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Ogni volta che risparmi di Giacomo Bazzani
6.11.2006
"OGNI VOLTA CHE RISPARMI 5 SCELLINI TOGLI AD UN UOMO UN GIORNO DI LAVORO”
John Maynard Keynes
Scritto da Giacomo Bazzani   
mercoledì 01 novembre 2006
Tratto da  
 
C'è un evidente paradosso nel capitalismo di questi anni: ad un turbocapitalismo veloce, innovativo ma aggressivo corrispondono disuguaglianze e povertà sempre più crescenti.
Nel momento in cui avremmo quindi più bisogno di regole e di sicurezza sociale, viene ripudiato il Welfare State e si riduce tutto alle ”mani invisibili” (per dirla con Adamo Smith) delle leggi del mercato, alle quali ci si dovrebbe sottomettere senza più volerle controllare, rinunciando in questo modo alla libertà ed alla autonomia proprie di ogni individuo, con tutto quello che ne consegue in termini di libertà individuale e collettiva, e con effetti sociali planetari devastanti.
Scriveva Keynes nel 1936: "Suggerire un'azione sociale per il bene pubblico alla City di Londra è come discutere dell'origine della specie di Darwin con un vescovo nel 1865".
Sostituite la City con Wall Street (il cervello finanziario odierno), ed otterrete la medesima pregiudiziale: il bene pubblico, allora come oggi, non interessa al capitalismo, con l’aggravante che oggi non interessa più nemmeno alla politica, anche di “certa” sinistra.
 
Il capitalismo è stato ed è tutt’ora una grande forza di cambiamento, un sistema che ha la straordinaria capacità di mutare forma pur di conservare la propria sostanza, ma il suo DNA, da sempre, non sopporta né supporta le regole.
Nell’epoca fordista, ormai morta e sepolta, queste regole erano “imposte” al capitalismo dalla politica attraverso le mediazioni sociali che cercavano di orientare l’accumulazione di capitale a vantaggio di tutti. Erano le regolazioni del fordismo, imposte dalle lotte sociali e dalle istituzioni.
Ma oggi?
Oggi non è più così. Stiamo vivendo, ormai da almeno tre decenni, una fase rivoluzionaria del capitalismo; un capitalismo instabile ed incontrollato, un capitalismo che per la prima volta accumula capitale ma licenzia persone, un capitalismo i cui principi regolatori entrano prepotentemente anche in “funzioni pubbliche” depositarie di diritti di cittadinanza (e c’è chi, anche a sinistra, gli ha spalancato le porte), un capitalismo sempre più “finanziario” e sempre meno “economico-produttivo”.
Il capitalismo oggi, in assenza di regole, è indotto dalla sua stessa natura a mettere in competizione conflittuale società intere, e le mediazioni sociali, nell’assenza (volutamente voluta o volutamente subita) di autorità politico-istituzionali pubbliche, soccombono a tutto vantaggio delle Corporations.
 
Servirebbe quindi urgentemente un ordine per questo mercato senza regole.
Servirebbe soprattutto un libero mercato controllato da autorità pubbliche che impediscano, a vantaggio di tutti, l’imporsi di quei monopoli ed oligopoli nascosti ed inafferrabili che oggi rappresentano il vero governo mondiale e che, non per niente, considerano la guerra, la “militarizzazione” della società ed il controllo dei mezzi di informazione i loro principali alleati.
Ed infine servirebbe sottrarre alle logiche mercantili tutti quei beni comuni, sociali e strutturali (primo fra tutti l’acqua), il cui sfruttamento e la cui conservazione sono direttamente proporzionali al benessere e al progresso culturale, sociale, economico e produttivo, e per i quali, proprio per questa loro “universale” caratteristica, occorrerebbe garantire un accesso paritario a tutti i soggetti sociali, siano essi imprese o cittadini.
In una parola servirebbe, ammesso e non concesso sia mai verificato, il primato della Politica sull’Economia.
 
Riprendendo con altre parole il paradosso iniziale, sempre più grande è la ricchezza prodotta dal capitalismo, ma è altrettanto sempre più grande la contraddizione tra una sua ormai evidente distribuzione arbitraria ed iniqua da una parte, e la disoccupazione ed i bisogni sociali insoddisfatti dall'altra.
Una contraddizione che genera una pericolosa e drammatica propensione al sottoconsumo (o, per usare una terminologia Keynesiana, una sottoccupazione dei fattori produttivi) che il capitalismo, che per ovvi motivi teme il sottoconsumo, tende a nascondere ma che, essendone la causa, non è ovviamente in grado di risolvere.
Ma se il capitalismo non è in grado di risolverla, se è al governo del mondo tramite le Corporations, se si dimostra così pervicacemente ostile alle regole, e se chi dovrebbe “imporre” queste regole (la Politica) è così clamorosamente ed ossequiosamente latitante, allora dobbiamo recitare il de profundis per una delle più importanti invenzioni del ‘900, e cioè il Welfare State?
 
No, il Welfare State non è morto, o almeno non è morta la sua assoluta inevitabilità, e non è neppure morta la necessità, oggi più che mai urgente, di una politica economica autenticamente di sinistra che affronti e governi questa emergenza.
 
La ricetta che propose negli anni trenta del ‘900 John Maynard Keynes (economista di scuola e formazione liberale che il capitalismo non voleva distruggerlo ma riformarlo, forse troppo esaltato ma tradito un tempo, sicuramente troppo dimenticato adesso) per risolvere i drammatici problemi causati dalla Grande Crisi del ’29, ci appare, naturalmente riveduta alla luce delle necessità, dei bisogni e delle consapevolezze attuali, la più idonea per affrontare e risolvere, da sinistra, le moderne emergenze ed ingiustizie, considerati anche il tragico fallimento del collettivismo comunista ieri e del turbocapitalismo liberista oggi.
 
