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Rileggere politicamente gli anni '80 di G. Rippa
7.02.2005

Rileggere politicamente gli anni ‘80

È utile e, al limite, necessario rileggere gli anni ’80 per fornire una interpretazione della incapacità riformatrice del nostro Paese? Sostanzialmente si può dire che è così. Molti aspetti non vanno assunti come assoluti, ma un dato emerge come indiscutibile; dopo la stagione del divorzio e dell’aborto, dopo i referendum del 1978 (finanziamento pubblico e legge Reale), si determinò una evidente frattura tra i processi di burocratizzazione e di sclerosi che investirono i partiti - con la cristallizzazione al loro vertice di oligarchie più portate alla gestione che alla innovazione, e quindi inadeguate a fronteggiare le esigenze di una società in mutamento - e una domanda politica di cambiamento, nutrita di idee e sensibilità affioranti in settori minoritari ma intensi, che trovarono espressione nel movimento dei diritti civili senza però trovare altri sbocchi.

Mentre settori ampi della società si attivavano chiedendo partecipazione, la risposta era una mobilitazione dall’alto volta a riassorbire e controllare quella domanda. Nel 1978, un giovane Angelo Panebianco così si esprimeva in una sua relazione ad un convegno del partito radicale, dedicato al tema "L’antagonista Radicale / La teoria e la prassi del partito nuovo, socialista e libertario nella società e nelle istituzioni":

"…Una mobilitazione dall’alto che traduceva in fenomeni detti partecipativi ma che partecipativi non sono, e che sarebbe piuttosto lecito definire di ‘partecipazione fittizia’ perché il cittadino non è chiamato né incoraggiato a partecipare alle decisioni ma soltanto a sostenere linee politiche e parole d’ordine elaborate altrove".

La risposta evidentemente non poteva essere che di chiusura. D’altronde anche i cambiamenti della società, seguiti al Sessantotto e alle lotte sindacali, pur avendo in parte favorito una crescita politica che aveva avvicinato larghe masse a una maggiore consapevolezza democratica, non erano riusciti a superare lo stadio della "mobilitazione indotta". La società italiana chiedeva di più, ma l’apertura di nuovi ed effettivi canali di partecipazione avrebbe messo in crisi il sistema di potere consociativo. L’attivazione di un potere ascendente, capace di ridimensionare il potere discendente dei partiti, avrebbe infatti significato un rischio inaccettabile per le oligarchie al potere: in questo senso, le scelte e gli atteggiamenti della classe politica nella vicenda storica dei referendum sono da ritenersi un dato esemplare.

Nel contesto dell’azione intrapresa, sia pure tra mille contraddizioni, la prima metà degli anni ’80 fu segnata da una intensa iniziativa del movimento referendario, radicale, socialista e liberale, che aveva l’obiettivo di intaccare il controllo monopolistico esercitato dalla classe politica su tutto quello che ancora Panebianco indicava come le: "risorse sulle quali si fonda il potere autonomo della classe politica, attraverso le quali si riproduce il potere della partitocrazia". Vale a dire della comunicazione, della definizione dell’agenda politica, delle risorse finanziarie e organizzative.

Si potrà, ora, pure ridescrivere la parabola discendente e auto-referenziale della seconda parte di quel decennio, con tutte le "perversioni" che si vuole. Ma una cosa è indubbia: nello scontro politico tra nuovi soggetti politici emergenti (fragili e frantumati, ma vitali) e nomenclatura, riassunta nel partito del "bipolarismo coatto", consegnato alla causa della conservazione, si aprì uno scontro feroce. Esso fu contrassegnato poi anche dalle tappe del duello a sinistra fra egemonia comunista e socialismo autonomista che, nel crollo dell’impero sovietico, ebbe un’altra delle sue centrali ed epocali caratteristiche.

Da questo punto di vista, è sintomatico il fatto che, al tramonto di una prospettiva di mutamento – configuratosi anche per le scelte di "contro-alleanze di regime" che la leadership socialista realizzò nella sua fase di smarrimento di prospettive di cambiamento liberale, laburista, socialista liberale e radicale – coincise la controffensiva micidiale e terribile del partito della restaurazione, che ebbe con pervicacia e aggressione permanente l’obiettivo di rimuovere completamente, di mettere tra parentesi, quel decennio della politica italiana. Sebbene non sempre vissuta con lucidità e rotta sicura, una spinta modernista ha contraddistinto gli anni ’80, ma proprio perché attraversati da ambiguità e incertezze alla fine hanno potuto prevalere le forze oligarchiche dell’antimodernità e della precarietà del diritto.

Due cose furono allora poste in discussione: 1) la politica del consociativismo, del consenso ottenuto tramite la transazione; 2) il quadro politico-istituzionale, il suo assetto di potere che, modellato alla sua origine sullo schema ciellenistico del dopoguerra, aveva consolidato e imbalsamato nella propria formula originaria la politica del bipolarismo coatto.

