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Il modello umano e politico di Enrico Berlinguer
17.03.2004

Ilo modello umano e politico di Enrico Berlinguer a vent'anni dalla scomparsa- Relazione di Iginio Ariemma

1. La discussione su Berlinguer

Il ventesimo anniversario della scomparsa di B. può, anzi deve, essere l’occasione per compiere una valutazione equilibrata ed equanime dell’opera e del pensiero di questa grande personalità politica che ha contrassegnato un periodo importante della storia italiana. In questi vent’anni un esame equilibrato di tale genere non c’è stato. Ci sono stati contributi significativi –di dirigenti politici e di storici-, ma anche quelli più seri e rigorosi risentono talvolta in modo eccessivo della polemica politica attuale, cioè delle scelte successive che ognuno di noi ha compiuto. In altri termini B. è stato tirato da una parte e dell’altra, al di fuori e all’interno dei Democratici di Sinistra.

Nel 1994, a dieci anni dalla scomparsa, quando non c’era più il PCI, Massimo D’Alema e Walter Veltroni si contesero la successione a segretario di Occhetto anche nel nome di B. cercando entrambi di sfidarsi sulla sua eredità. Così alcuni anni dopo ha fatto anche Pietro Folena prima di essere incaricato nel ruolo di coordinatore della Segreteria addirittura come interprete di una generazione sedicente berlingueriana. Un’analoga operazione ha compiuto lo scorso anno Piero Fassino pubblicando la sua autobiografia che porta come titolo "Per passione".

Oggi, più che sul periodo degli anni settanta del compromesso storico, c’è attenzione sull’ultimo B.. Attenzione è un eufemismo. Perché è in realtà in atto una critica talora perfino demolitrice del suo pensiero e della sua azione politica. B. sarebbe stato negli ultimi anni conservatore, fondamentalista, settario, addirittura arcaico e decadente. Alla radice d questo giudizio c’è un punto evidente: il pensiero di B. sarebbe di ostacolo, ieri e oggi, al processo d socialdemocratizzazione. La pubblicazione delle note di Tonino Tatò, il suo collaboratore più stretto e fedele, ("Caro Berlinguer", Einaudi 2003) ha dato esca a questo ritratto un po’ acido. Ma il pensiero di Tatò è quello di B.? Chi, come me, ha avuto modo di collaborare con lui ha seri dubbi. Lo stesso giudizio del resto ha Giglia Tedesco, la compagna di Tatò, la quale mi ha confessato che era politicamente contraria alla pubblicazione del libro. Almeno su un punto si dovrebbe essere tutti d’accordo: B. non la pensava come Tatò –e tanto meno come Franco Rodano- sull’Unione Sovietica e sui paesi del socialismo realizzato, come stanno ad indicare le vicende e gli scritti dopo lo "strappo" del dicembre 1981; e come ormai è documentato dai materiali che provengono dagli archivi ex sovietici sui finanziamenti al giornale Paese Sera e a coloro che, osteggiando la linea di B., conducevano la battaglia contro di lui.

In queste critiche, ripeto, talora troppo acrimoniose e pesanti, si cerca sempre però di salvare il B. uomo rispetto al B. politico. Giustamente Vittorio Foa dinanzi ai funerali di B., colpito dalla enorme partecipazione dei cittadini di diversa estrazione sociale e di diverso orientamento politico, disse: "Una tale partecipazione può essere spiegata soltanto se B. viene considerato dal popolo un modello umano e politico"

Separare B. uomo dal B. politico e dirigente del PCI è un’operazione impropria e per certi versi non possibile. B. è certamente stato un leader che è andato al di là del PCI come popolarità e come consenso. Ma senza la storia del PCI non credo che si possa comprendere la sua figura, il fatto che sia stato il segretario più amato, più di Togliatti, come ha scritto Emanuele Macaluso nella sua recente biografia. ("50 anni di vita nel PCI". Rubbettino 2004).

 

2. Il compromesso storico e i governi di solidarietà democratica

B. diventa vice segretario del PCI nel febbraio del 1969 (XII congresso) e segretario nel 1972 e vi rimane fino alla morte nel giugno 1984. Ho avuto la fortuna e l’onore di essere eletto membro del Comitato Centrale proprio nel ’69 e di essere rimasto tale fino allo scioglimento nel 1991. Prima di allora B. aveva avuto un cursus honorum brillante ma nulla di più: segretario generale dei giovani comunisti, responsabile nazionale dell’organizzazione dopo Giorgio Amendola nel 1960. C’era stata anche qualche amarezza, soprattutto dopo l’XI Congresso del 1966, il congresso tanto per intenderci dello scontro tra Amendola e Ingrao.

Alla base della strategia politica di B. ci sono due concetti forti: il compromesso storico e l’alternativa democratica. Entrambi questi concetti sono già contenuti nei famosi articoli del 28 settembre, 5 e 12 ottobre del 1973 su Rinascita che prendono spunto dal colpo di stato di Pinochet in Cile che portò all’affossamento del governo di sinistra e all’assassinio di Salvatore Allende; e vengono confermati nell’ articolo per "La repubblica" dieci anni dopo nel settembre 1983. La sostanza di questi concetti è la seguente:

- se si vuole trasformare e rinnovare l’Italia non basta l’alternativa di sinistra e non basta ottenere il 51% dei voti;

- se si ha soltanto il 51% prima o poi le forze più conservatrici e reazionarie si aggregano in un blocco antidemocratico che distrugge il processo riformatore ed anche la democrazia come è successo in Cile;

- di qui la necessità di un’alternativa più larga –democratica appunto- e quindi di un compromesso storico tra le grandi componenti culturali a cui fa riferimento il popolo italiano, quella comunista, quella socialista e quella cattolica, anche nelle sue espressioni partitiche, cioè il PCI, il PSI, la DC.

