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Intervista a Vincenzo Visco
14.06.2003

All’Europa serve un bilancio comune e un nuovo modello di sviluppo
Intervista a Vincenzo Visco
di Ignazio Vacca


E’ il giorno in cui la Banca centrale europea decide di ridurre i tassi di interesse, siamo in pieno dibattito sui rischi di recessione in Europa e sull’euro forte -visto da alcuni come opportunità e da altri come freno alle esportazioni e quindi alla crescita delle economie europee.
Per approfondire questi aspetti dell’economia nazionale, incontriamo Vincenzo Visco, lo intervistiamo anche per capire, alla vigilia della presidenza italiana dell’Unione, cosa potrebbe e dovrebbe proporre il governo ai partner europei, per fronteggiare l’attuale congiuntura.


L’euro è sopravvalutato? Come si spiegano le oscillazioni degli ultimi anni dell’euro nei confronti del dollaro?


Quando nacque l’euro aveva un valore lievemente più alto di quello attuale, e crebbe ancora un po’, perché si pensava che l’Europa avrebbe cominciato a giocare un grande ruolo e ci sarebbe stato un riequilibrio interatlantico. Negli Usa molti erano preoccupati, in Europa molti erano fiduciosi.
Dopo invece è venuto un lungo periodo di svalutazione dell’euro, che ci fece preoccupare.
Negli Usa era prevalsa la volontà di riaffermare la potenza americana anche attraverso la politica del dollaro forte.

Da un punto di vista teorico le monete in un sistema di libero scambio sono anch’esse soggette alla domanda e all’offerta, il loro valore riflette il potere d’acquisto, quindi la forza delle economie che le esprimono, il tasso di crescita, il livello di inflazione.
Nel rapporto tra dollaro ed euro, però, si gioca anche una partita di potere.
Il valore di queste divise è solo in parte collegato all’andamento delle economie reali.
Sul valore del dollaro incidono anche le scelte che gli Usa compiono nel governo della propria economia.


Quindi nella svalutazione del dollaro gioca un ruolo la crisi economica e finanziaria che attanaglia gli Stati Uniti da alcuni anni, cosa è successo in quel paese?



Gli Usa, negli anni novanta, hanno avuto prima un ciclo di crescita forte basato sulle nuove tecnologie, fatto importante, frutto di scelte dell’amministrazione Clinton.
Questo si è accompagnato ad un boom di borsa e a una politica dell’immigrazione molto aperta.
Nel decennio la popolazione degli Usa è cresciuta del 15%. C’erano simultaneamente grande crescita del prodotto, bassa inflazione e il dollaro era forte, sia come riflesso di una situazione positiva dell’economia, sia perché masse di capitali finanziari andavano negli Usa da tutto il mondo per partecipare al ciclo degli investimenti, altamente remunerativi, nella new economy.
Poi si è prodotta una bolla speculativa, cioè un eccesso di valutazione delle azioni rispetto al valore delle aziende e alla loro capacità di produrre reddito, che ha portato al collasso del 2001, del tutto simile a quello del ’29-’33.

Trovi che ci siano reali analogie tra la crisi del ’29 e quella attuale?

Sì. Lo dico spesso, le analogie sono evidenti: anche quella crisi giunse sull’onda di un lungo processo di globalizzazione, che produsse una bolla finanziaria negli Usa, quindi un repentino crollo dei valori azionari, drastica interruzione della domanda di consumi e investimenti, riduzione della produzione, deflazione, fallimenti a catena di industrie e banche.
Anche allora la crisi, prodottasi sul mercato finanziario nordamericano, estese i suoi effetti a tutto il mondo.
Oggi le dinamiche sono analoghe, ma gli effetti sono molto meno devastanti perché c’è più controllo sui mercati, c’è maggiore diffusione della ricchezza, i bilanci pubblici sono molto più capienti e in grado di attutire le avversità del ciclo.
Però la dinamica della crisi è quella e anche i postumi sono analoghi, passata la sbornia bisogna stare digiuni per qualche giorno. Negli anni trenta, la crisi produsse paura, insicurezza delle masse, risposte populiste e fasciste, guarda caso proprio nella fascia pedemontana da una parte all’altra delle alpi, come in parte avviene oggi.
Quando Tremonti, insieme a Bossi, evoca un ritorno al colbertismo, suggestioni da nazionalismo economico, oltre a fornire una ricetta che non esiste nella realtà, mette in pericolo quel tessuto necessario, di governo sovranazionale dell’economia, di integrazione, l’unico che può riattivare una crescita europea.



Tornando all’oggi, mi par di capire che tu individui responsabilità degli Stati Uniti alle origini della crisi attuale. . . .


