scivoli in complicazioni militari, nella tentazione di far politica con le armi in mancanza di altre idee. Uno dei dogmi militari di Israele è che gli arabi capiscono solo la forza e che, quando non capiscono, occorre usare più forza. Teoria che ha una sua ovvia logica, ma che dimentica una delle più semplici lezioni della storia: non si può essere forti sempre.

I 60 anni di Israele comprendono 40 anni di occupazione, o meglio del ritorno alla Giudea e Samaria cuore dell\'antico Israele, e 20 anni di scontri nei territori tra esercito e palestinesi. Due generazioni di palestinesi che sono come rafforzati dalla disperazione, dalla loro debolezza politica, ma soprattutto dall\'incapacità di Israele di venir fuori dall\'impasse dell\'occupazione.

Se lo sgombero da Gaza è stato traumatico, ma implacabilmente condotto a termine da Sharon, l\'idea di un ritiro dal Golan richiede un governo e una maggioranza che non esistono, nemmeno con elezioni future. Anche perché molti, coloni e non, lo vedrebbero come la prova del supersgombero dal West Bank e quindi vi si opporranno per principio e a qualunque costo.

Due Stati
La tragedia è che la maggioranza degli israeliani vuole due Stati e un consistente ritiro dal West Bank, ma - appunto - lo vuole. Non è in grado di compiere il passo successivo: esprimere una maggioranza capace di trattare i termini con i palestinesi e soprattutto di attuare lo sgombero di alcune decine di migliaia di persone. Oltre che un problema di volontà politica, è anche un incubo economico: il ritiro da Gaza è costato cifre astronomiche, ed erano pochi coloni. Ma sopra ogni cosa c\'è la paura di spaccare il paese, rischiare il rifiuto di obbedienza dell\'esercito, evocare l\'incubo del terrorismo di ebrei contro ebrei.

Perché Israele è un paese di profonde fissure interne, mai affrontate, la più grave è quella tra laici e religiosi, ma è assai duro anche il contrasto tra ultraortodossi e ortodossi moderni, e inoltre parecchie altre componenti della società stentano a trovare un terreno comune. Questo capita in tutte le moderne società capitaliste, come l\'Israele di oggi, ma molti ancora ricordano il paese degli anni \'50, povero, socialista, statalista, puritano, e soprattutto coeso, perlomeno in apparenza.

Un secolo e passa di sionismo, e 60 di sionismo compiuto, hanno creato un paese che si definisce Stato degli ebrei - ma non degli israeliani. Il sionismo è un nazionalismo particolarmente esclusivo, a somma zero e poco incline a considerare valore aggiunto la presenza in Israele di un 20% di cittadini mussulmani o cristiani - ovvero arabi. Una minoranza che non diventerà mai maggioranza, ma che rivendica diritti, ruoli, responsabilità e li vuole dentro Israele, poiché è decisamente contraria a ogni forma di inclusione in un ipotetico Stato palestinese, largo o stretto che sia.

Così Israele, che è una democrazia e tale vuole rimanere, si avvia scalciando ad essere nei prossimi decenni uno stato binazionale asimmetrico: gli ebrei come nazione primaria che si vede anche come unica, e gli altri, alla ricerca di una loro affascinante e difficile identità, quella di arabi-israeliani. Chissà, forse risorgerà dalle pagine di vecchi libri di storia un fenomeno carsico, il sionismo binazionale, riveduto e corretto per i prossimi decenni.

Confronto con i palestinesi
Una potenza militare regionale come Israele, con il suo arsenale atomico, non ha una vera strategia per creare la pace in casa, e per tracciare linee condominiali in accordo con i palestinesi. Costoro invece paiono aver trovato una semplice e terribile linea di fondo: consumarsi e consumare l\'avversario. Il prezzo sarà altissimo, per loro come anche per gli israeliani, ma se non vedranno altra scelta lo pagheranno. Ogni altra questione, da Hezbollah all\'Iran, poggia sulla soluzione, in tempi non irragionevoli, del confronto con i palestinesi. E preoccuparsi di Iran o Siria o Libano può addirittura essere una pericolosa distrazione dal vero problema di fondo, un modo per evitarlo o rimandarlo.

Amos Oz ha detto che Israele vive su un vulcano e pochi giorni fa David Grossman su «The Atlantic Monthly» (Jeffrey Goldberg, Unforgiven, maggio 2008) ha parlato della fragilità del suo paese. Fragilità non significa debolezza, ma presenza di punti di rottura, di faglie più o meno visibili, come le divisioni interne e soprattutto l\'assenza di leader e di una classe politica in grado di guidare il paese in una difficile retromarcia dal West Bank. Se l\'orizzonte temporale più realistico prevede uno stallo fino a buona parte del 2009, l\'augurio più sincero a Israele è di arrivare al suo prossimo compleanno senza troppi errori, e soprattutto con un quadro internazionale più chiaro. Magari accettando un ruolo più incisivo dell\'Unione Europea, che ha alle spalle più di 60 anni di pace vera, e vuole esportare il suo modello, ma in pace.

Maria Grazia Enardu è ricercatrice in Storia delle relazioni internazionali, Facoltà di Scienze Politiche, Firenze.

da www.affarinternazionali.it


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