La proposta del compromesso storico aveva già avuto una sanzione precedente nel Congresso di Milano nel 1972 in cui B. pose con forza la questione comunista senza la cui soluzione non ci sarebbero stati né la salvezza né il rinnovamento dell’Italia. Evidente è la continuità di questa politica con la politica di unità nazionale di Togliatti. Anche se non mancavano gli accenti innovativi, a partire dal modo con cui veniva concepita la coscienza religiosa, come portatrice di contraddizione oggettiva della società capitalistica contemporanea, se vissuta con coerenza.

E’ noto che B. a partire dal 1980, dopo la caduta dei governi di solidarietà nazionale, disse più volte che non avrebbe più usata l’espressione compromesso storico, poiché era stata comunemente deformata. La deformazione consisteva soprattutto nell’intendere il compromesso storico come mera alleanza di governo tra PCI e DC, cioè nel considerarlo una formula di governo e non una strategia politica che si rivolgeva prima di tutto al popolo e al paese oltre che ai partiti.

Accanto a questa un’altra deformazione del compromesso storico è emersa in quegli anni: considerarlo in modo riduttivo una strategia puramente difensiva per salvare la democrazia dagli eventuali ritorni fascisti. Il compromesso storico invece è prima di tutto una strategia rivoluzionaria che ha come obiettivo la fuoriuscita dal capitalismo attraverso la democrazia e la transizione al socialismo.

Col senno di poi alcuni hanno avanzato l’idea che il compromesso storico avrebbe dovuto essere considerato una strategia di transizione per consentire e favorire l’alternanza di schieramenti contrapposti, così come era successo - con la grande coalizione - tra CDU e SPD nella Germania Federale. Francamente, allora, non ho mai sentito nel partito, in modo aperto e ufficiale, avanzare tale ipotesi. Almeno fino al 1979, cioè nel periodo della solidarietà nazionale. Il gruppo dirigente del Pci, nelle sue varie tendenze, era unito intorno alla proposta di compromesso storico o almeno cercava di esserlo sia nella discussione interna che soprattutto all’esterno.

Il dirigente del Pci più in sintonia con il percorso per così dire "da grande coalizione" era sicuramente Giorgio Napolitano, con il quale quotidianamente lavoravo essendo il suo vice al dipartimento economico e sociale,. Era convinto che occorresse favorire il processo di socialdemocratizzazione del partito e che la solidarietà nazionale lo avrebbe accelerato, ma difese le proprie idee sempre con sobrietà e cautela, anche quando criticò ed espresse un’opinione contraria, alla fine del 1978, sull’uscita del PCI nella maggioranza, portando come motivazione che ciò avrebbe bloccato il processo di acquisizione della cultura di governo e avrebbe dato spazio alle tendenze massimaliste e corporative nella società senza trovare nel partito una sufficiente opposizione.

3. Quale rapporto tra la strategia del compromesso storico e i governi di solidarietà democratica?

Gerardo Chiaromonte, che è stato uno dei protagonisti maggiori del partito in quel periodo, in un libro molto documentato su quegli anni,("Le scelte della solidarietà democratica " E.R. 1986) ha teso a ridurre il collegamento e soprattutto l’origine tra il compromesso storico e i governi di solidarietà. Secondo Chiaromonte non ne sono "l’applicazione pratica", ma nascono a causa "dell’emergenza economica e democratica" e sulla base dei rapporti di forza scaturiti dall’elezioni del 1976 (DC 38,7%, PCI 34,4%). In altri termini la soluzione, sempre secondo Chiaromonte, era un po’ obbligata a meno di ripetere le elezioni. Io ho un’opinione leggermente diversa. Non nego che la situazione imponesse una scelta difficile che tra l’altro era nel DNA del PCI, cioè la difesa dell’interesse nazionale e delle democrazia. Va tenuto presente che c’era una situazione economica disastrosa (altissima inflazione, quasi al 20% con stagnazione produttiva); che il terrorismo stava ogni giorno procurando morti e feriti, sia quello nero che quello rosso (ufficialmente le Brigate Rosse nascono nel 1972); a tutto questo va aggiunta la crisi a livello mondiale non soltanto economica ma politica e culturale.

Il PCI però non aveva di fronte soltanto la scelta dell’astensione nei confronti del governo monocolore democristiano come poi fece. Poteva alzare la posta in gioco, poteva rivendicare l‘ingresso immediato e a pieno titolo nel governo o perlomeno l’accordo di programma e l’ingresso nella maggioranza come avvenne un anno dopo.

Perché non l’ha fatto? A mio parere la risposta è nei colloqui tra B. e Moro. Moro e B. erano convinti che si era aperta una fase nuova che richiedeva la collaborazione tra i due partiti. Progettano pertanto una cornice democratica comune fatta di convergenze e di intese sugli interessi fondamentali della democrazia italiana: la pace, l’indipendenza e la sovranità nazionale, la difesa delle libertà costituzionali, i principi essenziali di giustizia. Entrambi ritengono tuttavia che un tale passaggio debba essere graduale se vuole essere indolore cioè non avere contraccolpi né all’interno del paese né soprattutto a livello internazionale. Spesso si dimentica che contrari all’ingresso del PCI nel governo erano il Dipartimento di Stato degli USA, il partito comunista dell’Unione Sovietica che temeva l’allargamento dell’eurocomunismo all’Europa dell’Est, la CDU tedesca che manovrava per creare problemi alla democrazia cristiana, cercando di attirare nella propria orbita la dc veneta.