Se analizziamo il comportamento della banca centrale americana (Federal reserve) vediamo che, da un certo momento in poi, Greenspan ha sacrificato l’interesse ad un buon andamento dell’economia mondiale per mantenere alti i livelli di crescita dell’economia Usa.
Avrebbe dovuto sgonfiare la bolla molto prima. Da noi solo Marcello De Cecco lo vide per tempo, bisogna dargliene atto, mentre tutti eravamo un po’ abbagliati dalla straordinaria capacità di Greenspan di guidare dove voleva l’economia mondiale. Incoraggiare la bolla è stata una delle cause del crollo che ha coinvolto l’economia di tutto il mondo.


Spesso abbiamo la sensazione che siano gli Stati Uniti a decidere il valore del dollaro e, di conseguenza, quello dell’euro. E’ così?

Il valore del dollaro e dell’euro lo fanno i mercati che si orientano sulla realtà economica e sulle indicazioni che vengono dalle decisioni politiche.
Il calo del dollaro di oggi è dovuto alla recessione statunitense, alla crisi di borsa, alle scarse prospettive di una ripresa americana che sarà debole e trainata dalla spesa pubblica (che è ripartita in grande stile), che per di più si abbina ad un elevato debito estero.
Gli Usa da tempo importano molte più merci di quelle che vendono all’estero e hanno sempre potuto coprire questo deficit, che per altri paesi avrebbe imposto una svalutazione, mantenendo elevato il corso del dollaro grazie all’afflusso di risorse finanziarie da tutto il mondo.
Oggi, di fronte alla crescita “gemella” del debito pubblico Usa e di quello estero, e di fronte al fatto che nel mondo esiste una valuta alternativa, è normale che i grandi investitori si siano cautelati acquistando anche molti titoli in euro.
E’vero che in Europa i tassi di interesse sono più alti (seppur siano intorno al 2%, un livello complessivamente basso), ma questo non spiega interamente lo spostamento di flussi finanziari sulla valuta europea, infatti anche quando il dollaro saliva in Europa i tassi erano più alti, allora però conveniva investire in America perché lì c’era la crescita, a prescindere dai tassi di interesse.
I deficit “gemelli” e le scarse prospettive di crescita statunitensi hanno portato a diversificare gli investimenti tra euro e dollaro.


Quindi, nonostante le difficoltà politiche ed economiche dell’Unione Europea, l’euro sta avendo successo . . . .


L’obiettivo che avevamo facendo l’euro era quello, creare una “valuta di riserva”, questo sta avvenendo per ragioni di mercato e anche per via delle scelte delle banche centrali.
Certo, anche i governi contano, per esempio, se in Europa si decidesse di allentare il patto di stabilità ciò darebbe un colpo molto serio, non solo all’euro, ma anche alla affidabilità dei titoli del debito pubblico dei diversi paesi.


Per l’Italia sarebbe un rischio enorme. . .


Mentre oggi i diversi paesi europei pagano interessi grosso modo uguali ai sottoscrittori di titoli del debito pubblico a lunga scadenza (questo è il principale vantaggio che noi italiani abbiamo ricevuto dall’ingresso nell’euro), se il governo italiano continuerà una politica economica squilibrata di finanza creativa, e non ci fosse più la garanzia del patto di stabilità a evitare la crescita del debito italiano, saremmo costretti a pagare interessi più alti, per convincere gli investitori a comprare i nostri titoli.
Uno scardinamento della convergenza europea, in ultima analisi, rischierebbe di far saltare anche la monetra unica, oppure di mettere l’Italia nelle condizioni della “dollarizzazione argentina”, in cui il paese latinoamericano usava il dollaro pur avendo tassi di interesse e debito molto superiore a quello degli Usa. . . . sappiamo come è andata a finire.
Questo è il motivo per cui la Convenzione europea sbaglia a non prestare sufficiente attenzione alla necessità di un governo unitario dell’economia continentale.


Ma perché l’Europa non cresce?



Non per l’euro alto o per il patto di stabilità. O perché i tassi di interesse sono relativamente elevati, queste sono inezie. L’Europa non cresce perché oggi è poco più di un’area di libero scambio, non è un mercato unico, non è un sistema integrato, non siamo gli Stati Uniti.
Ci sono ancora quindici sistemi nazionali con normative diverse, procedure diverse, non viene aiutata l’integrazione sovranzionale di banche e imprese, perché per procedere a fusioni tra imprese di paesi diversi ci sono una serie di barriere e di asimmetrie che rendono la cosa difficile, basti pensare che l’Italia ha liberalizzato il mercato dell’energia, quando altri paesi non l’hanno fatto, o che non esiste una disciplina unica sull’Opa, sono diverse da paese a paese le norme ambientali, le leggi del lavoro, un’imprenditore che va oggi in Europa deve avere quindici gruppi di avvocati diversi, per farsi assistere sulle diverse norme nazionali.
Se pure non esistono più le frontiere interne, anche il mercato non è unificato, se io volessi comprare un’automobile in Germania avrei enormi difficoltà di immatricolazione in Italia, di passaggio da un regime fiscale all’altro, non esiste ancora un vero mercato unico, tant’è vero che i prezzi degli stessi beni sono ancora diversi da paese a paese.
Il problema dell’Europa che non cresce abbastanza è molto legato a questo e grandi responsabilità ce le hanno il Regno Unito e altri paesi che, fatto l’euro, hanno bloccato i processi di armonizzazione.
Non siamo riusciti a creare forme di gestione collegiale della politica economica europea e a trasferire alcune competenze all’Unione.
Il Piano Delors, già diversi ani fa proponeva, non a caso, di affiancare la moneta unica con un piano di investimenti infrastrutturali europei, necessari ad unificare anche fisicamente il continente.


