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Se l'aria pulita diventa opportunità
22.01.2007
Claudia Ortu / Rassegnaonline -

“Secondo i nostri studi preliminari i livelli di occupazione hanno più da guadagnare che da perdere da un’ambiziosa politica europea di riduzione delle emissioni, sempre che questa sia perseguita in maniera intelligente ed equa. Il potenziale di creazione di posti di lavoro in settori collegati alla prevenzione del cambiamento climatico è enorme. Molti settori, tuttavia, potrebbero essere colpiti dalla riconversione, e con essi i lavoratori. Per questo occorre giocare d’anticipo con misure di supporto per i settori emergenti e per quelli colpiti negativamente”.
Se da un lato questa affermazione del rappresentante del sindacato europeo (Ces) alla conferenza sul clima di Nairobi smonta uno dei luoghi comuni legati alle politiche ambientali, quello secondo cui il rispetto dell’ambiente comporta un blocco della crescita economica, dall’altro mette in campo tutti i problemi legati al rispetto del protocollo di Kyoto sulla prevenzione dei cambiamenti climatici.
La questione ambientale è stata riportata al centro del dibattito internazionale non tanto dalla conferenza di Nairobi, quanto dai risultati dell’imponente e inquietante ricerca pubblicata in novembre dalla prestigiosa Sterne Review. Dai risultati del gruppo di studi britannico, confezionati inizialmente ad uso del governo Blair, si evincono i rischi della politica cosiddetta del “business as usual” – (Bau), ossia l’atteggiamento di chi preferisce mandare avanti gli affari senza preoccuparsi del futuro –, che porterebbe a ignorare il problema e a mantenere i livelli di emissione dei gas nocivi come quelli odierni. Secondo Sterne il prezzo da pagare sarebbe una crisi come quella determinata dal crollo finanziario del ‘29, ma con un impatto ancora più ampio in termini sia economici che umani, e soprattutto a danno dei paesi poveri del mondo.
La rivista Sterne arriva a queste conclusioni combinando due modelli di cambiamento climatico (basso, con un innalzamento della temperatura di soli 2 o 3 gradi centigradi, e alto, che prevede un innalzamento di circa 5 gradi), che a loro volta incrocia con tre diversi scenari economici: dal più semplice, che prevede solo gli impatti di mercato, a quello mediano, che considera anche i rischi delle catastrofi ambientali, fino all’ultimo, che a questi due elementi aggiunge gli impatti che non possono essere contabilizzati ma di cui ogni governante dovrebbe tenere conto. I risultati delle perdite medie nel livello di consumo pro capite riferiti a ciascuna combinazione sono i seguenti: l’indicatore decrescerebbe del 2,1 per cento nella migliore delle ipotesi (bassa temperatura, tenuto conto solo degli impatti sui mercati), mentre lo scenario peggiore provocherebbe una perdita del 14,4 per cento (temperature più alte e modello più complesso).
La rivista indica poi delle possibili soluzioni. Tra queste vi è un maggiore sviluppo del mercato delle quote di inquinamento, come previsto dal Clean development mechanism annesso al protocollo di Kyoto. Un’indicazione immediatamente messa in atto dai rappresentanti dei paesi riunitisi a Nairobi, ma non priva di critiche. Secondo il giornalista del Guardian, George Monbiot, il meccanismo si configurerebbe infatti come un vero e proprio sistema di “vendita delle indulgenze”, mettendo a disposizione dei paesi industrializzati (e quindi ricchi e inquinatori) quote di inquinamento che questi possono comprarsi con soldi oppure finanziando progetti di sviluppo a basso impatto ambientale in paesi poveri. Un’occhiata ai progetti di questo tipo, riportati nel sito della conferenza, sembra dar ragione a Monbiot: è infatti la Gran Bretagna a spadroneggiare nella lista, con progetti finanziati soprattutto nelle sue ex colonie, e a riportare allo stesso tempo miseri risultati nel calo delle emissioni in casa propria.
Fin qui gli impatti negativi. Ma la Ces e altri sottolineano le possibilità di crescita legate alla produzione di energia da fonti rinnovabili. Dati non ancora ufficiali, al momento sotto esame a Bruxelles, prevedono una crescita delle possibilità di impiego nell’Europa a 25 nel settore della produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili. Anche in questo caso sono tre gli scenari considerati: il primo prevede una condizione di scarsa attenzione alle questioni ambientali: nonostante ciò gli occupati nel settore della produzione di energia elettrica “pulita” passerebbero dai 27.925 del 2000 ai 53.884 del 2020.
Un altro scenario (P&M Wuppertal) prevede invece che, per la stessa data, si potrà arrivare a 87.120 occupati nel settore. Mentre questi due primi scenari prevedono un contestuale calo degli occupati nei settori più tradizionali, come quello legato al petrolio e al nucleare, il terzo prevede una crescita dell’occupazione anche nel settore dell’energia nucleare e circa 60 mila occupati nel settore rinnovabile.
Sullo stesso piano si colloca il rapporto di Greenpeace “Elettricità rinnovabile e posti di lavoro: prospettive globali e italiane”, pubblicato sul sito italiano dell’associazione. Le prospettive di crescita dell’occupazione nel solo settore dell’eolico, sempre riferite a tre scenari, vanno da un minimo di 480 mila a un massimo di 1,44 milioni di nuovi posti di lavoro entro il 2030. Per quanto riguarda il settore del solare le proiezioni arrivano al 2025 e stimano una crescita di circa 3 milioni di posti di lavoro. Tali cifre, va detto, non sono al netto della contestuale perdita di posti di lavoro nelle industrie inquinanti; ma le dimensioni del sottraendo (ossia il numero di posti di lavoro persi nella produzione di energia elettrica tradizionale) fa ben sperare: la differenza sarebbe comunque positiva tanto per le nostre tasche quanto per i nostri polmoni.

(www.rassegna.it, Rassegna sindacale, gennaio 2007)

http://www.rassegna.it/2007/attualita/articoli/clima.htm
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