Lo Stato - diceva Keynes - non deve fare le cose che gli individui fanno già, ma fare quelle cose che gli individui non fanno del tutto".
 
Ribaltandolo ai giorni nostri, questo concetto così elementare significa che, ad esempio, salute e ambiente rappresentano altrettanti diritti umani (e non bisogni come vorrebbe farci credere il turbocapitalismo odierno) che diventeranno sempre di più una necessità crescente (molto più pregnante rispetto al passato) e questo giustificherà l'intervento della Politica perchè il capitalismo “è anche incapace – e sempre Keynes che parla - di garantire l'allocazione intertemporale delle risorse, dunque solo lo Stato potrà occuparsi del nostro futuro a lungo termine".
 
Tra l’altro proprio in questa frase è da ricercare, in ultima analisi, il motivo di quella pratica (altrimenti non spiegabile) che ha portato le varie contabilità nazionali a considerare i beni e servizi prodotti dallo Stato come "valori d’uso non destinati alla vendita", e cioè all’affermazione del principio (oggi così tenacemente messo in discussione dalla politica, anche di “certa” sinistra) per cui dei servizi di pubblica utilità (primi fra tutti i servizi del welfare), proprio in quanto “utili a tutti”, si debba usufruire "per diritto", e non “per bisogno”.
È appena il caso di far notare, per sottolineare l’attualità keynesiana, che senza questa “rivoluzione copernicana” non sarebbe stato possibile l’affermarsi di quei diritti sociali (al lavoro, all’istruzione, alla salute, all'assistenza ecc.), che abbiamo visto recepiti nelle costituzioni europee del secondo dopoguerra, e cioè di quei diritti la cui fruibilità è oggi messa in discussione, o quantomeno fortemente limitata dalla connotazione mercantile che gli si vorrebbe “obtorto collo” attribuire.
Occorre quindi che la sinistra, per rimanere tale, ritorni ad una politica economica che non rincorra le derive liberiste cercando di salvare il salvabile, ma che proponga un modello alternativo, e cioè una politica economica regolatrice del mercato, che si faccia garante, per dirla con Keynes, “delle cose che gli individui non fanno del tutto”, e che, sia ben chiaro, non avrebbe nulla da spartire col cosiddetto "keynesismo di guerra" dell’Amministrazione americana di cui si straparla dall'11 settembre.
 
Oggi vorrebbero farci credere (e questo è una delle fandonie più clamorose della globalizzazione) non solo dell’inutilità e dell’inefficacia di qualsiasi politica economica nazionale, ma addirittura del suo aspetto controproducente.
 
In realtà non è così. Basterebbe rendersi conto infatti che in tutti i paesi economicamente avanzati la metà del pil, come minimo, è direttamente riconducibile all'azione dello Stato, per accorgersi che siamo di fronte ad una affermazione da annoverare nella categoria delle stupidaggini.
Lo Stato gioca ancora un ruolo importante, sia per quanto riguarda il governo dell'attività economica, sia per quanto riguarda il reperimento delle risorse (le accese discussioni sulla Legge Finanziaria di questi giorni sono lì a dimostrarlo).
I paladini del turbocapitalismo liberista lo sanno benissimo. Ed infatti da una parte invocano il cosiddetto “Stato leggero”, ma dall’altra pretendono il suo intervento per garantire i loro affari, secondo la sempre valida formula della “privatizzazione dei profitti e socializzazione delle perdite”.
 
Ma è proprio qui che lo Stato, cedendo a questo ricatto, perde il ruolo che Keynes gli destinava. Perché quando uno Stato predica le “virtù” del risparmio e della libera iniziativa, significa, molto semplicemente, che smette di essere Stato inteso come organismo ricettivo e regolatore di interessi diffusi per trasformarli in altrettante opportunità per tutti.
Uno Stato occidentale non predica le “virtù” del risparmio, ma interviene per tutelarle.
Uno Stato occidentale non predica le “virtù” della libera iniziativa, ma interviene per regolamentarle.
 
Non ci sfuggono di certo i limiti, anche strutturali, che l’azione pubblica ha mostrato e mostra; tipo la eccessiva burocratizzazione, o ancora la evidente difficoltà a provocare una partecipazione consapevole a scelte che riguardano la collettività, oppure la cosiddetta “regulatory capture”, ossia le numerose circostanze in cui il ruolo regolatore dello Stato è stato, ed è, spesso “catturato”, e cioè distratto, da interessi particolari.
Una moderna politica economica della sinistra deve prendere atto di questi limiti, e lavorare per superarli. Ma questo non ha nulla a che fare con chi si compiace che il Welfare State stia per essere buttato al macero.
 
Il decadente capitalismo, internazionale ma individualistico, nelle cui mani ci siamo trovati dopo la guerra, non sta avendo molto successo. Non è intelligente, né bello, né giusto, né virtuoso, né si comporta come dovrebbe. In breve non ci piace e anzi stiamo cominciando a detestarlo".
 
Questo scriveva Keynes nello stesso articolo in cui compare la citazione riportata all’inizio.
Era una affermazione “scandalosa” per un liberale degli anni ’30. Ma sembra scritto ieri.
Questa circostanza, se dimostra al di là di ogni ragionevole dubbio, la sua evidente attualità, dall’altra rappresenta la sua “trasgressività” ed insofferenza nei confronti dell’ordine costituito, che fa di lui e della sua teoria economica rivoluzionaria uno strumento per la sinistra, forse l’unico, per rispondere alla millenaria aspirazione ad una società più libera e più giusta.

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