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Luiss, la classe dirigente italiana
27.02.2007

Presentato a Roma il I Rapporto Luiss sui vertici della società italiana Confermati molti stereotipi negativi, soprattutto per i politici. Maggiore fiducia nei dirigenti economiciAutoreferenziale, utilitarista e in crisi La classe dirigente non piace e fa autocriticaI criteri di accesso si basano sulla cooptazione, e non sul merito. I giovani profondamente sfiduciati Due su tre pensano che avranno una posizione sociale simile o inferiore a quella dei genitori

 

ROMA - Una classe dirigente che non piace e che soprattutto non si piace, incapace di identificarsi nel ruolo guida e di rappresentanza dell'interesse generale che il Paese richiede. Dopo le molte analisi sulla crisi del ceto medio, la Luiss ha pubblicato oggi il primo Rapporto 'Generare classe dirigente - Un percorso da costruire', un censimento dei vertici della società che si propone anche di esaminarne valori, modelli e obiettivi.

Per scoprire che, come ha spiegato uno degli autori del Rapporto, Massimo Bergami, della Alma Mater Studiorum e Alma Graduate School Università di Bologna, "I dirigenti italiani non si sentono classe dirigente". Nel senso che descrivono la classe dirigente con "stereotipi negativi" analoghi a quelli utilizzati dal resto della popolazione, a cominciare dall'orientamento all'utilitarismo e dalla scarsa predisposizione verso le competenze e i valori.

Ragion per cui, rileva il Rapporto, "i dirigenti non ritengono l'attuale classe dirigente un gruppo attrattivo, nel quale riconoscersi e identificarsi". E la mancanza di identificazione porta a una conseguenza ovvia: "Se io non mi riconosco in quel gruppo - spiega Bergami - non agisco come membro di quel gruppo. Per cui una cosa è fare l'imprenditore, o l'ambasciatore, e un'altra è riconoscere la responsabilità che questo comporta. Non riconoscersi come classe dirigente diventa quindi un modo per dire che è sempre colpa degli altri. E per non sentire come propri gli interessi della collettività, ripiegando su quelli di parte".

 

 

La classe dirigente specchio dunque di un Paese disgregato, che non riesce a identificarsi nell'interesse generale. Come invece dovrebbe fare, a detta degli stessi dirigenti, che alla richiesta di tracciare un "profilo ideale della classe dirigente italiana" hanno indicato come competenze maggiormente rilevanti la "visione strategica", "senso morale, legalità, etica", "capacità d'innovazione e creatività", "capacità di attuare le decisioni" e "credibilità internazionale".

Qualità non troppo diverse da quelle che il resto della popolazione vorrebbe riscontrare nella propria classe dirigente: "La popolazione vorrebbe una classe dirigente con maggiori competenze specifiche - spiega un altro degli autori del Rapporto, Carlo Carboni, dell'Università Politecnica delle Marche - e maggiore assunzione di responsabilità, vorrebbe che fosse meno un'elite autoreferenziale. Il leader ideale del futuro deve comportarsi come un buon padre di famiglia, avendo come registro fondamentale il buon senso".

Se da un lato le attuali carenze della classe dirigente sono da attribuirsi, rileva il Rapporto, a un eccessivo ricambio operato negli ultimi anni, anche in modo piuttosto traumatico (si citano Mani Pulite, ma anche uno spoil system 'selvaggio'), dall'altro sono messi sotto accusa i 'meccanismi di reclutamento', tutt'altro che meritocratici. Per arrivare ai vertici infatti più che "la conoscenza" contano "le conoscenze", si arriva per "cooptazione", non certo per "merito": infatti ricchezza e relazioni importanti sembrano le due risorse che maggiormente caratterizzano, secondo il giudizio generale, le classi dirigenti italiane.

Che, secondo la popolazione, sono carenti di visioni strategica (per il 42,7% degli intervistati), di capacità decisionale (44,7%), innovazione e creatività (46,3%) e, soprattutto, di senso della moralità e della legalità (58%) e di responsabilità pubblica e sociale (50,9%). Insomma, si legge nel rapporto, "la banalizzazione di questa percezione popolare è che comandano "i ricchi e i raccomandati" e non i migliori.

Il giudizio negativo investe soprattutto la classe politica, e in minor misura gli altri settori dirigenti. Nella percezione generale si riconosce anzi un rafforzamento, un maggiore prestigio alle professionalità economiche (imprenditori, vertici bancari, finanziari e assicurativi). Tra i politici mantengono un certo prestigio le principali cariche istituzionali dello Stato: sono loro, nell'opinione comune, e in minor misura i politici nazionali ed europei, che potrebbero "portare il Paese fuori dalle secche della crisi".

Il Rapporto della Luiss si è anche preoccupato di effettuare un 'censimento' delle classi dirigenti, individuando tre gruppi: una prima mappa ristretta che comprende circa 2000 unità, una intermedia di 6.000 unità, e una 'allargata' di 17.000 unità. L'elite è sostanzialmente anziana: l'età media è passata da 56,8 a 61,8 anni tra il '90 e il 2004.

Nell'opinione degli intervistati nei primi quattro posti si trovano i magistrati, gli esponenti dei mass-media, i vertici sindacali e i vertici di banche e di istituzioni finanziarie, seguite dai vertici istituzionali e politici. Gli esponenti dei mass media hanno però un ruolo rilevante solo nella percezione della classe dirigente, ma non in quella del resto della popolazione, che manifesta anzi una certa insofferenza per il ruolo dei mass media, soprattutto di quelli tradizionali.

L'elite appare chiusa, soprattutto ai giovani: i due terzi degli intervistati tra i 20 e i 30 anni sono convinti che "avranno un lavoro e una posizione sociale sostanzialmente simile oppure tendenzialmente inferiore a quella dei genitori".

 

Daniela Italia, Segretario Generale Fondazione Rosselli

www.fondazionerosselli.it

 


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