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Tranvieri ed utenti a Milano. di Carlo Ghezzi
10.02.2004

Tranvieri ed utenti a Milano - Casa della Cultura (Milano) - 9 febbraio 2004
Relazione di Carlo Ghezzi - Presidente della Fondazione Giuseppe Di Vittorio
Nel tardo inverno del 1944 i tranvieri milanesi interrompevano senza preavviso
il lavoro per scioperare. Insieme a tantissimi lavoratori del Nord Italia lottavano
contro la guerra e contro il fascismo. I giornali italiani tacquero la notizia, ma ne
parlò il New York Times descrivendo l’evento come il più grande fatto di
resistenza di massa che si fosse verificato in un paese presidiato dai nazisti.
Sessanta anni più tardi i tranvieri si sarebbero fermati nella nostra città per ben
12 volte, alcune delle quali senza il doveroso preavviso alla città ed agli utenti.
Questa volta la stampa americana non lo ha sottolineato, ma i giornali italiani
sono stati invasi da articoli con notizie di questi scioperi, di commenti, di grida
manzoniane, di giudizi, moltissimi dei quali ovviamente negativi, ma con poche
riflessioni sulle cause di quanto accaduto, sulle responsabilità reali, soprattutto
senza proposte su quanto sarà necessario mettere in campo perché tali fatti
non abbiano a ripetersi.
Una premessa per osservatori distratti. Nel nostro Paese, da anni, nei settori
dei servizi pubblici e privati, si sciopera pochissimo, mentre si sciopera in modo
endemico solo nel settore dei trasporti, siano essi aeroporti, ferrovie e trasporto
locale. Il ricordo degli ultimi scioperi duri e pesanti, ma anche gli ultimi risultati
contrattuali che producono tra i lavoratori insoddisfazione e contestazioni, nella
energia, nelle comunicazioni, nelle banche, nella scuola o nella sanità, si
perdono nella notte dei tempi. Occorre tornare al 1987 per il blocco degli
scrutini del contratto della scuola, o addirittura al 1978 per il contratto della
sanità e delle 27.000 lire aggiuntiva erogate dalla Regione Veneto che
scatenarono la bagarre. Eppure sono tutti settori con il diritto di sciopero
regolato dalla stessa legge, la 146. Allora perché solo nel caso delle agitazioni
nei trasporti vengono dunque penalizzate così frequentemente l’utenza e
l’economia dei territori coinvolti? Avanziamo ai nostri gentili interlocutori di
questa sera dei ragionamenti e delle analisi che ci piacerebbe confrontare con
franchezza.
Noi pensiamo che sia assolutamente necessario cambiare il quadro di
riferimento e le modalità nel sistema di relazione tra i diversi soggetti: elementi
che portano alle attuali difficoltà. Noi riteniamo che nel comparto del trasporto
pubblico locale si sono avviate liberalizzazioni e privatizzazioni che hanno
caricato Regioni e Comuni di compiti e competenze senza, però, dare loro le
necessarie risorse.
Il fondo nazionale dei trasporti è stato aumentato negli ultimi sei anni dell’8%, a
fronte di un aumento complessivo della inflazione negli stessi anni del 26%.
Nessun quadro definito di riforma è stato varato e si è lasciata in sospeso la
definizione di un punto chiave. Il settore, che pure va avviato verso la ricerca
della massima produttività, è comunque un servizio pubblico o meno? Milano
deve essere servita da un servizio accessibile e ben regolato dalla mano
pubblica che risponda alle esigenze dei cittadini ed anche a quelle delle realtà
economiche e produttive? La risposta, va da se, è positiva.
Ma anche i paesini del Molise e dei monti della Sila, in Calabria, collegati
spesso malamente tra loro da autocorriere che viaggiano assai frequentemente
quasi vuote per la scarsa densità delle popolazioni residenti, abbisognano di un
servizio, gestito da realtà pubbliche o private che siano, ma comunque con una
garanzia di servizio minimo dato a tutti, con particolare attenzione alle fasce
meno abbienti che risiedono in quelle località?
La risposta non può che essere ancora affermativa. O qualcuno pensa che la
risposta ad ogni bisogno venga data dal mercato? Allora negli Abruzzi non
esisterebbe il benché minimo presupposto economico nè per fare viaggiare le
corriere, né per trasportare le persone verso quella località o quell’altra, verso
quell’ospedale o quella scuola? Se il servizio di pubblica utilità va sostenuto,
discutiamo allora il come: ricerca di una più alta produttività, integrazione e
razionalizzazione dei diversi servizi, con qualcuno che la coordini e con risorse
della collettività.
Ritengo assurda la regola, perfezionata dal centro sinistra, che prevede un
autofinanziamento con biglietti ed abbonamenti valutato al 35%. Il 35%
recuperato con le tariffe in una grande città, magari fornita di metropolitana, è
una cosa, a Sulmona è una assurdità che fa morire l’azienda e chi la deve
finanziare usando lo stesso metro di misura di Milano o di Roma. Né,
tantomeno, la manovra tariffaria è estensibile oltre una certa misura. Infatti, il
95% delle aziende è gravemente indebitato, nessuno ripiana e non si sa più
come uscirne, nè tanto meno si sa come finanziare il rinnovo contrattuale.
