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L'anomalia tutta italiana di Giancarlo Bosetti
6.04.2004

Il testo che segue è l'intervento tenuto da Giancarlo Bosetti in apertura del convegno "Il futuro dei giornali. Senza stampa che democrazia sarebbe?" organizzato dalla rivista "Reset" e svoltosi il 31 marzo presso l'auditorium del Goethe Institut di Roma.

In che misura l'Europa ha una reale omogenea sfera pubblica e dentro di essa una embrionale, unitaria opinione pubblica? La prossima campagna elettorale per il Parlamento europeo sarà contemporanea in tutti i paesi dell'Unione, ma quanto sarà davvero europea intorno ai temi della Costituzione, della politica estera, delle questioni economiche, ambientali, della sicurezza e quanto sarà invece intorno a Schroeder in Germania, a Berlusconi in Italia, a Raffarin in Francia? Quali le identità e quali le differenze tra i paesi europei? Chiunque si occupi di comunicazione e giornali si imbatte in modo ossessivo, per l'Italia, nell'evidenza di uno squilibrio, di un ritardo dimostrato da fatti per i quali è necessario, inevitabile parlare di una anomalia italiana.

Quattro punti italiani

I fatti si possono raggruppare in questi quattro punti:

1. La vendita dei giornali che in Italia è bloccata intorno a una cifra che non riesce a salire se non di pochissimo sopra il 10% nel rapporto copie/popolazione, una percentuale che si potrebbe definire "mediterranea" per i partner con cui la condividiamo (Grecia e Spagna), ma che è anomala se consideriamo la posizione dell'Italia nella produzione di reddito: siamo il settimo paese al mondo per prodotto lordo e nel Pil pro capite annuo distanziamo notevolmente Spagna e Grecia (19.000$ contro 14.500 e 11.000) e siamo piuttosto vicini alla Germania (22.500 $). Però leggiamo poco come i primi due paesi (meno della Spagna e più della Grecia), e siamo lontanissimi dalla vendita di giornali della Germania (28,9% copie/abitanti).

2. La ripartizione della pubblicità che trasferisce risorse alla televisione in misura maggiore di quanto non avvenga in nessun grande paese al mondo. Pensate che l'incidenza già eccezionale, da record, della televisione sul totale del fatturato pubblicitario è passata da novembre 2002 a novembre 2003 (è l'ultimo rapporto Nielsen) dal 53,7% al 54,7% e che il volume totale della pubblicità tv è aumentato del 4%, da 3.639 milioni di euro a 3.783, mentre il totale della stampa è sceso dell'1,1 %, i quotidiani meno 2%. La percentuale di pubblicità destinata alla televisione è del 36% negli Stati Uniti, il paese della maggiore fioritura della tv commerciale e del 23% in Germania, anche qui estremo opposto a quello italiano. Si tratta di differenze abissali che indicano dunque opinioni pubbliche profondamente diverse per qualità, linguaggio, stile comunicativo, contenuti, saperi.

3. La non concorrenzialità della comunicazione commerciale è il terzo fattore che, solo, può spiegare il secondo. In questo campo l'Italia ha "un basso grado di concorrenza, un basso livello di pluralismo e un alto tasso di concentrazione". Nei grandi paesi europei in generale tre o quattro soggetti competono per accaparrarsi le risorse pubblicitarie televisive; da noi due imprese, Rai e Mediaset si dividono il 90% degli ascolti e il 95% delle risorse. Si tratta di una situazione monopolistica che impedisce al mercato di dispiegare i suoi benefici e che si traduce in dilatazione della pubblicità in tv a tariffe basse, elevato numero di canali generalisti nazionali ma polarizzati su due soli soggetti, pressione per un affollamento pubblicitario che, con la recente legge voluta dalla maggioranza di governo, attraverso quella forma di pubblicità che sono le telepromozioni, andrebbe ben oltre il 20% delle direttive europee. La concorrenza delle imprese in questo settore strategico della comunicazione è di fatto sospesa da decenni, ma questa eccezionalità non è accolta con scandalo dalla opinione nazionale, come avviene per episodi di "posizione dominante" che riguardano la sfera politico-culturale (direzioni di tg, conduzioni di popolari trasmissioni informative etc.), che qui non voglio neanche menzionare, ma di fatto le posizioni monopolistiche sottraggono risorse alla comunità. Nel caso specifico sottraggono risorse alla stampa.

