19.11.2006
Friedman è morto… e il liberismo non sta troppo bene
Il gigante dell’economia ultraliberista si è spento a 94 anni, tre decenni dopo l’assegnazione del premio Nobel alle sue teorie monetariste. A lui si ispirò la “reaganomics” degli anni Ottanta, ed il “thatcherismo” britannico; purtroppo anche la devastante politica economica del generale Pinochet nel Cile spettrale del dopo-golpe e del dopo-Allende.
Come molti dei grandi, Milton Friedman fu un ortodosso, un ideologo, un dogmatico, un metafisico, nel suo caso dell’economia; un Aristotele in perenne ed eclatante contrasto con ogni evidenza empirica. Nessuno più di lui ha portato avanti, fino al paradosso eleatico del tipo “Achille e la tartaruga”, l’improbabile assioma di Adam Smith sulla “mano invisibile”, e cioè su quel provvidenziale disegno “divino” – con riferimento invero ad una più prosaica divinità quale il dio Denaro – che trasformerebbe per incanto l’egoismo di pochi nel benessere di molti, se non proprio di tutti.
E’ il capitalismo dei sogni e dei miracoli, quello descritto da Friedman sulla scia del padre nobile dell’economia politica, ma con l’aggravante di un paio di secoli di clamorose smentite sperimentali.
Imperturbabile, il teorico del monetarismo ha perpetuato l’assioma ultraliberista ignorando bellamente la dura lezione del 1929: il più celebre crollo di Wall Street, lucidamente previsto dal marxista Henryk Grossman esattamente un anno prima in base all’analisi oggettiva di un mercato impazzito, aveva secondo Friedman cause differenti, che andavano ricercate piuttosto nel ruolo delle autorità monetarie.
Inossidabile, in lui, la convinzione che il “libero mercato” non può mai fallire. Tutto il keynesismo, il “New Deal” di Roosevelt e il Welfare State sarebbero dunque nati sopra un equivoco, generati da un clamoroso fraintendimento delle cause della crisi e della depressione degli anni Trenta.
Né la sovrapproduzione latente o conclamata, né il periodico calo dei tassi di profitto, né il cronico sottoconsumo delle masse sono riusciti a far vacillare il granitico credo “miltoniano” nelle virtù taumaturgiche del lassez-faire. Lo stato, coi suoi nefasti “lacci e lacciuoli”, è sempre rimasto per lui il nemico pubblico numero uno. “Capitalismo e libertà ”, il binomio che campeggia sulla copertina del suo libro forse più letto, questo “ircocervo”, questa contraddizione in termini, a lui pareva invece il più logico e comprovato dei sinonimi...
«Chi non crede nel libero mercato capitalistico, non crede nella libertà »: ecco un irrinunciabile postulato della dottrina (o catechismo) del grande saggio ultraliberista.
Peccato che i primi a non credere nel libero mercato siano gli stessi... liberi mercanti, pronti a chiedere ad ogni pie’ sospinto il confortante appoggio dello Stato per difendere i propri privilegi monopolisti, la propria dittatura su quel che resta del “libero” mercato.
Come dice Chomsky, “nessun capitalista moderno crede nel libero mercato”. Così mentre i dottrinari fideistici come Friedman erano impegnati a difendere l’ultimo bastione dell’ortodossia dogmatica, i capitalisti reali se ne infischiavano altamente degli adamantini precetti alla Smith costruendo il mostruoso sistema delle “giant corporation” multinazionali, autentici imperi assoluti, sottratti a qualsiasi garanzia democratica ed elettiva, “monadi” senza porte né finestre (come direbbe Leibniz) con le quali si arrocca l’attuale capitale finanziario globalizzato. Nulla a che vedere, ça va sans dire, con la libertà in tutte le sue sfaccettature.
Al di là del dibattito su quale delle due maggiori teorie economiche novecentesche, quella di Friedman e quella di Keynes, sia più attuale ed efficace secondo il criterio dell’utilitarismo, bisogna adottare il punto di vista di John Rawls, altro colosso della cultura anglosassone contemporanea: non l’utilità ma la giustizia dev’essere il valore fondante delle scelte politiche e sociali.
E la dottrina monetarista, ammesso e non concesso che si rivelasse “utile” per il sistema capitalistico, non è affatto “giusta” da quel punto di vista sociale verso il quale Friedman ostentava il più cinico disinteresse, ma che invece merita di essere preso in esame da qualunque persona “kantianamente” etica e razionale, cioè disinteressata.
Il fondamentale criterio di giustizia, secondo Rawls, porta a rifiutare teorie anche economicamente efficaci, qualora esse determinino effetti collaterali dannosi per i ceti “meno avvantaggiati”, e gli effetti sociali dell’ultraliberismo sono stati devastanti per la classe lavoratrice e gli strati sociali più deboli, senza peraltro che la selvaggia applicazione dei principi di Friedman abbia condotto il capitalismo stesso oltre i suoi limiti strutturali.
Se il grande “tolemaico” è morto come maestro ben prima che come individuo, il “copernicano” Keynes non è mai apparso così vivo.
Di fronte all’evidente incapacità del “mercato” di realizzare le sue stesse promesse (libertà ed efficienza), il rilancio di un “Welfare” opportunamente rinnovato è dovunque all’ordine del giorno.
E l’ormai fatale declino del “bushismo”, dopo quello del reaganismo, apre anche negli Usa nuovi orizzonti economici e sociali alle forze democratiche.
Come lo stregone che non riesce più a controllare le potenze demoniache che ha appena evocato, il liberismo “neocon” ha seminato in casa propria e nel mondo macerie economiche, sociali (vedi i diritti umani vergognosamente calpestati) e materiali, vedi il terrorismo e le guerre volute dall’imperialismo per lucrare quei vantaggi vanamente promessi dal bengodi friedmaniano; guasti epocali ai quali solo un nuovo e intelligente interventismo statale, di impronta questa volta radicalmente democratica e sburocratizzata, potrà porre rimedio.
Prima che sia troppo tardi per l’umanità e per l’ambiente naturale.
di Giancarlo Iacchini
sabato 18 Novembre 2006
Associazione “Movimento RadicalSocialista”
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