Ma oltre all’unificazione dell’Europa, che sicuramente darebbe vantaggi alla nostra economia, non servono misure più decise per reagire ad una lunga congiuntura sfavorevole, come quella che stiamo attraversando?

Dobbiamo guardarci da varie cose, in primo luogo da vulgate Keynesiane, un po’ d’accatto, che si diffondono nella destra, a cominciare da quella americana, ma hanno corso anche in Europa dove sia la destra che la sinistra sono state abituate al fatto che, se qualcosa va male nell’economia, interviene lo stato a porvi rimedio.
Era vero in un’altra epoca! Quando bastava che lo Stato facesse buche per terra e pagasse gli operai per far ritornare quei soldi come domanda di beni di consumo sul mercato nazionale.
Oggi, con le economie aperte, c’è sempre il rischio che quei soldi non vengano spesi in modo utile.
L’esempio del Giappone è lampante, pur essendo un’economia chiusa, con la spesa pubblica non è riuscito a risollevarsi.
Oggi i problemi sono diversi: in primo luogo i governi sono sottoposti al giudizio dei mercati e un paese che butta via i soldi viene punito da fughe di capitali che arrecano danni superiori ai vantaggi dell’assistenzialismo.
In secondo luogo, bisogna tenere a mente che la crescita degli ultimi venti anni è avvenuta grazie all’apertura dei mercati finanziari, tant’è che oggi nessun paese povero si definisce no-global.
Abbiamo sentito ieri Tarso Genro, ministro economico di Lula ed ex sindaco di Porto Alegre, dire cose assai sensate su questo, il problema è governare i processi globali per evitare contraccolpi finanziari, impoverimenti repentini.
Governare questo processo vuol dire creare una gestione sovranazionale dei fatti economici, In fondo l’Europa è stata una risposta virtuosa a questa necessità e adesso deve fare passi avanti e sconfiggere la paura e la miopia dei tradizionali interessi nazionali.


Eppure l’Europa, da anni, cresce meno degli Stati Uniti, come mai?

Negli anni della convergenza verso la moneta unica, l’Europa si è ispirata a ricette classiche, liberali: conti in ordine, bassa inflazione, riequilibrio strutturale della spesa pubblica, con l’idea che in un quadro ordinato le imprese avrebbero potuto far crescere l’economia.
Sono misure sacrosante, intendiamoci, perché liberano risorse, creano un quadro stabile di lungo periodo e, in un contesto di economie in crescita producono accelerazione.
Tuttavia non sono misure sufficienti ad affrontare una stagnazione e non aiutano a superare i limiti storici dei modelli di sviluppo nazionali europei. Prima dell’euro, la stabilità monetaria era un obiettivo fondamentale, perché le esportazioni, per i singoli paesi, erano determinanti, l’Italia esportava verso il marco, la Germania verso il dollaro.
Oggi, fatta l’Europa, questa è un mercato molto più chiuso, in cui l’interscambio verso le altre aree non supera il 15% del prodotto.
Bisogna adattare il modello europeo di sviluppo alla nuova realtà: la crescita deve essere stimolata dalla domanda interna e dai consumi, la produzione deve essere molto più orientata verso l’innovazione tecnologica.
Per fare questo serve un bilancio europeo o qualcosa di analogo, un coordinamento stretto delle politiche e la decisione di fare simultaneamente delle scelte, differenziate da paese a paese, ma coerenti con gli obiettivi comuni.
Molti paesi in Europa hanno elevati debiti pubblici, mentre negli Usa il problema sono i debiti delle imprese e delle famiglie.
Per questo il patto di stabilità e l’equilibrio dei bilanci statali è necessario, però occorre una capacità di spesa comunitaria, anche con iniziative finanziate sul mercato, per fare da volano alla crescita, per unificare, anche fisicamente, il continente, per innalzare il livello di produttività suscitare nuove vocazioni produttive per le imprese europee. Prima di tutto però occorre l’armonizzazione e l’unificazione di tutte le normative.