Il percorso è stato graduale: astensione nell’autunno del 1976, non sfiducia sulla base dell’accordo programmatico nel luglio 1977, ingresso nella maggioranza nel 1978 soltanto dopo il rapimento Moro; e con fatica da parte comunista per la valutazione negativa sulla composizione della compagine governativa.

Quanto detto non significa che Moro e B. avessero la stessa strategia. Moro pensava ad un’operazione come quella realizzata con il PSI con il primo centro sinistra, cioè di inglobare il PCI senza che la DC perdesse la propria centralità e il proprio potere. B. invece aveva in mente la transizione al socialismo, quel socialismo di cui il XV congresso nel 1975 aveva stabilito l’attualità indicando la necessità di edificare anche nel nostro paese i primi elementi di socialismo.

Il dialogo tra Moro e B. finì con il rapimento e l’assassinio del primo da parte delle Brigate Rosse tra il 16 marzo e il 9 maggio 1978. Il Pci uscì dalla maggioranza ufficialmente nel gennaio 1979.

4. Perché il compromesso storico fallisce?

Sul perché la politica di solidarietà sia fallita una risposta univoca non c’è. E neppure una spiegazione ufficiale. Prima del 1979, le riserve maggiori al compromesso storico furono espresse da due fondatori del PCI: Luigi Longo, che lo considerava un’accelerazione inopportuna e verticistica rispetto al concetto tradizionale di blocco storico; e Umberto Terracini che invece criticava l’eccesso di fiducia nella DC come alleato.

L’uscita dalla maggioranza fu spiegata da B. sostanzialmente con la motivazione che la slealtà della DC nel tenere fede agli accordi e l’ingenuità del PCI avevano logorato il rapporto tra il partito e le masse popolari. Senza dubbio negli anni 77-78 questo logoramento era accaduto, e in modo pesante. Basta ricordare l’aggressione di Lama all’Ateneo romano, la grande manifestazione estremista di Bologna o quella dei metalmeccanici di Roma. Tutti fatti avvenuti nel 1977; e nel 1978 la perdita di voti nel PCI nelle amministrative parziali.

Negli anni successivi all’interno del partito è prevalsa una spiegazione per così dire di sinistra che ha teso a mettere fuoco soprattutto gli sbagli: l’eccesso di attenzione al quadro politico rispetto ai contenuti programmatici; la debolezza del programma riformatore, troppo remissivo e subalterno; il deficit di cultura riformatrice del partito. Non nego che tali spiegazioni contengano una parte di verità. In particolare la più convincente è la prima cioè la sopravalutazione della democrazia partitica e soprattutto l’ipostasi della DC che allora venne fatta. La DC del resto fu fin da subito uno dei punti più discussi e controversi all’interno del partito. Ma attenti alla caricature. Un solo esempio: B. era contrario alla ingerenza dei partiti nella società a partire dalla scuola e dai consigli scolastici fino alla direzione dell’USL, riforme che proprio allora prendevano il via.

Come ho già detto, allora, dall’autunno 1976, dopo essere stato segretario di Torino, mi occupavo dei problemi economici e sociali, a fianco di Napolitano e di Luciano Barca. Ora se guardo la mia esperienza non mi pare che queste spiegazioni siano persuasive. Non credo che si possa dire che ci sia stata in quegli anni scarsa attenzione ai contenuti programmatici. Ricordo i principali appuntamenti: 1977, gennaio, B. lancia al teatro Eliseo la politica dell’austerità nella conferenza degli intellettuali, maggio, viene approvato dal C.C. il progetto a medio termine del partito, a luglio viene approvato l’accordo programmatico tra i partiti della solidarietà; 1978, gennaio, conferenza sindacale dell’EUR, marzo, conferenza dei lavoratori comunisti a Napoli. Ma ancora più rilevante è il bilancio delle leggi approvate nell’arco degli anni settanta sia nel campo dei diritti civili che in materia ecominico-sociale : divorzio, aborto, diritto di famiglia, voto ai 18 anni nel campo civile; in materia sociale, Statuto dei lavoratori, riforma delle pensioni, equo canone e legge sui suoli, riforma dei manicomi, occupazione giovanile, riconversione industriale e alla fine il fiore all’occhiello della riforma sanitaria che ancora oggi è in vigore. A queste leggi vanno aggiunte le misure relative all’ordine pubblico, quelle sulla finanza e sul fisco e quelle decisamente innovative sul decentramento alle regioni e agli enti locali.

Paul Ginsborg, lo storico inglese che da anni si occupa in modo egregio della storia del nostro paese, ha parlato giustamente di due grandi risultati conseguiti dalla politica di solidarietà, tra l’altro in tempi molto brevi: la stabilizzazione democratica e finanziaria del paese, il completamento dello Stato Sociale.

