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Per la Pace senza Dogmi e scomuniche - di Luigi Bobba
29.02.2004

La pace non si improvvisa, si prepara. E non va usata a scopi elettorali.

La posizione delle Acli sull’Iraq è lineare e coerente: nel momento dell’intervento degli USA abbiamo pronunciato il nostro più deciso “no” alla guerra; al termine del conflitto se di termine si può parlare siamo stati contro l’invio delle truppe italiane in Iraq; oggi siamo per il “no” al rifinanziamento della missione italiana e per il ripristino di una situazione di certezza del diritto internazionale; oggi come allora siamo per un segnale forte a favore del multilateralismo, per la restituzione dell’iniziativa all’Onu, per la partecipazione degli italiani alle operazioni di peacekeeping sotto l’egida delle Nazioni unite. Siamo per il ritiro delle truppe belligeranti e per l’insediamento coordinato delle forze di pace; non siamo per abbandonare alla violenza e alla guerra civile un Paese che è passato dalla dittatura al caos, siamo per favorire un’azione di accompagnamento dell’Iraq verso la stabilità politica; siamo contrari all’esportazione della democrazia manu militari, siamo per una transizione democratica di cui sia veramente protagonista il popolo iracheno, nell’applicazione del principio di autodeterminazione dei popoli, senza strizzare l’occhio ad una resistenza irachena, tanto vaga quanto armata.

Come è ovvio, questa posizione non rivendica l’esclusiva della rappresentanza del mondo cattolico, né tanto meno quella dell’associazionismo e neppure della politica per la pace in senso lato. A questo proposito, invece, anche noi registriamo con una certa amarezza, che nei giorni scorsi sulla questione del voto per il rifinanziamento della missione italiana, sono riemerse parole singolari per una compagine che fa della pace la sua missione specifica: schiaffi, liste di proscrizione, scomuniche, patenti di affidabilità, esclusioni. Parole che maleodorano di dogmi e di scismi, di fratture, di integralismi e in sostanza, paradossalmente, di conflitti.

Noi siamo tra quelli che hanno sempre detto che il popolo arcobaleno era multiverso, plurale, non riconducibile ad un solo orientamento culturale e quindi non ci scandalizziamo per i punti di vista differenti sulla questione. Così come non possiamo ammettere che i distinguo tra l’astensione e il no possano costituire una pregiudiziale per la partecipazione alla prossima Marcia della Pace del 20 marzo. Siamo convinti, infatti, che in politica il ruolo dei movimenti e delle associazioni sia diverso da quello dei rappresentanti politici in sede legislativa. Pertanto, personalmente trovo irresponsabile, in questo momento più che mai, lasciare spazio dentro e fuori il Palazzo, a delegittimazioni reciproche, che tra l’altro sono sospette di doppi fini di natura elettorale e che poco forse hanno a che fare con la questione irachena in senso stretto.

Ma il punto vero che questa vicenda mette in luce a mio avviso è anche un altro. Il dato che emerge con chiarezza dagli scontri tra i partiti e tra le associazioni, che in questi giorni sono stati oggetto di tanta attenzione da parte della stampa, è che la pace non è faccenda che può essere improvvisata; al contrario ha bisogno di essere “preparata”. Insomma, si fa presto a dire pace. Ma anche sulla pace si può rischiare, paradossalmente, di farsi la guerra. C’è una contraddittorietà che evidenzia un deficit culturale condiviso che sia dell’impegno per la pace fine e mezzo, fondamento e metodo. La pace ci chiederebbe di bandire una volta per tutte la logica amico-nemico dagli atteggiamenti e dai comportamenti politici; di praticare il dialogo anche tra le diverse componenti culturali che convivono in mezzo a noi e non solo fuori dei confini nazionali, tra i popoli e le religioni; di sperimentare l’accoglienza dell’altro a tutti i livelli personali, locali e nazionali, prima ancora che internazionali in un confronto differenziato e critico se occorre, ma sempre costruttivo. Chi farà questo “miracolo”? A quale valore condiviso ancorare l’impegno per la pace? Certo è che, qui sì, si avverte l’urgenza di una coerenza più profonda, pena un astrattismo e una nuova demagogia utopistica della pace.

Le Acli indicano una strada: è nostro convincimento che tale riferimento etico comune possa essere trovato nell’idea della fraternità universale. La visione di un mondo futuro più in pace ha bisogno per avere prospettive autentiche di realizzazione di un’idea forza, che ci aiuti a tutti i livelli a non guardare l’altro come un avversario da combattere ma come un fratello da amare. Abbiamo una grande responsabilità nei confronti dei milioni di cittadini del popolo delle bandiere. Senza questa pratica diffusa della politica della fraternità rischiamo di prospettare loro un’allucinazione collettiva più che un traguardo per l’umanità.

In questo senso, sforzarsi di radicare la pace nell’etica della fraternità, non è quindi una velleità utopistica o moraleggiante. Al contrario, è un lucido esame di realtà che ci costringe a questo passo. La fraternità appare l’unico paradigma politico proporzionato alle sfide interne ed internazionali della convivenza e della interdipendenza poste dalla globalizzazione, l’unica categoria su cui fondare una politica di pace davvero efficace. Mentre viceversa, per dirla con Jacques Maritain, «…non c’è disposizione di spirito più sostanzialmente antipolitica della diffidenza conservata nei confronti dell’idea d’amicizia fraterna».

Credo che sia questo il passo vero da segnare insieme nella prossima Marcia della Pace del 20 marzo. Un passo non zoppo: non solo per l’ Iraq, ma contro tutte le guerre nel mondo. Un passo consapevole, capace di orientare le energie civiche dei singoli e delle associazioni verso un impegno non vano. Un passo coraggioso, capace di aprire alla politica nuove strade nel faticoso cammino per il raggiungimento di una mèta tanto ambiziosa quanto necessaria, quale è quella della convivenza pacifica tra i popoli e dell’unità della famiglia umana.

Luigi Bobba
Presidente nazionale Acli

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