4. Le contraddizioni della politica a destra e a sinistra concorrono per una grandissima parte a spiegare le anomalie di cui stiamo parlando. C'è qui una seria difficoltà perché ogni accenno a monopoli e deficit di pluralismo nella comunicazione in Italia rischia di essere sospetto in quanto argomento dell'opposizione nei confronti del governo e di finire nel vortice del quotidiano scambio di accuse. Vorrei ripulire il campo da questi sospetti. L'iniziativa di "Reset" non è una iniziativa della opposizione e nemmeno della maggioranza, ma intende mettere a fuoco un serio problema strutturale, un aspetto fragilissimo della costituzione materiale di questo paese, che ha già dimostrato di non cambiare con i cambi di maggioranza. Si tratta di una contraddizione della politica democratica nell'epoca delle comunicazioni di massa e dello show business che l'Italia condivide, anche se in forma più acuta, con gli altri paesi occidentali, tutti in questo potenzialmente fragili:

1) crisi delle vecchie forme del pluralismo organizzato,

2) calo della partecipazione politica,

3) aumento dei costi della comunicazione, e quindi

4) irresistibile attrazione dei partiti per la televisione, un "richiamo della foresta" che diventa

5) un bisogno inestinguibile di controllare le leve del potere mediatico, di "mettere sotto" i gate-keepers della visibilità e della fama.

Questa pressione "esistenziale" della politica ha spinto in Italia a interpretare il servizio pubblico televisivo come funzione "occupata" dai partiti e questa "occupazione" come un diritto democratico. Si tratta di un grave errore di cultura politica su cui la nostra rivista ha insistito in questi anni insieme ad alcuni illuminati amici, non estranei alla politica, una minoranza a cui vedrete che si finirà per dare ragione: neutralizzare e amministrativizzare la Rai, e privatizzarla in tutto o in parte, sottraendola a un malinteso spoil-system. Sarebbe un contributo importante all'avvio dello smantellamento del duopolio.

Qualche valutazione su stampa e democrazia

Illustrata la anomalia italiana in quattro punti, veniamo al rapporto tra stampa e democrazia. È molto importante, ed è tra i fattori che inducono qualche speranza in un campo dove pure le cose tendono a non cambiare mai, che negli ultimi mesi, anche per iniziativa della Fieg si sia cominciato a insistere sul rapporto tra i giornali e la democrazia - il titolo del nostro incontro. Anche in presenza di una tendenza che persiste, come abbiamo visto, a indebolire ulteriormente la stampa. Nei giorni scorsi commentando l'approvazione alla Camera della legge Gasparri, i grandi quotidiani esponevano in modo univoco le loro critiche, che condivido pienamente, (Massimo Lucani sulla Stampa, Giovanni Valentini sulla Repubblica e Dario Di Vico sul Corriere della Sera) tutti richiamando le parole del presidente della Repubblica dedicate a ricordare "la energica tutela" che la Costituzione accorda alla stampa e il rapporto strettissimo che lega l'esistenza di una stampa libera e forte ad una democrazia rappresentativa matura e ben funzionante.

Democrazia deliberativa

Che democrazia sarebbe senza giornali, o con pochi giornali, o con giornali poco liberi? Nessuna o molto poca, si può rispondere. Possiamo anche rispondere, sul piano della teoria della comunicazione, utilizzando la metafora di Postman: la democrazia è "tipografica" perché "tipografica" è la mentalità del cittadino elettore che è stato messo alla base della invenzione di questo sistema politico. E la mentalità "tipografica" comporta un corredo di qualità che Bertrand Russell catalogava sotto il titolo di immunity to eloquence, (impermeabilità alla magia delle parole). "To acquire immunity to eloquence is of the utmost importance to the citizens of a democracy" è la battuta che gli viene attribuita.

Questa immunità si acquisisce appunto con il sapere e dovrebbe essere uno degli obiettivi del processo formativo. Se le democrazie facessero dei sogni sognerebbero un cittadino-lettore. Che cosa deve saper fare questo cittadino ideale della democrazia? Postman ha fatto una lista delle qualità richieste: sapere restare immobile davanti a un pezzo di carta per il tempo necessario senza distrarsi; impadronirsi del significato delle parole; distinguere la logica dell'argomentazione dal piacere estetico della lettura; capire dal tono del linguaggio l'atteggiamento dell'autore verso un argomento; sospendere il giudizio fino a che l'argomentazione non è finita; tenere a mente le domande fino a quando non si è stabilito se il testo fornisce le risposte; confrontare con l'autore le proprie esperienze valide ma sapendo trascurare quelle non pertinenti, che non hanno peso; sbarazzarsi di ogni credenza che le parole siano magiche; imparare a trattare il mondo delle astrazioni; orientarsi senza illustrazioni.