Questo stato di cose la dice lunga su un dato ignorato dai media: tutto il
Mezzogiorno e tantissime realtà territoriali del centro nord, non solo non hanno
mai scioperato, ma hanno accolto gli 81 euro dell’aumento contrattuale come
una manna insperata, soprattutto se rapportati allo stato prefallimentare della
loro azienda.
Inoltre le aziende, trasformatesi in società per azioni, sono di sostanziale
proprietà comunale, ma vengono alimentate con finanziamenti di provenienza
regionale. La Regione paga ma non ha le aziende, i Comuni hanno la proprietà
delle aziende ma non hanno i soldi. I soldi che hanno le Regioni non sono
assolutamente sufficienti. Ci sono le competenze, ma senza adeguate risorse e
senza un interlocutore nazionale che coordini, che intervenga e che decida.
In tale contesto la ASSTRA e la ANAV, le Associazioni del settore che
organizzano le aziende e che siedono al tavolo di trattativa nazionale con i
sindacati nazionali dei trasporti non hanno la benché minima autonomia
contrattuale.
In tale situazione, guardando ai mesi passati, il governi e segnatamente il
ministro Tremonti, resistono per ben due anni a fornire un poco di risorse al
settore, finché dopo dura resistenza solo nel dicembre 2003, decidono di
mettere delle accise sulla benzina, si chiamano tassa nel linguaggio corrente,
per reperire risorse in modo tale che sono direttamente i cittadini a finanziare il
rinnovo contrattuale degli autoferrotranvieri. Una trovata, a quel punto, forse,
necessaria, ma assurda ed irripetibile.
Ovviamente giudichiamo il Ministro Tremonti, senza ombra di dubbio, il maggior
responsabile di quanti accaduto a tranvieri, ai cittadini ed alle forze
economiche. In questa circostanza,ha agito da vero apprendista stregone, che
non ha voluto definire le risorse per il sostegno ad un servizio di pubblica utilità
quale quello del trasporto urbano, né, tanto meno, ha saputo prevedere il fatto a
tutti noto di avere di fronte un biennio contrattuale da rinnovare ed un contratto
nazionale ormai prossimo alla scadenza.
Ma come vive il trasporto pubblico locale? Quali sono le condizioni di chi vi
lavora? Quale servizio viene offerto ai cittadini? Come lo si finanzia in modo
equo? Come non avere un nuovo patatrac al prossimo rinnovo contrattuale?
A queste domande si può rispondere positivamente solo con una profonda
riforma del settore che affronti insieme il tema della produttività delle aziende
del trasporto, le finalità pubbliche, le regole e gli standard che debbono
sovrintendere ad un processo di liberalizzazione, e che si ponga il problema
della certezza dei finanziamenti. O qualcuno pensa ancora ad escamotage
quale quello delle accise sulla benzina arraffate all’ultimo momento dopo due
anni passati da struzzo con la testa sotto la sabbia?
Attenzione che tutto il settore dei trasporti è sottosopra, con la crisi profonda
dell’Alitalia, con le Ferrovie dello Stato che hanno pur in forma diversa gli stessi
problemi. Occorre ridefinire il quadro di riferimento con chiarezza e rigore, o la
prossima volta saremo punto ed a capo.
Le aziende dell’autoferrotranvieri hanno alle spalle una storia contrattuale e
produttiva non sempre gloriosa, a volte hanno recuperato produttività
scaricando i costi sulla collettività e sull’INPS, prepensionando lavoratori
anziani ma non vecchi, con salari elevati ed assumendo giovani con stipendi più
contenuti. Hanno sedimentato negli anni contraddizioni nella struttura del
salario, con all’oggi, alcune aziende -non tutte ovviamente- che pagano quote
rilevanti del vecchio salario aziendale, spesso non corrisposto ai nuovi assunti;
con città che hanno ancora, per i tranvieri più anziani, l’indennità corrisposta per
i Mondiali ’90; e con un contratto nazionale che deve rimettere tante, troppe
vecchie cose a posto, mentre, nello stesso tempo, deve difendere il potere
d’acquisto dei salari dall’inflazione e lasciare al secondo livello aziendale di
trattativa, il compito di recuperare quella parte della produttività che non va ad
investimenti.
Ma a Milano si è giocata una altra insidiosa partita. Non solo le aziende,
milanesi e non, hanno tentato di usare le lotte dei lavoratori per farsi dare soldi
dal Governo, guardando magari maggiormente al risanamento dei bilanci
correnti che non alle risorse necessarie per il rinnovo dei contratti, ma si è
giocata anche una partita durissima tesa a fare saltare il contratto nazionale:
protagonisti il reo e confesso Ballotta della FIT-CISL, Formigoni e De Corato.