Ciò non significa che non siano stati commessi errori e che non ci siano stati limiti. Alcune di quelle leggi hanno trovato una difficile applicazione, e non soltanto per le resistenze conservatrici o per i ritardi o per la mancata riforma della pubblica amministrazione, ma anche perché contenevano esse stesse incongruenze o addirittura erano errate. Ma non mi convince la tesi che porta all’eccesso queste critiche, come quella che sostiene che il PCI avrebbe avuto, specialmente in campo economico, una politica remissiva e subalterna. Anzi si potrebbe sostenere a ragion veduta addirittura la tesi opposta: che troppo alta era l’ambizione dal momento che ci si poneva l’obiettivo di introdurre elementi di socialismo nella società italiana. In realtà in quel periodo era in corso una ricca discussione che non può essere ridotta semplicisticamente ad una unica matrice culturale come da qualcuno si cerca di fare. Vari erano gli orientamenti e le influenze culturali. Sicuramente ha avuto un peso sugli indirizzi generali la tesi di Amendola preoccupato, quasi angosciato, che prendesse piede il partito dell’inflazione in modo tale da condurre ad una crisi economica catastrofica ( e di conseguenza al nazismo) come quella del 1929 che aveva vissuto direttamente; sosteneva perciò una politica unilaterale dei sacrifici da parte della classe operaia senza contropartite. Così come sono state influenti le idee della Rivista trimestrale, di Franco Rodano e di Claudio Napoleoni, che miravano alla trasformazione dei consumi individuali in consumi sociali e collettivi , anche per produrre nuovi orientamenti negli investimenti e modificare la qualità dello sviluppo economico. Non mancavano in questa discussione gli adepti alle teorie classiche keynesiane che puntavano sulla domanda e sulla spesa pubblica per battere la disoccupazione, sia pure rivisitate dalla più moderna Joan Robinson; così come erano presenti frange di sostenitori del rigore monetario e persino della riduzione, anche drastica, delle tasse..

Non sono in grado di dire se e in quale misura ci fosse una prevalenza di uno o l’altro orientamento culturale. So per certo che B. era molto attento prima di tutto a capire e a vedere l’attuazione pratica e concreta delle proposte. Da me volle sapere direttamente se era realisticamente fattibile riconvertire parte della FIAT in direzione del trasporto collettivo (treni, bus, ecc.) e, una seconda volta, i dettagli del servizio nazionale del lavoro, che proprio allora stavamo elaborando.

Un punto tuttavia era comune: ricercare la via che potesse evitare i due tempi, tenere insieme rinnovamento e risanamento, austerità e sviluppo; e così incidere sul meccanismo e sul processo di accumulazione capitalistica sia con una direzione consapevole dello sviluppo sia aumentando la partecipazione dei lavoratori alle decisioni delle imprese e dell’economia in generale, attraverso quella che veniva definita la programmazione democratica. La leva fondamentale era la politica di austerità. Il progetto a medio temine, infatti, dopo il discorso di B. agli intellettuali, si apriva con essa. Purtroppo prevalse quasi subito una interpretazione dell’austerità come richiesta di sacrifici a senso unico, tanto che il dibattito dentro e fuori il partito, che nel primo periodo su di essa si accese, con opinioni non solo diverse, ma anche contrastanti, durò pochi mesi e si arenò poco dopo la presentazione dell’accordo programmatico tra i partiti della solidarietà.

A chi obietta che fosse una ricerca troppo ambiziosa e forse velleitaria, ricordo che nello stesso periodo discutevano di queste stesse cose anche i leader maggiori della socialdemocrazia europea: Brandt, Palme, Kreyski. Ricordo anche che nella Svezia socialdemocratica si discuteva del piano Meidner che stabiliva che una parte del salario fosse impiegata per favorire gli investimenti produttivi e la partecipazione dei lavoratori ai processi di accumulazione del capitale. A questo proposito grandissimo era l’interesse di B. che riunì un gruppo di lavoro per studiarne le implicazioni anche nel nostro paese.

Ricordo anche che Norberto Bobbio pubblicò un saggio molto discusso, "Quale socialismo?", in cui si chiedeva non se era attuabile o meno e realistica la transizione al socialismo ma quale socialismo fosse possibile e compatibile con la democrazia e con lo sviluppo economico del nostro paese.

Ancora meno persuasiva è la spiegazione di Beppe Vacca, attuale presidente dell’Istituto Gramsci, sostenuta in un saggio di alcuni anni fa’ ( "Tra compromesso e solidarietà" E.R. 1987). Secondo Vacca il fallimento della solidarietà democratica e del compromesso storico sarebbe dipeso dal fatto che la strategia del Pci aveva un orizzonte limitato, cioè era "nell’ottica del riformismo in un solo paese", senza tenere conto nel modo dovuto dei nuovi processi mondiali e soprattutto dei conflitti intercapitalistici che spingevano ad accelerare la dimensione europea della politica comunista. Francamente a me non pare che ci sia stata una sottovalutazione così’ grave. Sbagli di analisi sì, ma non su questo punto. Lo storico inglese Donald Sassoon, che si occupa anche lui in modo egregio di storia italiana, nel saggio di apertura ai discorsi parlamentari di B., scrive come il PCI sul piano della politica europea fosse alla pari e spesso più avanti non soltanto degli altri partiti comunisti europei ma degli stessi partiti socialdemocratici. Del resto B. proprio in quegli anni si fa promotore dell’eurocomunismo e dell’eurosinistra e avvia l’elaborazione della "carta della pace e dello sviluppo" che avrà compimento nei primi anni 80. Non vi voglio tediare con citazioni ma se si legge il progetto a medio termine parecchie sono le connessioni sia analitiche che propositive tra la situazione italiana e quella mondiale.

Del resto il padre del federalismo europeo, Altiero Spinelli, eletto, come indipendente, nelle fila del Pci, nel 1979, ha scritto un saggio molto denso ("PCI che fare?". Einaudi 1978) in cui difende il compromesso storico non soltanto come politica valida per l’Italia ma per l’Europa. B. è stato molto presente nella battaglia politica europea, tant’è che ha parlato in parecchie occasioni importanti al Parlamento Europeo (era stato eletto nel 1979, allorché era stata introdotta l’elezione diretta), mentre è noto che non amasse molto frequentare Montecitorio.