Comunque la si voglia interpretare, è indubbio che l’azione politica sviluppata dal segretario socialista Bettino Craxi, in particolare nel decisivo quinquennio iniziale, aveva affrontato questi due aspetti della politica italiana, ma aveva anche oggettivamente mostrato l’inestricabile intreccio in termini di interessi, di corporazioni, di attori economici, culturali e politici che frenavano l’azione innovatrice.

Nel 1992, con Luigi Oreste Rintallo realizzammo un volume dal titolo volutamente provocatorio (Hanno ammazzato la politica ed. Memoria/Quaderni Radicali), nel quale tentammo di descrivere l’antefatto e i caratteri della crisi politico-istituzionale che attraversava l’Italia. Criminalità mafiosa che mina il Paese; deficit pubblico insanabile; tremenda crisi della giustizia; enti e apparati che rendono servizi indegni di una nazione civile e per di più a costi folli; terribile crisi dei processi decisionali e di legittimazione dei soggetti politici. In breve: il bipolarismo consociativo, ovvero il regime del dopoguerra, non reggeva più…

I termini della questione restano oggi sostanzialmente immutati. Anzi, sono accresciuti i nodi problematici (vedi nascita del berlusconismo) che rendono sempre più "irriformabile il sistema. Nel libro-intervista di allora, uscito nel vortice della finta rivoluzione di Mani pulite, si legge:

"I partiti nell’immediato postfascismo occupano un vuoto che non è soltanto di democrazia, ma anche di istituzioni. Con la caduta del fascismo, crollano anche le istituzioni dello Stato. In questo senso i partiti trovano uno spazio di praticabilità enorme e se si vuole anche legittimo, perché vengono a colmare il deficit del dato istituzionale.

È inutile nasconderlo, la stessa magistratura non riparte nello Stato democratico con una propria forza e autonomia, ma è indubbio che nella traiettoria del tradimento dei chierici larga parte del mondo giudiziario, come pure del resto quello accademico, è stato in qualche misura asservito al fascismo. La Repubblica nasce con questo handicap oggettivo. La presenza cioè di questa cultura corporativa, che viene intuita dai partiti egemoni - fondamentalmente Pci e Dc - e soddisfatta nella propria domanda di rappresentatività di potere…".

Ma è l’impianto complessivo delle nostre istituzioni a non avere i caratteri dello Stato liberaldemocratico! A conti fatti non vi è chi non abbia contribuito a questa mancata costruzione dello Stato di diritto. Qui sta il motivo per cui non è affatto "stimolante" partecipare con entusiasmo alle indignazioni a manovella che oggi ci propongono questo o quell’attore del mondo dell’informazione.

Il vero nodo è che tutti gli attori sociali sono stati complici, dal momento in cui ci si è adattati all’abbattimento delle deontologie professionali.

Questo ha reso acefalo il nostro sistema e ne permesso la continuità attraverso l’annullamento delle autonomie delle responsabilità. Era questa la premessa determinante per garantirsi l’esercizio di un’egemonia fondata in realtà sul consenso di una democrazia fittizia.

Sennonché non si sono fatti i conti coi processi di trasformazione sociale, i quali sono andati avanti comunque.

Il nostro sistema, va onestamente riconosciuto, conteneva in sé un alto gradiente di crescita del benessere collettivo, ma non è stato mai indirizzato sul terreno della responsabilità sociale. Qual è allora la prospettiva che abbiamo di fronte? È quella di una realtà estremamente contraddittoria, nella quale sono contenuti tutti i disastri della perversione lottizzatrice e deresponsabilizzante, come pure le oscenità che proprio un certo grado di benessere ha prodotto.

Il vero obiettivo da perseguire non è dunque quello di accantonare il sistema dei partiti, ma lavorare per restituire ai cittadini la possibilità di prender coscienza dei propri limiti, facendo lievitare un livello di responsabilità collettiva che consenta un passaggio verso i lidi di una democrazia più moderna.

Occorre, insomma, preparare il terreno per il superamento della premodernità, che non può certo avvenire attraverso escamotage tattici o il tentativo di questo o quel leader politico in cerca di un’auto-legittimazione che contiene in sé i rischi di un disegno restaurativo. Un disegno che può giovarsi di un reticolo di soggetti sino all’altro ieri portatori della cultura consociativa e che oggi mirano a sostituirsi al passato, senza nemmeno possedere quel minimo di cultura di governo che possa rassicurarci.

Le poche espressioni di autonomismo socialista, da cui avrebbe poi avuto origine la leadership di Bettino Craxi, erano sicuramente minoritarie rispetto allo scenario intellettuale italiano. Il quale è stato letteralmente egemonizzato a sinistra dai comunisti. Proprio perché attestato in una posizione di minoranza, alla fine sul mondo socialista e liberale si è riflessa una condizione di minorazione psicologica e culturale. Per rispetto di verità, si deve dire, tuttavia, che si poteva fare certamente di più per manifestare un’attenzione ai settori più squisitamente antagonisti alla logica centralistica e leninista.