Scusate questa escursione nell'area dei temi cari alla cultura della "democrazia deliberativa", di quella cultura che propongo di chiamare così con il linguaggio delle scienze politiche (James Fishkin, La nostra voce, Reset-Marsilio, con introduzione di Giuliano Amato, o anche Bosetti-Maffettone, Democrazia deliberativa. Cosa è, Luiss University Press, di prossima uscita). Si tratta di nient'altro che della cultura della discussione pubblica. Se abbiamo cara la democrazia, con il realismo di chi ne conosce le imperfezioni a tutte le latitudini, ma anche con la convinzione che le imperfezioni possono essere contenute entro certi limiti, dobbiamo preoccuparci di conoscere meglio l'opinione pubblica, la quantità e qualità di informazioni che ha disposizione, dovremmo fare del sistema informativo un tema dell'agenda pubblica non solo per disputare di par condicio e di equilibri nel minutaggio dei partiti. Democrazia deliberativa, ha spiegato John Rawls, è in fin dei conti sinonimo di democrazia costituzionale. Nient'altro che questo.

Per competere nella knowledge-economy

Il cittadino-lettore è un homo sapiens esemplare, direbbe Giovanni Sartori, l'esatto opposto del telespettatore ideale della mass-audience, o homo videns.

E il numero degli esemplari in circolazione è interessante per tutti noi in Europa. Ma con la mentalità "tipografica" non è in gioco soltanto l'elemento nucleare, di base, del sistema politico, ma anche l'individuo base della società e dell'economia. Non si tratta qui solo di preoccuparsi della qualità politica della opinione pubblica (cittadini informati degli affari pubblici, capaci di giudicare con competenza governi e amministrazioni locali, partiti e leader), ma anche del dinamismo economico e imprenditoriale di una società nell'epoca della knowledge-economy: velocità nel raccogliere informazioni, apertura verso orizzonti internazionali, capacità di collegare notizie e di congiungere realtà lontane tra loro in progetti coerenti, visione d'insieme dei processi produttivi ed economici, capacità di cogliere le differenze dei contesti politici e culturali. Come possiamo immaginare un individuo attivo e bene inserito nella economia del nostro tempo se non legge il giornale?

Come può una economia competere nel nostro tempo se il livello generale delle informazioni non è più alto di quello consentito da 5 milioni 800 mila copie di quotidiani per 58 milioni di abitanti che siamo? E i segmenti dell'economia nei quali l'Italia ha dimostrato di avere più possibilità di successo non sono quelli dove più alto è l'apporto della creatività, della conoscenza del mondo, del sapere organizzativo, della inventiva nello scoprire mercati? Non è dunque il caso di cercare di espandere queste nostre virtù per evitare di perdere terreno?

Un'economia efficiente e una democrazia forte hanno bisogno di una maggiore circolazione di informazioni anche per un'altra ragione: le questioni sull'agenda sono sempre più tecnicamente complesse e controverse, le variabili da  considerare nella vita pubblica sono aumentate di numero, è sempre più difficile per tutti capire la natura dei problemi e la rosa delle soluzioni possibili: dalla politica estera alla biogenetica, dalla riforma delle pensioni alla fecondazione artificiale chi non è attento e informato è fuori dal discorso pubblico.

Un film non italiano

Immaginate un film del quale non sapete dove sia ambientato ma che comincia così: suona la sveglia, le sette, doccia, caffè in cucina, un giornale sul tavolo, una mano va al caffè, poi al tostapane, l'altra al giornale, sguardo alla prima pagina. Non vedete la testata del giornale, ma sicuramente avete istintivamente capito che lq storia di quel film non si svolge in Italia.

Non è una scena italiana, a meno che il protagonista sia qualcuno che appartiene alla élite dotata del privilegio altissimo ed esclusivo di avere i giornali in casa il mattino presto: direttori, top manager, procuratori generali di cassazione, fate voi. A Tokyo, Amsterdam, Amburgo, Kansas City, invece, questa scena riguarda l'impiegato come il commerciante, la maestra d'asilo come il costruttore edile. Gli abbonati al giornale quotidiano sono da noi una rarità. E abbonamento significa forza economica, continuità del "contratto di lettura", significa ovviamente, hegelianamente, "preghiera del mattino dell'uomo moderno".

Metà degli europei inizia la sua giornata con quella "preghiera", ma questa metà è il risultato di una media. E ci sono in Europa paesi che alzano la media e altri che la abbassano, c'è la Svezia e c'è la Finlandia (ci sarebbe la Norvegia che però è fuori dalle statistiche e dall'Unione europea) con il loro quasi 80% e ci sono paesi che fanno precipitare la media, come il Portogallo. L'Italia è piombo puro, in senso non tipografico, sulle medie europee di lettura dal momento che è un paese che pesa per dimensioni demografiche (abbiamo lo stesso peso del Regno Unito) e che non legge, meno di un terzo (30,6%) legge giornali (conquistandoselo faticosamente nelle edicole) con regolarità, un altro 16,7 lo legge 3-4 volte la settimana.