Sì, ho citato De Corato, oggi Vice Sindaco scandalizzato dalle lotte fatte fuori
dalle regole, ma che alla fine degli anni ottanta partecipava ai picchetti
organizzati dalla CISNAL e dal delegato Mannino che bloccavano ad oltranza i
mezzi ATM del deposito di Palmanova, per protestare contro gli zingari che,
accampati vicino al deposito medesimo, ne utilizzavano saltuariamente i servizi
igienici. Un grande esempio di tolleranza e di senso civico dal quale adesso
arrivano anche pretese lezioni di morale.
E proprio questi ambienti, sciaguratamente, hanno promesso tanti soldi ai
lavoratori in cambio dell’abbandono del CCNL, di una contrattazione solidale
nazionale, unificante nel salario e nei diritti minimi, regola nella concorrenza,
hanno offerto un modello bsato, non sul livello medio di produttività del settore,
ma sulle differenze del presunto costo della vita sul territorio, misurate chissà
come, tentando così un maldestro ritorno alle gabbie salariali.
Una operazione politica pesante tentata anche, abbastanza scopertamente, alla
luce del sole, stuzzicando ovviamente l’appetito dei lavoratori, ma subendo
infine una sconfitta pesante da parte dei lavoratori medesimi, guidati dalla
CGIL, dalla gran parte della UIL e da quei settori della CISL che non hanno
seguito le pericolose chimere di Ballotta.
Il contratto nazionale è stato rinnovato e difeso, anche scontando irritazione e
critiche nelle aziende più ricche e nelle concentrazioni sindacali più forti. Il
risultato del referendum indetto pur dalla sola FILT-CGIL è indicativo del polso
della intera categoria, aree deboli e forti insieme.
I COBAS, hanno avuto ufficialmente la vetrina a disposizione, ma la merce non
è mai stata loro. L’azienda è stata, a mio giudizio, totalmente connivente nella
ultima fase di asprezze il cui vero obbiettivo era quello di fare saltare il contratto
nazionale.
Ho qualche esperienza come sindacalista: non si prepara uno sciopero così
imponente come quello del primo dicembre, che richiede giorni e giorni di
organizzazione, all’insaputa dei delegati. E pare difficile che capi e capetti non
abbiano riferito ciò che si andava preparando ad una Direzione Aziendale
silente e complice, o nel migliore dei casi, acquiescente.
A Milano si è sparato sul CCNL con il cannone, dopo otto scioperi fatti nelle
regole senza ottenere risultato alcuno, giocando sulla esasperazione dei
lavoratori. I lavoratori hanno sbagliato, occorre dirlo con nettezza, le lotte
attuate senza preavviso che colpiscono altri lavoratori, cittadini, realtà
economiche, non sono accettabili.
Va detto con determinazione: quei lavoratori possono avere delle attenuanti,
certo, ma le regole sono regole, nel lavoro e nella convivenza civile, ed alla
lunga la rottura delle regole colpisce inesorabilmente i più deboli, quelli che
delle regole hanno bisogno. Sono i prepotenti ad aver fastidio delle regole.
Sempre.
A Milano, grazie anche al prezioso e saggio contributo del Prefetto Bruno
Ferrante, forse l’unica tra figure istituzionali all’altezza della situazione, si sono
create le condizioni per un accordo integrativo che ha portato ai lavoratori,
sempre con la firma dei Sindacati confederali, altri 25 euro aggiuntivi agli 81
euro del CCNL. Una soluzione di buon senso ma ritengo, abbastanza
irripetibile: l’adeguamento del potere d’acquisto dei salari a metà contratto non
può essere garantito dall’integrativo aziendale.
Milano, dunque, ha dovuto assorbire in poco più di un anno ben otto scioperi
dei trasporti proclamati dai Sindacati confederali più altre quattro giornate di
lotta, un po’ all’arma bianca, nello scorso mese di dicembre. I costi umani ed
economici sono stati enormi: alle persone, ai pendolari appiedati, agli studenti,
alle massaie, ma anche alle attività produttive, commerciali e culturali, è stato
fatto pagare molto, direi decisamente troppo. Alla fine si sono concessi ai
lavoratori del trasporto locale esattamente i 106 euro richiesti.
In città vi è stata rabbia nei loro confronti, ma nessuna marcia dei quarantamila
contro di loro. I cittadini milanesi, così come quelli di altre città, hanno subito,
sofferto ma capito ed intuito molto.
Ci si deve attrezzare, dunque, ad ogni livello, per predisporre un quadro di
riforme, di norme nuove, di finanziamenti certi, che permettano di rinnovare
rapidamente il contratto nazionale già scaduto e di ridefinire un rapporto
armonico fra tranvieri, cittadini e realtà economiche e sociali.
La discussione di questa sera può aiutarci a capire meglio quanto è successo,
ma soprattutto quanto bisogna fare, perché le vicende delle scorse settimane
non abbiano a ripetersi.

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