Una sola ragione si può addurre a favore della spiegazione sostenuta da Vacca: l’uscita dalla maggioranza del PCI ebbe luogo sulla questione dell’ingresso dell’Italia nel sistema monetario europeo. Perché il PCI fu contrario? Non per ragioni di principio, ma perché riteneva, da un lato che i tempi fossero troppo ravvicinati e dall’altro che la DC approfittasse dello scudo europeo per colpire i ceti più deboli e soprattutto i lavoratori attraverso una politica di rigore senza contropartite. Va tenuto presente che una preoccupazione analoga era stata espressa da Paolo Baffi, il governatore della Banca d’Italia e che il PSI non votò a favore ma si astenne. E’ indubbio, tuttavia, che tale atto segnò un vulnus nella politica del Pci, almeno sul piano dell’immagine a livello europeo.

La spiegazione del fallimento della solidarietà nazionale che a me sembra più plausibile e sostanziosa è un’altra. Riguarda i processi reali, i fatti che in quegli anni sono successi con grande rapidità e che in una certa misura sono epocali, contrassegnando i decenni successivi.

Prima di tutto non si può fare a meno di segnalare l’affermarsi dell’ideologia neoconservatrice e neoliberista con la nuova presidenza americana di Reagan e con la leadership della signora Teacher nel Regno Unito.. A questa controffensiva l’Unione Sovietica reagì in malo modo, cercando di uscire dall’immobilismo con una politica più aggressiva testimoniata dall’invasione dell’Afghanistan e dalla installazione degli SS20 ai confini dell’Europa. Anche l’ondata dei movimenti di liberazione nazionale e di riscatto antifascista (Vietnam, Portogallo, Spagna, Grecia) alla fine di questo decennio era in ripiegamento. I contraccolpi sulla distensione, che era stato uno dei cardini della politica estera del Pci, sono stati molto forti.

In secondo luogo una delle cause fondamentali dell’affossamento del compromesso storico è il terrorismo e soprattutto l’assassinio dell’onorevole Moro. Fatto già grave in sé perché sposta consensi e genera paure nella società italiana ma ancora più grave se si pensa al repentino mutamento degli orientamenti delle forze politiche maggiori che provoca. Dopo la morte di Moro la DC e il PSI nel giro di pochi mesi cambiano maggioranze interne e a B. manca l’interlocutore principale con cui aveva stabilito un rapporto di affidabilità reciproca. Il periodo chiave sono i primi mesi del 1980 in cui vince nella DC il preambolo anti PCI e nel PSI Craxi senza il condizionamento della sinistra interna.

In terzo luogo occorre tenere presente l’avvio dei mutamenti nella società italiana. Il PCI in parte li coglie ma fa fatica ad adeguare la propria organizzazione e la propria politica. In quegli anni inizia il declino della classe operaia soprattutto delle grandi fabbriche, aumentano i ceti medi sia impiegatizi sia del lavoro autonomo e imprenditoriale. Qui forse va individuato uno dei limiti maggiori della politica comunista. La sopravvalutazione della crisi del capitalismo a livello mondiale e in Italia ( crisi organica e permanente ,però, non terminale come dice Ginsborg) lo conduce a dare una interpretazione sbagliata che avrà conseguenze serie sulla sua politica e a non vedere, da un lato, la capacità di ristrutturazione della stesso capitalismo, con l’avvio di quella globalizzazione di cui tanto si parla oggi, e dall’altro lato a sottovalutare lo stato preagonico dell’URSS e del sistema di socialismo realizzato, continuando a nutrire l’illusione che tali società fossero democraticamente riformabili.

 

5. L’ultimo Berlinguer

Dopo l’uscita della maggioranza della solidarietà nazionale non c’è stato un sostanziale mutamento nella politica del PCI. Il XVI Congresso nel marzo 1979 confermò la politica di compromesso storico. I cambiamenti ci saranno dopo le elezioni di giugno in cui il PCI perse 4 punti passando al 30,4%, cioè circa un milione e mezzo di voti in meno. B., dopo aver rinnovato la segreteria del partito, a settembre, alla Festa dell’Unità di Genova, impresse una prima svolta. Il fulcro era nella proposta dell’ alternativa democratica intesa però come mutamento dei rapporti di forza nel Paese. In altri termini l’asse della politica comunista venne spostato verso il basso e verso la società. La svolta si consolidò via via nel 1980 dopo i già ricordati mutamenti nella maggioranza dei due partiti maggiori; fino alla vera e propria proclamazione nel novembre 1980 di fronte al disastro dei soccorsi statali durante il terremoto dell’Irpinia, con quella che passa con il nome di seconda svolta di Salerno.

Le novità sono rilevanti: il perseguimento della rottura della Dc; il pessimismo sul PSI, geneticamente mutato e di conseguenza il cambiamento sulla intera prospettiva della unità della sinistra; la questione morale come priorità per rigenerare la vita pubblica e i partiti; il compromesso storico caratterizzato innanzitutto come compromesso sociale; l’attenzione prevalente ai cosiddetti nuovi soggetti : giovani, donne, movimenti ecopacifisti e così via.

Un altro punto di grande rilievo è lo scontro con i sindacati unitari : a luglio, nel 1980, sulla questione del fondo di solidarietà a favore del mezzogiorno (0.50% sul salario), che i sindacati avevano concordato con il governo Cossiga, poi nell’autunno la triste vicenda della vertenza Fiat con l’occupazione-sconfitta di Mirafiori e la marcia-contro dei 40.000 tecnici ed impiegati. L’incomprensione, come è noto, continuerà anche dopo, sulla questione del taglio dei punti della scala mobile. In tutte queste vicende B. non guardava tanto al merito, ma alle conseguenze politiche. Egli temeva soprattutto di perdere, come partito, la rappresentanza politica degli operai e dei lavoratori. Non lesinando a tale fine di mettere in giuoco l’unità e l’autonomia sindacale. Devo dire che analoga posizione, speculare e contrapposta, aveva Craxi.

