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Quando eravamo immigrati
20.11.2005
di Corrado Stajano / L’Unità
Se si pensa all’odio urlato dalla Lega contro gli immigrati non possono non venire in mente i 26 milioni di italiani che, almeno dall’Ottocento, partirono sulle navi della speranza in cerca di lavoro e di una vita migliore. Molti di loro ce l’hanno fatta, tanti altri, invece, sono stati sconfitti, hanno avuto vite grame, trattati come non uomini, considerati sull'ultimo gradino della scala sociale, poco più dei negri.

Sfruttati, taglieggiati, umiliati, vittime di linciaggi. A New Orleans, nel 1891, undici vittime, a Walsenburg, nel 1895, sei vittime, a Tallulah, nel 1896, cinque vittime. Accadde anche a Denver, a Zurigo, altrove. I settimanali italiani di allora, Il Secolo Illustrato, la Tribuna Illustrata dedicarono a quei fatti atroci la tavola di copertina.

Gli italiani venivano beffeggiati, visti come eterni mandolinisti, lustrascarpe, ladri e assassini. Lo testimoniano le vignette dei giornali dell’epoca, soprattutto negli Stati Uniti. L’ingiustizia di cui gli immigrati furono vittime nasceva dalla xenofobia, dai pregiudizi razziali, dal timore che l’ondata migratoria provocasse negative ripercussioni economiche. Proprio come oggi, coi migranti che approdano alle nostre coste dal Nord Africa o entrano dalle frontiere del Nord-Est, sudditi di quel che era l’impero sovietico, l’ex Jugoslavia, l’Albania.

L’Italia fu un grande Paese di migranti. Alla fine dell’Ottocento, negli anni Venti del Novecento, dopo la seconda guerra mondiale. È così corta la memoria? O comportarsi con il cieco furore usato dai leghisti rappresenta la rivalsa su un passato che nella sovrana ignoranza si vuole cancellare, come se non fosse mai esistito?

Una ponderosa opera di Francesco Durante, Italoamericana, in due volumi pubblicati di recente da Mondadori (1776-1880 il primo, 1880-1943 il secondo) documenta attraverso testimonianze di grande interesse le vite vissute, spesso perdute, di tanti italiani andati all’avventura. Adesso a Lucca è appena stato inaugurato il Museo Paolo Cresci per la storia dell’emigrazione italiana (Cappellina Santa Maria della Rotonda, via Vittorio Emanuele 3). Fotografo scientifico presso l’università di Firenze, nato nel 1943, morto nel 1997, Cresci è stato per tutta la vita un appassionato ricercatore, collezionista di documenti, fotografie, oggetti che contribuiscono ad arricchire saperi e conoscenze su questo fenomeno di estrema contemporaneità.

Una valigia di fibra nel mezzo del piccolo museo è il simbolo della cruda avventura. Costava 5 lire, nel 1910. Un baule di legno e un fagotto completano l’equipaggiamento. Più di 10 milioni di italiani partirono dal Sud e dalle isole, 5 milioni dal Centro, 5 milioni e mezzo dal Nord-Est, 5 milioni dal Nord-Ovest. Veneti, campani, siciliani, lombardi, piemontesi e calabresi. Meta furono soprattutto, con gli Stati Uniti, l’Argentina, il Brasile, il Canada, e, in Europa, la Svizzera, la Germania, la Gran Bretagna. Sulle pareti del museo si snoda un documentario di dure esistenze fatto di piccoli segni.

Mancava il lavoro, in Italia. L’agricoltura, alla fine dell’Ottocento, era minacciata dall’importazione a basso prezzo del grano americano, l’industria nascente danneggiava i negozi artigiani, la concorrenza dei Paesi europei non faceva sconti. Il biglietto del bastimento da Napoli a New York costava 150 lire in terza classe, il prezzo per il Sudamerica era più alto. Chissà quale destino ha avuto Maria Giuseppa Colarusso di Avellino che nel 1896 si imbarcò per New York con la famiglia? E quale destino avrà avuto Giuseppe Masini di Castiglione di Garfagnana che nel 1927 se ne andò in Brasile?

Che cosa facevano gli emigranti, nella sognata Merica, superato il pauroso esame di Ellis Island? I camerieri, gli sguatteri, i cuochi, i manovali nei lavori pesanti, ferrovie, strade, gallerie, bonifica dei terreni, il taglio della canna da zucchero. Le donne, spesso l’anello forte della famiglia, lavoravano anch’esse, balie, domestiche, lavandaie, operaie nell’industria tessile.

C’erano poi gli ambulanti, gli spazzacamini, i gelatai. E c’erano i sarti e i figurinai della Lucchesia. Vivevano in indecenti tuguri. In campagna dormivano con le capre, i polli, i maiali; in città, a Little Italy, in grandi casoni fatiscenti, i tenement in Brasile in edifici adattati alla meglio, i conventillos.Il legame con i compaesani era essenziale. Si liberavano via via dalla sudditanza con i padroni risparmiando allo spasimo, aprendo piccoli spacci di alimentari frequentati dalla comunità italiana, e poi locali di maggiore importanza come Luisa Cristofani, fiera nella fotografia con il marito e alcuni “bordanti” davanti al “Firenze Saloon”, in California, alla fine dell’Ottocento.

 

Vedi il seguito su L’Unità: http://www.unita.it/index.asp?SEZIONE_COD=EDITO&TOPIC_TIPO=E&TOPIC_ID=45791

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