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Terrorismo, la vista corta dell’Occidente
29.07.2005
«Il terrorismo è una sfida inaudita e impensata. Contro la quale si infrangono tutte le categorie del pensiero classico: guerra, decisione, diritti, inimicizia. Il nemico è invisibile e ubiquo e non c’è guerra che può piegarlo. Anzi, il rischio è quello di una diffusione endemica della violenza, se passeranno risposte catastrofiche tipo Iraq». È pessimista ma non rassegnato, Roberto Esposito, ordinario di filosofia teoretica all’Orientale di Napoli, autore di opere come Communitas, e Bíos (Einaudi). Ecco il fulcro del suo ragionamento: occorre «spostare lo sguardo». Entrare nei meccanismi «biopolitici» del terrorismo islamico. Comprenderne le pulsioni vitali per afferrarne il delirio. E sullo sfondo di una distorsione identitaria che affonda le sue radici in secolari frustrazioni di massa. Fuori perciò da «ossessioni sicuritarie», che regalano ai fanatici il vantaggio dell’imprendibilità moltiplicandone le chances. Nessuna tregua al terrore, che va combattuto e snidato. Ma approccio più duttile e differenziato, che non rinuncia alla grande politica e la rilancia su basi culturali diverse. Ma come?
Professor Esposito, anche secondo Giuliano Amato, oltre che per Zygmunt Baumann, l’avvitamento repressivo post-attentati rischia di farci scivolare in un maccartismo anti-islamico. Condivide la diagnosi?
«Sì, temo anch’io questa logica. E proprio oggi mi è capitata sotto gli occhi un’amara vignetta di Altan, che recita “è morto prima l’uovo o la gallina?”. Ormai ogni domanda verte sulla morte e sulla fine. Come osserva Baumann c’è uno schiacciamento generale di tutta la riflessione sugli eventi ultimissimi, senza la capacità di guardare agli eventi genetici del dramma. Lungo tutto la catena che li ha generati storicamente. È un avvitamento psicologico che può consegnarci mani e piedi a una pura dinamica sicuritaria e repressiva. Intendiamoci, non sono un buonista ad oltranza. E persino Galli Della Loggia e Panebianco hanno qualche ragione, quando sostengono iperrealisticamente che vi sono conflitti non mediabili tramite trattativa o “donazione”, come fu nel caso delle guerre mondiali. E tuttavia con il terrorismo, con questo terrorismo, non è ipotizzabile nemmeno la prospettiva della guerra, per dirimere il conflitto...».
Neanche la guerra può decidere il contenzioso?

«No, perché la guerra, tragica, risolutiva, così come la conosciamo, è ormai impossibile. Non esiste infatti un nemico visibile a cui dichiararla e contro cui farla».
Cambiano le nozioni di pace e guerra e con esse il significato del conflitto. Invisibile, insolubile, infinito e senza politica?

«La novità è evidente. È in più siamo ormai prigionieri di una spirale viziosa sicuritaria, e quindi di un blocco culturale che ci fa perdere di vista la genesi reale dei fenomeni. Tutta questa novità non è più governabile dal concetto o dalla pratica della guerra. Laddove invece la politica qualcosa potrebbe farla».
Che cosa è che la spirale viziosa repressione/violenza cancella dalla sguardo?

«Rimuove la vita reale, la vita di milioni di persone. Immersi come siamo nel linguaggio avvolgente della tradizione formalistica e democratica - diritti, sovranità statale, regole del commercio - siamo diventati incapaci di aderire ai flussi vitali del mondo globale. La mia tesi, quella che ho cercato di sviluppare nei miei ultimi lavori, è che tale linguaggio sia stato sopravanzato da un’altra dimensione. Quella delle relazioni tra politica e vita. La biopolitica. Occorre ripartire di lì, per intendere il mondo moderno al di fuori della giuridificazione universale e della spirale dei diritti e dei doveri».
Ma, per restare al terrorismo, quale sarebbe una diversa terapia basata sulla biopolitica?

«Innanzitutto cominciare col recuperare allo sguardo le grandi diseguaglianze del mondo. E non tanto dal punto di vista delle regole formali della democrazia. Nulla di male a riguardo, anzi. Bensì dall’angolo visuale della fame, della malattia, della povertà, dell’aspettativa di vita, della violenza endemica. Con questo sguardo biopolitico tutto diventa diverso».
Ma questo sguardo biopolitico diverso non coincide coi diritti negati?