In questo periodo non mancano i contatti e i colloqui al vertice tra i partiti, tra il PCI e la sinistra democristiana, con le maggiori personalità del Pri, e in modo particolare con il PSI e con lo stesso Craxi. Nel 1983,dopo il congresso del PCI di Milano si è svolta persino una riunione delle due direzioni che è durata un’intera giornata all’Istituto Togliatti di Frattocchie. Ma ogni incontro, nonostante i comunicati congiunti, si è sempre concluso nello spazio di un mattino. Tra Craxi e B. c’era un’incomprensione di fondo che riguardava non solo il carattere delle due persone, ma la strategia politica e persino la concezione della politica.

La politica dell’ultimo B. viene giudicata dallo storico Piero Craveri, che vi ha dedicato uno studio approfondito, come una politica non solo conservatrice, arcaica, settaria, incapace di cogliere le dinamiche nuove e la voglia di modernità della società italiana, ma addirittura viene definita come assenza. IL Pci sarebbe stato senza politica.. Altri hanno parlato di "ripiegamento di uno sconfitto". Senza alcun dubbio tale politica non ha la fermezza e la linearità di quella degli anni settanta. Ci sono scarti, oscillazioni e anche arroccamenti.

Va considerato tuttavia che B. , alla fine del 1981, dopo l’introduzione della legge marziale in Polonia compie lo strappo con l’Unione Sovietica e dice addio alla rivoluzione di ottobre come è stato scritto forse un po’ troppo pomposamente. La sua insistenza sulla diversità del Pci, a mio parere, deriva anche da qui, cioè dalla paura di perdere il partito, o perlomeno parti di esso. Infatti la cosiddetta "terza via" tra Est e Ovest, tra il comunismo sovietico e la socialdemocrazia, non ebbe successo, né all’interno dell’Italia, né in Europa, come testimonia lo scarso ascolto sulla proposta del Pci di smantellare gli SS20, in cambio della rinuncia atlantica di installare gli euromissili.

Occorre inoltre tenere presente che la discussione interna al partito in quegli anni è stata molto accesa. Era cominciata già alla fine del ‘79 , con Giorgio Amendola, dopo gli articoli sulla Fiat, molto critici sul sindacato e sulla classe operaia torinese. Amendola aveva avuto poco seguito nel partito e nella CGIL, nemmeno nell’ala a lui più vicina, ma non così fu nell’opinione pubblica e sui giornali. L’apice della polemica interna –morto Amendola- avvenne però dopo la svolta di Salerno, che conteneva la proposta di dare vita ad un "governo diverso" che avesse il Pci come perno e promotore. Al centro della contesa c’era la questione socialista. Nella direzione comunista –più di una riunione- non si riuscì a trovare un accordo unitario sul problema dei rapporti con il PSI.

Craveri e altri storici danno grande peso alla proposta di Craxi - fatta tramite Eugenio Scalfari nel marzo 1981- in cui il segretario socialista chiedeva il sostegno del PCI alla sua candidatura alla presidenza del consiglio, in cambio, o di un passaggio comune all’opposizione oppure nel caso di risposta affermativa della DC, l’accordo su alcuni punti programmatici, con il Psi al governo e il Pci all’opposizione; e comunque un pronunciamento socialista irrevocabile sulla piena legittimazione democratica dei comunisti. La proposta non venne presa in alcuna considerazione da B. innanzitutto perché la legittimità democratica il Pci già se la era guadagnata negli anni precedenti nei governi di solidarietà,, in secondo luogo perché B., al di là dell’ostilità con Craxi, non era convinto che si dovesse spingere per la crisi di governo in tempi brevi, con il rischio di togliere le castagne dal fuoco al posto del Psi, e di ricevere anche danni nelle imminenti scadenze elettorali. A differenza di Tatò, che invece premeva per far cadere subito il "governo dei pasticcioni" presieduto da Forlani, come è palese dalla nota di alcuni giorni dopo. Il governo Forlani, cadde poco dopo, ma a causa dell’esplodere dello scandalo della P2, e fu sostituito a giugno dal primo governo Spadolini. E’ vero, tuttavia, ciò che scrive Craveri che era errata la sprezzante valutazione di Tatò, nella nota a B., che " chi ha il coltello dalla parte del manico siamo noi". Negli anni ottanta non era più così.

In quegli anni ero nel Veneto, segretario regionale del partito. Confesso che ho sofferto molto. Ho ritrovato dopo anni un quaderno di appunti pieno di domande sulla politica del partito. Soprattutto mi chiedevo continuamente il significato dell’alternativa democratica, e come potesse trovare una sua concreta applicazione. Dopo l’assassinio dell’on. Moro ero convinto che una fase politica si fosse esaurita e che il disegno strategico del partito , che durava dalla Liberazione, andasse cambiato. Non escludevo allora così come non lo escludo oggi, che B. avesse in mente una polarizzazione intorno al PCI. Ma è certo che per lui tale polarizzazione non passava attraverso l’unità della sinistra ma attraverso la sconfitta della politica di Craxi che B. giudicava nociva per il paese e persino democraticamente avventurosa. Craxi per B. non poteva e non doveva diventare il Mitterand italiano ( Mitterand nella primavera del 1981 aveva vinto le presidenziali francesi). Anche sulla questione morale, che, come è noto, fu sollevata da B. nell’intervista a Scalfari del luglio 1981, ebbi qualche esitazione. Non perché fossi contrario e non ne comprendessi la portata. Anzi. Vedevo anch’io a che punto era arrivata la degenerazione partitica e istituzionale. Temevo però che la questione morale a se stante, senza la proposta della riforma dello Stato e del sistema politico complessivo, potesse favorire il qualunquismo antidemocratico e travolgere, in ultima istanza, tutti.

