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I diktat ci portano a un binario morto (di Stefano Ceccanti)
4.11.2005
La discussione sul Concordato rischia di portarci su un binario morto tra concordatari accusati di difendere spazi di confessionalismo e anti-concordatari accusati di atteggiamenti anti-religiosi.

Ripartiamo allora da alcuni dati della realtà. In primo luogo dobbiamo aver presenti le incongruenze del sistema di cui il Concordato fa parte: ci sono alcuni tasselli mancanti del rapporto tra Stato e confessioni religiose, una legge sulla libertà religiosa in grado di svilupparne pienamente le potenzialità della Costituzione (l'ha bloccata sinora la Lega Nord) e un perfezionamento del sistema delle intese con le confessioni più rilevanti (Buddisti e Testimoni di Geova l'hanno siglata, ma le leggi applicative sono state sabotate, è aperto il nodo di quella con l'Islam, su cui è difficile individuare le rappresentanze, ma non per questo è meno urgente).

È evidente che l'Unione può e deve prendere posizione su questi aspetti, su cui fu peraltro molto attivo il governo Prodi I.

In secondo luogo bisogna distinguere nettamente i contenuti sanciti nel Concordato o da intese da esso derivanti e il metodo patrizio utilizzato. I primi, per loro natura, meritano di essere periodicamente aggiornati; il secondo è difficilmente superabile e, quand'anche lo fosse, non è detto che le conseguenze sarebbero positive.

Se non si tiene conto di questa distinzione si rischia di caricare le legittime insoddisfazioni per alcuni contenuti sul metodo pattizio o di ritenere immutabili norme che dopo vent'anni possono e debbono mutare perché muta il pluralismo religioso nelle nostre società. Il primo esempio che viene in mente è quello dell'insegnamento della religione nelle scuole pubbliche con un equilibrio che rispetto alle sfide di comprensione reciproca tra persone e culture ci appare di basso profilo: lo scambio tra il carattere meramente opzionale di un insegnamento in cui si concentrano quelle nozioni e il suo controllo confessionale (a partire dal reclutamento degli insegnanti) non sembra all'altezza dell'Italia del 2005.

Non esistono vie d'uscita univoche, ma se si escludono le scorciatoie opposte del laicismo e del clericalismo, che entrambe vorrebbero negare la possibilità di un confronto critico e scientifico sulle religioni (o perché mere superstizioni o perché oggetto di assenso passivo e acritico) un legislatore creativo ha di fronte a sé spazi interessanti.

Per innovare su questo e altri terreni non c'è bisogno di eliminare il Concordato: in alcuni casi perché si tratta di decisioni che appartengono per intero al legislatore, in altri perché i patti si possono rinegoziare. Del resto in nessuno dei paesi concordatari la laicità dello Stato si è affermata facendo tabula rasa dei vecchi accordi e del metodo del consenso, ma eliminandone gli aspetti meno accettabili per gli stati costituzionali odierni.

Zapatero non ha denunciato gli accordi con la Chiesa cattolica, né lo hanno fatto i governi portoghesi di opposta tendenza che hanno anzi prodotto un nuovo Concordato nel 2004 e persino la Francia lascia tuttora sopravvivere il Concordato napoleonico in Alsazia e Mosella.

Ci sarebbero ostacoli insormontabili ad aggiornare contenuti con la Chiesa di Benedetto XVI?

È evidente che se si ragiona in termini di diktat unilaterali di breve periodo ciò non facilita il dialogo, ma è sbagliato cogliere nella fase attuale della Chiesa un orientamento omogeneo nel segno delle chiusure.

Si è appena concluso un Sinodo dove questioni date per risolte nel lungo pontificato di Giovanni Paolo II, secondo alcuni neanche discutibili perché discendenti direttamente dal Vangelo, sono state invece apertamente dibattute prospettando varie alternative, anche col ricorso a metodi di intervento brevi, simili a quelli adottati nei più moderni Parlamenti: per ora le conclusioni non sono mutate, anche se alcune sfumature finali (ad esempio sui politici cattolici) presentano significative diversità con gli approcci più intransigenti, ma il dibattito è già una discontinuità e in una società aperta tutti possono influenzare tutti, con le debite forme.

Per di più, se si elimina il metodo patrizio e si affida tutto alla legislazione dello Stato, è dubbio che ciò si traduca in un minore interventismo della Chiesa.

Se infatti essa si trova di fronte a uno Stato che negozia e che agisce attraverso il consenso, dedicherà molte delle sue energie al negoziato, ma se invece alcuni aspetti chiave della sua presenza sono rimessi ai soli parlamentari e governanti, è inevitabile che la spinta a premere su questi ultimi sia maggiore.

I Concordati non sono solo un riconoscimento dell'influenza della Chiesa, sono anche un modo per regolarla. Infine una sottolineatura politica: le preoccupazioni per forme di protagonismo diretto dell'episcopato sono certo legittime, ma non devono perdere di vista che il nostro problema non è dato dalla forza di chi pone le richieste, quanto dalla debolezza del quadro politico, dalla frammentazione che spesso non consente risposte politiche di spessore e di lungo periodo, capaci di discernere i sì, i no e ni che vanno pronunciati sotto la propria responsabilità.

Non è chi non veda che le primarie dell'Unione e la prospettiva del partito democratico, una forza del 35%, hanno radicalmente ridimensionato quei pericoli sul piano politico: intorno alla candidatura di Romano Prodi si è ricreato un consenso nell'area cattolica, nei quadri dell'associazionismo diffuso, paragonabile a quello degli inizi dell'Ulivo, che si è estesa anche a molti di coloro che a differenza di Prodi si erano astenuti sul referendum.

Un aneddoto su tutti: la prima bandiera dell'Ulivo, del 1995, in Piazza Ss. Apostoli, la sera del 16 ottobre, era sventolata da un giovane di nome Vittorio Bachelet, nipote ed omonimo di una personalità che ha dimostrato la piena conciliabilità di laicità e ispirazione religiosa.

Se c'è di nuovo l'Ulivo, e quindi la prospettiva di un fecondo incontro nella società tra laici e cattolici, nessun uomo di Chiesa, neanche il più prevenuto, può prescinderne nelle sue modalità di intervento.

Di fronte a questa novità politica è allora giusto dibattere di norme da aggiornare, in una logica incrementale e non di cambio radicale tra i modelli.

Senza scordarci che la vera garanzia di una visione equilibrata della laicità risiede nell'offerta politica prima che in norme giuridiche, che vengono dopo, come sue conseguenze coerenti. Fonte: www.ilriformista.it
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