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Qualche domanda scomoda al compagno Minniti |
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21.08.2007
di Emanuele Macaluso da Il Riformista del 21 agosto 2007
Dopo la strage di Duisburg, abbiamo letto corrispondenze, analisi, interviste sulla mafia calabrese e la sua internazionalizzazione. Il tema è stato affrontato dal viceministro degli Interni, Marco Minniti, il quale è anche il leader dei Ds calabresi e del costituendo Pd, in un colloquio con Giuseppe D'Avanzo resocontato su Repubblica di sabato scorso. Ed è su questo colloquio che voglio soffermarmi. Anche perché Minniti comincia il suo discorso descrivendo bene la situazione in cui impera la 'ndrangheta: «I luoghi, tra Platì, San Luca, Africo ecc, sono poveri o poverissimi; le famiglie che li abitano sono ricche, o molto ricche, o straordinariamente ricche. Vivono protette, quasi rinserrate nei legami di sangue, in un familismo inviolabile e autoreferenziale che sembra escluderle dal mondo e sono capaci di avere con il mondo le frenetiche e molteplici relazioni di una grande multinazionale».
Nel racconto non mancano esempi in cui si dimostra che, in quel territorio, il pizzo, la subordinazione dei poteri pubblici, il controllo di ogni transazione legale e illegale non serve più alla mafia per fare soldi, ma, dice il viceministro calabrese, a dimostrare che «solo il loro potere - e non quello istituzionale - può essere autorizzativo». Vero. Ma come affrontare la multinazionale, con questi poteri sociali e politici territoriali?
Minniti nel lungo colloquio con D'Avanzo (un bel servizio) sostiene che il «governo fa quel che deve e può», più di ogni altro nella storia italiana. Ma teme che non basti a vincere «la sfida della sovranità » tra mafia e Stato. E giustamente dice che lo Stato deve superare la «strategia dell'emergenza», con un'opera in cui il suo potere sia il solo che conta come in tutte le società civili.
L'obiettivo è «distruggere la 'ndrangheta».
Quel che mi ha colpito dell'analisi di Minniti e anche di D'Avanzo è la totale assenza di ogni riferimento alle forze politiche, sociali e alle strutture civili e culturali della Calabria. Insomma, la grande tenzone è tra lo Stato che vuole riprendersi la S maiuscola e la multinazionale mafiosa che esercita quel potere, così ben descritto, sul territorio calabrese. Eppure, Minniti è cresciuto in un partito in cui la lotta alla mafia era un momento essenziale, ma non separato dalla battaglia politica e sociale, culturale per cambiare quella società , da lui descritta, e fare dello Stato democratico, con le sue articolazioni locali, la forza per esercitare i poteri che la Costituzione gli assegna. Questa battaglia è stata persa? O non è stata più data? E i partiti di sinistra e di centrosinistra, oggi, cosa sono rispetto alla società e ai processi sociali e culturali così ben descritti da Minniti?
Nei mesi in cui si sono svolti i congressi dei Ds e della Margherita e i rituali per l'unificazione nel Pd, ho chiesto perché non si è mai fatta un'analisi su cosa sono oggi quei partiti, soprattutto in alcune regioni, senza avere una risposta. Ora, si discute di cos'è la Calabria, come prima si è discusso di cos'è la Campania o la Sicilia, tacendo su cosa sono le forze politiche, che operano in quelle regioni. Eppure si vuole fare un altro "nuovo" grande partito.
Caro Minniti, io ti voglio bene, come a tutti i compagni della tua generazione - D'Alema, Fassino, Veltroni, Turco, Bersani e soprattutto a coloro che mi sono stati più vicini, come Morando e Ranieri - e vi dico che mi sorprende e mi addolora il fatto che volete fare un nuovo partito "a prescindere" dalla storia da cui venite. Ma volete farlo anche "a prescindere" dalla realtà in cui dovrebbe operare?
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