Né B. né il gruppo dirigente del Pci in quel periodo hanno proposto la riforma elettorale e la riforma del sistema politico. Il PCI restava fermo alla democrazia politica e partitica tradizionale, così come era stata disegnata dalla costituzione repubblicana. La sua parola d’ordine restava l’attuazione della costituzione. Fino alla morte di B., e anche dopo, non c’è stata una reale apertura sulle riforme istituzionali. B. accettò, obtorto collo, e dopo avere ricevuto precise garanzie, la commissione bicamerale di riforma della costituzione presieduta dall’onorevole Bozzi nel 1983, che finì nel nulla. Questa commissione è stata la prima grande occasione per avviare la riforma del sistema politico, che, come suggerivano i più lungimiranti dei commissari, doveva avere come modello il sistema tedesco al fine di favorire l’alternanza tra schieramenti. In Italia i due schieramenti naturali erano costituiti dalla Dc riformata da una parte e dal PCI riformato dall’altra parte. Il primo, all’interno del partito, che pose la questione, se ricordo bene, è stato Pietro Ingrao in preparazione del XVII congresso, nel 1986, con la proposta del governo costituente. B. non c’era già più.

Nel vuoto di proposta, come sempre succede, si inserirono altri come Bettino Craxi che gia nel 79 avanzò l’idea della grande riforma avendo come punto di riferimento non il modello tedesco ma quello semipresidenziale francese. L’altro protagonista è stato Ciriaco De Mita con la proposta del nuovo patto costituzionale. In verità le proposte di Craxi e De Mita sono state sempre alquanto fumose, più strumentali che reali. Ma sono servite ad entrambi per essere protagonisti della vita politica nazionale negli anni ottanta. Quindi occorre riconoscere che coglievano un esigenza reale della società italiana.

Infine alcune parole sulla critica più ingenerosa che si rivolge all’ultimo B., quella di essere stato poco attento alla cosiddetta modernizzazione. La critica correva anche quando B. era in vita tanto è vero che egli rispose con alcune interviste in cui propose addirittura un convegno che con termine curioso definì di futurologia cioè sulle nuove tecnologie, sulla democrazia elettronica, sui problemi nuovi provocati dalla diffusione della rivoluzione scientifica e comunicativa. Mi sembra un po’ un luogo comune ciò che scrive Ginsborg ("Dialogo su B. con D’Alema " Giunti, 1994) che B. avesse un’idea della modernità come decadenza. B. era certamente pessimista, tanto da definire il Pci un partito conservatore e insieme rivoluzionario. Vedeva nella modernizzazione non soltanto i pregi e i vantaggi, ma anche le ombre e i chiaroscuri. Temeva come altri, per esempio Pier Paolo Pasolini, il mutamento antropologico che la modernizzazione già trascinava con sè. Si poneva , come il Club di Roma di Aurelio Peccei e come Willy Brandt o altri autorevoli esponenti della sinistra, le grandi questioni planetarie: la fame, i rapporti tra Nord e Sud del mondo, l’ambiente, i limiti dello sviluppo, le nuove responsabilità dell’uomo verso le generazioni future. Anche sulla sua concezione sul consumismo la critica mi sembra un po’ sbrigativa. Non scherziamo con B. . Ciò che B. temeva non era l’espansione dei consumi, ma il feticismo consumistico, cioè la ricerca di una identità personale falsa, indotta e virtuale. Forse in questi atteggiamenti c’erano talvolta anche degli eccessi. Ma come dargli torto, dopo quello che è successo in questi vent’anni nell’Italia di Berlusconi?

 

6. Un tentativo di bilancio

Quale bilancio si può compiere a vent’anni dalla morte? Sul piano umano è facile. B. è una personalità a tutto tondo, di grande spessore e coerenza, che ha suscitato in tutti, anche nei suoi avversari, rispetto e ammirazione soprattutto per una qualità universalmente riconosciuta: la tensione della politica verso l’etica, quasi a rifiutare la scissione fra l’una e l’altra. Non ho scelto la politica –diceva- ma faccio politica per realizzare gli ideali comunisti. E la cosa a cui diceva di essere più affezionato era la fedeltà agli ideali di gioventù.

Com’era come carattere? Si è definito spigoloso. In verità io non l’ho mai visto così. A me invece ha sempre colpito la tenerezza del suo sguardo. Non era assolutamente un uomo arrogante, né supponente. Era schivo e riservato e mite. Ma come tutti gi uomini miti, quando non è più possibile la mediazione, sono molto determinati e quindi pugnaci, combattivi ed anche vendicativi. Nelle riunioni l’ho quasi sempre trovato fermo nei giudizi e nelle opinioni come chi prima di esprimersi pensa molto e come chi i dubbi non li tira fuori ma li macera dentro.

A me piaceva molto inoltre quel suo fastidio palese per la visibilità ostentata e verso la popolarità. Era attento alla sua immagine come del resto richiedeva il ruolo e la responsabilità (non si sarebbe mai fatto fotografare né a Mosca né a Roma con un colbacco russo in testa, come ha ricordato D’Alema), ma mai l’ho visto ostentare la sua persona.