«Possiamo chiamarli diritti, se vogliamo. Ma l’importante è percepire la cosa, il rimosso. E il rimosso è ciò che l’Occidente si rifiuta di vedere quotidianamente. È un paradosso che ogni giorno migliaia di persone muoiano di fame o di sete, e al contempo il mondo sviluppato sia tutto concentrato sulle regole tecniche della democrazia. Un’ossessione formalistica, legata al “soggetto” e al diritto, che amputa l’esistenza del corpo. Il corpo delle popolazioni e dei singoli. Questo cataclisma non è concettualizzabile nel lessico dei diritti, li eccede tragicamente. Ad esempio, che nesso razionale può esserci tra la pandemia dell’Aids e il buon diritto delle industrie farmaceutiche a far valere i loro brevetti? Nessuno. Ecco un caso in cui la logica dei diritti non regge. In generale, c’è un grande disconoscimento della sofferenza dell’Altro attuato dall’Occidente. E dobbiamo abbatterlo. Prima di tutto culturalmente. Ovviamente tutto ciò non include alcuna giustificazione del terrorismo, che va combattuto senza tregua, ma arretrando lo sguardo ad un livello preliminare»
C’è la fame e ci sono le odissee dei migranti. Ma c’è dell’altro: il disconoscimento di identità dei nuovi dannati della terra. Che può significare in rapporto all’ondata islamica?

«Molto. C’è un senso di frustazione atavica nelle masse islamiche che deriva proprio da un secolare e assoluto disconoscimento identitario. Non basta discettare di differenze e di giusto rapporto tra le prime e diritto cosmopolitico. Occorre prima di tutto sentire e comprendere certe sindromi di massa. È un vissuto in cui si intrecciano emozioni religiose, ideologiche, storiche, etniche, in un viluppo di difficile lettura, ma che compone una miscela potenzialmente apocalittica. Dobbiamo distinguere, tra masse arabe, fondamentalisti e terroristi. Per questi ultimi vale una risposta di contrasto bellico, che non può che essere radicale. Per i secondi, una replica di contrasto culturale e capillare. Quanto alle masse arabe, sono le prime vittime dei terroristi. E anche vittime di oligarchie reazionarie, non di rado protette, come sappiamo, dall’occidente per motivi di convenienza geopolitica ed economica. Perciò, rispetto alla nazione araba e islamica, ci vuole un ripensamento globale di tutta la politica seguita fin qui dall’America e dall’Europa».
Come spiega la mentalità delirante del fondamentalismo che sfocia nel terrorismo?

«Nella storia occidentale abbiamo avuto esempi affini, anche se non eguali. Penso a Hitler e alla sua cerchia, che dinanzi alla sconfitta ipotizzarono la distruzione suicida della Germania. Alla base c’è lo scambio tra la vita e la morte come autoaffermazione maniacale di onnipotenza sull’abisso. Alimentata nel terrorismo da fraintendimenti religiosi. È proprio la logica immunitaria a voler esaltare la vita tramite la sua negazione. Una sorta di conquista dell’immortalità attraverso l’ingerimento del veleno come fosse un vaccino: gli uomini-bomba. Il rischio a questo punto è quello di un qualche contagio. Non certo nel senso di imitare i kamikaze ma di attivare repliche simmetriche e speculari, che moltiplicano e diffondono la follia della violenza. Da questo punto di vista l’errore dell’Iraq è stato paradigmatico».
Da ultimo le chiedo: è ormai il fattore identitario il motore della storia? Insomma, ha avuto ragione il culturalista Max Weber contro il classista Karl Marx?

«Non so se abbia avuto ragione Weber su Marx. Ma senza dubbio il dato identitario si sta definendo come uno dei fattori più potenti della storia contemporanea. Anche in termini di “Potere”, per dirla con Foucault. E del resto Elias Canetti lo aveva capito bene. Quando decriveva l’essenza del Potere come desiderio di sopravvivere agli altri e a tutto il resto. Solitudine e delirio di assoluta identità. Che è poi il fantasma base di ogni fondamentalismo».

Fonte: http://www.unita.it/index.asp?SEZIONE_COD=ARKINT&TOPIC_TIPO=I&TOPIC_ID=43903

mt

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