Le famose bufale sui giornali italiani

Due parole sono necessarie sul tema della qualità dei giornali. Nelle condizioni di un mercato ristretto come quello italiano, le aziende editoriali, i giornalisti hanno dato una buona prova. È sempre utile la riflessione critica sulla qualità della stampa italiana, ma le tesi di coloro che sostengono che i giornali si vendono poco in Italia perché sono fatti male, "omologati", "vicini al palazzo" e via dicendo, sono ingenue, banali e sbagliate. Sono bufale, distolgono dal problema (i quattro punti italiani di cui sopra).

La formula "omnibus", del giornale per tutti, destinato a tutte le fasce sociali e a lettori di diversi livelli di cultura, è stata sviluppata in modo fiero e originale ad opera di direttori e corpi redazionali che hanno spinto fin dove era possibile la competizione con la televisione, e anche oltre: sviluppi infografici, moltiplicazione delle sintesi e degli strumenti ausiliari, il background, la ricapitolazione degli eventi, la tecnica del "primo sfoglio", la scomposizione della notizia ed il suo sviluppo da diverse "entrate", la capacità non solo di informare e commentare ma anche di intrattenere.

Si tratta di una direzione di lavoro che per molti aspetti ha anticipato gli sforzi che ora sta compiendo la stampa di altri paesi europei, come la Gran Bretagna, pure attestati su livelli di diffusione più alti. Il risultato è che i grandi quotidiani italiani nati come giornali della classe dirigente, per una fascia di pubblico ristretta, si sono modificati in direzione di un pubblico più vasto e popolare mescolando nuovi ingredienti alla loro natura di giornali di qualità, o di élite (paragonabili in origine per questo aspetto ai loro corrispettivi tedeschi, Faz o Sueddeutsche, o inglesi, Guardian, Times, Indipendent) introducendo linguaggi e temi di un giornalismo più accessibile. Questo ha prodotto per alcuni dei maggiori giornali italiani (Corriere, Repubblica, Sole24ore) livelli di tiratura e vendita in assoluto superiori (quasi il doppio Repubblica e il Corriere) ai giornali stranieri citati. Ma questa parziale invasione delle fasce di pubblico più popolari riguarda solo poche testate, non riesce a raggiungere la grande prateria di pubblico che in Germania e Inghilterra è servita dai tabloids e che in Italia è servita solo ed esclusivamente dalla televisione.

Quale funzione per i tabloid

Una delle ragioni dell'interesse per il confronto con la Germania riguarda il tema della funzione di una stampa forte come quella tedesca (e americana e inglese) di quotidiani e settimanali destinati alle fasce più istruite della popolazione, ma anche di tabloids potentissimi come la Bild e il Sun.

Un dualismo che da noi è tra stampa e televisione altrove è tra stampa di élite e stampa popolare. Credo che vada accantonato il giudizio, da noi corrente e consolatorio, in base al quale la natura dei tabloid, il loro scandalismo, sensazionalismo etc. rendano preferibile non averli. È un argomento tipicamente da esopiana "uva acerba". Approfondiremo il giudizio su queste differenze, ma non possiamo non mettere subito nel conto che il potere della comunicazione nei paesi dove la stampa raggiunge quelle alte tirature a noi sconosciute è ripartito su un numero maggiore di soggetti e imprese.

Gli editori come sistema

Voglio infine proporre ai grandi gruppi editoriali, a tutte le grandi testate giornalistiche e alla Fieg che le rappresenta, l'idea che, continuando le aziende a competere tra loro, potrebbero agire su questo punto in quanto sistema, potrebbero proporsi di dare più forza alla azione per un riequilibrio dei rapporti tra stampa e televisione nel campo della pubblicità e per aprire dei varchi nuovi in quella strozzatura del 10% copie/popolazione, che sembra talvolta una barriera storicamente insuperabile.

Ho fornito argomenti per spiegare come questa pressione sia utile al sistema democratico e al dinamismo della società italiana. Spero si possano costruire iniziative periodiche per portare all'attenzione di tutti il tema della opinione pubblica, della qualità e quantità di informazione che essa ha a disposizione, per monitorare i livelli di informazione, per promuovere confronti internazionali, per verificare la fiducia del pubblico nei confronti dei vari media, per sperimentare nuove forme di sondaggio sia attraverso i giornali che attraverso la televisione, per stimolare nuove ricerche nelle università, per introdurre e diffondere i temi della cultura deliberativa in Europa. E per favorire la nascita di nuove iniziative editoriali avendo creato le condizioni materiali perché questo sia possibile.

da www.caffeeuropa.it

 

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