Il suo ritratto non può essere disgiunto dal ruolo che ha avuto. B. è anche espressione del PCI, e in particolare, come ha scritto Paolo Spriano, di quella generazione che venne al comunismo durante la Resistenza ma che maturò la propria personalità di dirigente comunista negli anni successivi con il partito nuovo di Togliatti. I tratti prevalenti di questa generazione sono ben individuabili: essere insieme politici ed intellettuali, come diceva Gramsci; essere comunisti e democratici fino in fondo; essere italiani , ma anche parte, sia pure autonoma e critica, del campo socialista. B. porta al limite estremo la strategia del PCI di superamento del capitalismo e di transizione al socialismo attraverso la democrazia. Non arretra nemmeno di un millimetro rispetto alla concezione della democrazia come valore universale, a Ovest come a Est, a Sud come a Nord. Lo dice a chiare lettere anche al Congresso del PCUS. Ma sono compatibili il socialismo e la democrazia? E come? Come garantire non soltanto l’avanzamento e la vittoria ma anche la durata dei processi riformatori, tanto più complessa e lunga quanto più la trasformazione è radicale? Qui, a ben vedere, sta la radice del compromesso storico, cioè di uno schieramento che abbia il più largo consenso possibile. Ma ecco l’aporia: il compromesso storico non contraddice l’altro principio cardine della democrazia che è quello dell’alternanza e del ricambio della classe dirigente da parte del voto? Forse non in linea di principio ma certamente in via di fatto. Non a caso la solidarietà democratica quasi si ribaltò contro se stessa e trovò dissensi e resistenze soprattutto da parte dei giovani che, quasi istintivamente, considerarono la solidarietà nazionale un fattore di soffocamento della propria libertà e quindi della democrazia in generale.

Anche la proposta sull’austerità, per molti versi, ha sofferto dello stesso vizio. Qui la contraddizione era soprattutto con il mercato. Come riuscire a combinare e a conciliare l’austerità, con la sua radicalità socialista, e il mercato? Non c’è anche qui una sorta di incompatibilità e in definitiva un’altra aporia, che la programmazione , per quanto benevola e democratica, per quanto basata sulla domanda più che sulla produzione, non riesce a risolvere?

B. negli ultimi anni della sua vita si è veramente trovato tra Scilla e Cariddi perché per un lato era persuaso che senza il contrappeso sovietico a livello mondiale l’avanzata socialista in Italia e in Europa, non soltanto sarebbe stata più difficile ma sarebbe stata velleitaria, quasi impossibile (così come sarebbe stato impossibile la lotta dei movimenti d liberazione nazionale); dall’altro lato capiva che il tipo di socialismo instaurato in URSS, senza libertà e senza democrazia, era un freno o addirittura la tomba dell’avanzata della sinistra. Il socialismo poteva fare passi in avanti soprattutto in Europa. Per questo il suo cruccio costante, un vero assillo, diventò la democratizzazione del comunismo ad ovest e soprattutto ad est. Anche la "terza via", però, quella terza via tra comunismo sovietico e socialdemocrazia, che B. individuò come soluzione, si dimostrò con il passare del tempo un’aporia.

Non so se se è chiaro quanto voglio dire. Secondo me B. è stato certamente un profondo innovatore politico. Dire il contrario mi pare impossibile. Non soltanto per la determinazione e la coerenza con le quali ha saputo portare avanti le proprie idee, non esitando, quando è stato necessario, persino a provocare rotture del campo a cui apparteneva e in cui credeva. Ma soprattutto perché sulla questione della democrazia e sulla libertà ha portato il pensiero e la strategia comunista fino all’estremo, al punto limite. Oltre, purtroppo, non c’erano che le aporie, cioè strade senza uscita. Egli stesso non ne uscì, vivendo fino in fondo , consapevolmente e, credo, anche tragicamente, gli ultimi anni della sua vita.

Il crollo del comunismo nel 1989 e la tragica vicenda del Novecento credo che ci abbiano insegnato che non si può disgiungere i fini dai mezzi usati, che i secondi, i mezzi, specialmente l’uso della violenza e la negazione della democrazia e delle libertà, cambiano profondamente e sostanzialmente il fine, al di là degli intenti; e che la gradualità del processo riformatore è la strada maestra per consolidare ed allargare la democrazia poiché consente di farne parte anche a chi sta più indietro. In questo senso il riformismo è per davvero una scelta di civiltà. A questo proposito mi fa piacere il dibattito in corso sulla nonviolenza in seno a Rifondazione Comunista. Lo considero un primo passo, ma decisivo e positivo nella direzione da noi da tempo seguita.

Rimane tuttavia l’antico interrogativo di Norberto Bobbio: quale riformismo? Quale socialismo? La risposta è complicata, come testimonia la storia italiana dove il riformismo non ha mai avuto dimensioni di massa oppure la vicenda travagliata di questi quindici anni dopo il 1989 della sinistra e dell’Ulivo.

B. ci può essere di aiuto? Io credo di sì. Non credo affatto che B. sia di impaccio al progetto riformista e dunque vada dimenticato. Alla morte di B., l’allora direttore del Corriere della Sera, Alberto Cavallari, ha scritto: "In un’epoca così degradata e di facili e banali riformismi, B. è stato un vero riformatore". Ecco queste due parole, vero riformatore, che ci conducono ad un altro grande, Antonio Gramsci e alla sua riforma morale e intellettuale, custodiscono la preziosa eredità di Enrico Berlinguer da trasmettere al riformismo di oggi e soprattutto ai giovani e alle generazioni future.

Roma 11 marzo 2004.

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