Dal punto di vista del rigore fiscale, la situazione europea rispetto a quella americana non è molto diversa, loro hanno un disavanzo del 3,5%, mentre tutti i principali paesi europei hanno disavanzi intorno al 3%.
In America però i singoli stati hanno bilanci in pareggio e il deficit è federale, viene ampliato o compresso di anno in anno, secondo le necessità, ed è indirizzato verso le priorità strategiche, in questo modo la spesa pubblica stimola fortemente l’economia.
Prima che l’Europa arrivi a un modello simile ci vorranno anni, se non decenni, ma da subito bisogna andare in questa direzione, continuare a ridurre e far convergere i debiti statali e dar vita ad un embrione di bilancio dell’Unione.


Sta per iniziare il semestre italiano di presidenza dell’Unione, quali misure potrebbero adottare i ministri finanziari per invertire da subito la china della bassa crescita europea, e che politiche dovrebbe proporre ai partner europei la presidenza italiana?


Nella situazione attuale l’Europa è disgregata, anche perché gli Usa hanno giocato una loro partita e rinfocolato queste divisioni, io non credo che, nel breve periodo, si farà molto.
In queste ore si sta decidendo di abbassare i tassi di interesse, perché è arrivato il momento, le pressioni inflazionistiche sono più basse, anche se nella zona euro l’inflazione è molto differenziata, naviga verso il 3%, in Italia come in Olanda e Spagna, mentre altri paesi, come la Germania sono quasi in deflazione, con una crescita dei prezzi inferiore all’1%.
Io sono convinto che si dovrebbe ripartire da Lisbona e affidare la realizzazione di quel programma a un autorità sovranazionale, mantenendo il patto di stabilità come elemento strutturale di equilibrio dei bilanci.
Si potrebbe poi riprendere in mano alcuni obiettivi del piano Delors, un programma di investimenti europei controllati e finanziati dall’Unione, anche attraverso l’emissione di “eurobonds” (titoli europei) garantiti dall’Unione. Non penso che ciò creerebbe problemi per l’affidabilità dell’euro, anzi, un disavanzo comunitario, limitato rispetto alle dimensioni economiche dell’Europa, con bilanci nazionali in ordine, darebbe ai mercati la sensazione che l’Europa fa sul serio.
Tutte queste politiche, essenzialmente in ricerca, sviluppo, tecnologie, infrastrutture, avrebbero una ricaduta positiva sulla produttività dell’intera economia europea.
Il problema, nel breve periodo però, è che tutte queste politiche hanno tempi lunghi di trasmissione, tanto più in assenza di un meccanismo istituzionale europeo consolidato e certo. Per questo credo che, per il futuro, servirebbe una visione pluriennale, una specie di dpef europeo.
Temo infine che l’Italia non farà il suo dovere, ma farà l’opposto.
Quello che ha in testa Berlusconi, (ma anche, a momenti, la confindustria di D’Amato) è un mondo senza regole, senza tasse e senza sindacati, questo è la loro visione liberale, una visione da anni cinquanta.
Le economie moderne, invece, funzionano se ci sono le regole.
Noi dovremmo sospendere completamente il programma fiscale di Tremonti e fare l’imposta negativa, cioè dare i soldi ai poveri, che li spendono veramente, tale misura produrrebbe crescita e coesione sociale.
Poi andrebbe affrontato il problema vero del declino italiano che è connesso all’invecchiamento della popolazione e al calo demografico, ciò riguarda la spesa previdenziale, quella sanitaria, la politica dell’immigrazione.
Non ci può essere crescita in un paese in cui cala e invecchia la popolazione, eppure l’Europa ha margini di crescita rilevanti nelle sue zone meno sviluppate, a cominciare dal nostro mezzogiorno.

Infine bisognerebbe fare una vera e capillare politica nazionale di lotta all’inflazione. La causa principale dell’Inflazione italiana, che danneggia la già insufficiente competitività della nostra economia è la mancanza di concorrenza.
Le cose dette da Fazio sulle imprese sono giuste, negli anni scorsi hanno fatto profitti, aumentando il loro patrimonio, ma non hanno fatto adeguati investimenti di sviluppo.
Per costringere le nostre imprese a una maggiore iniziativa occorre completare la liberalizzazione dei mercati.

L’euro forte è uno stimolo per ridurre i costi e accrescere la produttività, ma è anche un’occasione per poter fare investimenti.
D’altronde abbiamo voluto l’euro anche per questo, per correggere una certa diseducazione del sistema economico che, nel corso di venti anni, grazie a inflazione e svalutazioni, si era abituato a non competere e a non curare l’efficienza.
Il declino italiano parte da molto lontano.

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