Ma non è stato un caso, se questo non è avvenuto. Purtroppo all’interno della vicenda socialista si sono consolidati dei parametri di valutazione per cui si è ritenuto che la società fosse controllabile attraverso altri strumenti e si è trascurata l’importanza del ruolo che la cultura poteva avere anche in termini operativi. Da parte socialista non vi è stata cioè l’intuizione di diventare referente e riferimento di tutto un mondo liberal, inteso come espressione di nuovi bisogni e di nuove domande di libertà. Fra questo mondo e la leadership del Psi si è eretto un muro di refrattarietà. Alla sua costruzione hanno contribuito in maniera determinante le campagne diffamatorie delle redazioni post-comuniste e delle lobbies finanziarie, anche se va detto che esse hanno sicuramente avuto gioco facile a causa dell’indisponibilità socialista a fare da elemento aggregante.

Gli anni ’80 comunque contenevano quelle contraddizioni e quella vitalità che – nella sua tentazione anticonsociativa – andavano accantonate e annullate dalla nostra memoria. Anche con un immaginario che fosse di derisione di un modello di modernità, un po’ pacchiano forse, ma sicuramente espressione di domande di protagonismo culturale e imprenditoriale, mal tollerato dai grand commis delle partecipazioni statali, delle imprenditorialità falsamente private, dal sindacalismo operaista e politicistico che occupavano e occupano la "società delle conseguenze" che viviamo.

Nessuna mitizzazione per carità, ma rilevare che la durezza con cui si è voluto sancire l’accantonamento di quella stagione, rende chiaro che lo scontro era tra una interpretazione della crisi che, in presenza di un chiaro indebolimento della capacità d’organizzare e dirigere la complessità sociale da parte delle istituzioni di governo tradizionali, puntava ad un’azione riformatrice profonda e chi, affezionato agli equilibri arcaici e – perché no – antidemocratici, mirava ad una rappresentazione concertativa che ancora oggi ammorba lo scenario politico. Ovviamente quando si parla di ammorbamento pervasivo, non si intende per questo privilegiare pretestuose logiche conflittuali o ristrutturazioni privatistiche, i cui caratteri sono stati realizzati proprio dai mostri del consociativismo nel modo disastroso che conosciamo.

Vi è un codice metapolitico che da sempre – in chiave decisamente poco liberale – regola in Italia i rapporti tra partiti, movimenti e società.

Oggi, come negli anni ’80, non si può parlare della politica e della sua crisi, senza riferirsi a questo poco nobile e totalizzante modo di far politica. A quel suo "linguaggio" che descrive – o pretende di farlo – le soluzioni in una logica di progresso unidirezionale e del "programma" come catechismo della traiettoria politico-istituzionale; dello Stato come fattore di eguaglianza e della libertà come "progetto" (il fenomeno riguarda tutti gli attori politici dell’attuale sistema di finto bipolarismo, anche quella realtà finto-nuova che è Berlusconi e la sua "discesa in politica"). Ahimè ancora oggi sono questi il linguaggio e la cultura prevalenti nella politica italiana.

In questo senso non c’è realtà politica che non cerchi una legittimazione in questa sordida e tetra realtà, i cui sommi sacerdoti sono i Vespa e i Costanzo.

È evidente che nel momento stesso in cui tale linguaggio e tale cultura sono pensati "criticamente", non costituendo l’ambito naturale e non problematizzato del pensare politico, vanno criminalizzati e messi in crisi, perché potrebbero testimoniare uno stile politico diverso: profondamente diverso perché polemico verso buona parte della cultura italiana.

La situazione politica italiana nel suo complesso, conferma il ritardo storico della sinistra e di tutto il quadro politico nel confronto "culturale" con il cattolicesimo ma, soprattutto, il nesso storico-culturale che unisce chi mira a porsi come punta di un processo di modernizzazione della società e le conseguenze che paga se fa del disincanto secolarizzato la propria discriminante sul piano culturale.

Non basta sfondare il muro dell’ostracismo culturale e politico, c’è bisogno piuttosto di aprire simultaneamente più fronti con il coinvolgimento di quanti – nello schema asfittico e "ricattatorio" che si vive – sono ormai in incompatibile contrasto con il loro partito, con il mondo economico ufficiale, con tutte le centrali redazionali del "buoncostume culturale" imperante, di destra e di sinistra.

Gli anni ’80 hanno prodotto tante icone, ma la rivendicazione di autonomia che volevano rappresentare resta un segno che spinge alla necessità di una loro rilettura politica. Essa potrebbe rivelarsi ben presto, per la stessa forza delle cose, per la "intelligenza" dei fatti politici e culturali, la messa in mora di un intero sistema di rapporti politici e di gestione del potere oggi paralizzati e incapaci di auto-riformarsi.

Editoriale del numero 89 di "Quaderni Radicali" (gennaio/febbraio 2005) in edicola dal 15 febbraio 2005 con il quotidiano "il Riformista"

Giuseppe Rippa

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