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E la chiamano crisi
24.03.2004

È in discussione la proposta di permettere la rateizzazione dei debiti delle società di calcio verso l’erario: il Governo e la Lega calcio sembrano spaccarsi, mentre i tifosi sembrano minacciare di spaccare tutto.

Spagna, 1990

Il 15 di ottobre del 1990 in Spagna fu promulgata una legge, divenuta in seguito nota come Ley del Deporte. L’intenzione del legislatore era di mettere ordine nel mondo del calcio che allora versava in uno stato di "crisi".

Fu data quindi una nuova speciale personalità giuridica alle società calcistiche, fu istituita la Liga National de Fútbol Profesional (Lfp), ma, soprattutto, fu varato il secondo "plan de saneamiento". Stabiliva che i debiti delle società di calcio verso l’erario e la sicurezza sociale fossero sanati e passati alla Lfp, la quale ne garantiva il pagamento attraverso il versamento del 7,5 per cento degli introiti della "quiniela" (ossia, il Totocalcio spagnolo).

Ca va sans dire, quattordici anni dopo il calcio spagnolo versa in uno stato di "crisi" peggiore rispetto al 1990 e i club, come in Italia, non esitano a chiedere senza ritegno un ulteriore aiuto allo Stato (nonostante l’attenta vigilanza Ue in questa materia).

I numeri del calcio

L’esempio spagnolo insegna ancora una volta che un aiuto statale oggi non può risolvere la "crisi" nel medio periodo. Sono il buon senso ed elementari ragionamenti economici a suggerirlo: se esiste sempre un prestatore di ultima istanza, in assenza di controlli e penalità, non esiste alcun incentivo a comportamenti virtuosi.

In sostanza, la rateizzazione del debito verso l’erario serve solo garantire che i furbi si iscrivano al campionato.

Ma non risolve la "crisi". Crisi? Ma siamo sicuri dell’esistenza di questa crisi?

I ricavi del calcio italiano negli ultimi dieci anni sono cresciuti del 216 per cento.

In particolare, i ricavi dalla Tv passano da 93 milioni di euro nel 1993-94 a 550 milioni di euro nel 2000-01. L’attenzione per il calcio sui media non è mai stata così alta. Praticamente ogni giorno in TV si parla di calcio in prima o seconda serata. I venticinque programmi televisivi con la maggior audience sono partite di calcio.

È stato stimato (Nomisma 2003) che i ricavi aggregati del calcio in Italia ammontino a circa 4.200 milioni di euro.

Questi numeri e altri ancora ci dicono che il calcio è uno dei settori più fiorenti, a più rapida crescita negli ultimi anni. Altro che crisi.

La tempesta pay-per-view

La crescita è dovuta sostanzialmente all’evoluzione tecnologica: la pay-per-view, che ha generato un’accelerazione improvvisa dei ricavi delle squadre di calcio. Una vera e propria tempesta.

Ed è difficile pensare che una tale rivoluzione (perché di questo si tratta, almeno in Italia) nel modo di vedere e vendere il calcio non comportasse problemi e squilibri (si pensi, ad esempio, al settore dell’It solo pochi anni fa).

A maggior ragione se questa tempesta avviene in un mare dove i capitani delle navi non usano le bussole. Nell’ultimo decennio infatti i salari dei giocatori sono cresciuti del 453 per cento. Ma questo non sorprenda più di tanto: è sempre stato così.

Il calcio non si è mai caratterizzato per sane finanze e buon management, durante tutta la sua storia. Che è una storia di debiti e perdite sempre appianate dalla proprietà di turno, di decreti "salvacalcio" (il decreto "spalmaperdite" n. 485 del 1996 consentiva alle società di diluire le minusvalenze nei tre esercizi successivi), di plusvalenze misteriose (pratica in atto già dagli anni Ottanta), e così via.

Nessuno si è arricchito col calcio. La domanda sorge spontanea: perché entrare in questo business "malato"? Non è questa la sede per rispondere, ma nessuno è fesso, e i vantaggi, state sicuri, ci saranno.

Sembra abbastanza naturale che alcune aziende appartenenti a un settore così gestito, di fronte a uno stato di turbolenza dell’industria, versino in condizioni di difficoltà.

Tanto più che le televisioni non le hanno aiutate. Anche loro hanno sbagliato i conti sul valore del calcio in Tv. Oggi negoziano al ribasso, mentre i club hanno firmato contratti pluriennali con i giocatori sulla base di aspettative d’entrata diverse. E infatti è già in atto una deflazione salariale, che riaggiusti un po’ lo squilibrio.

La crisi è però singola, e non so quanto sistemica, nel senso che le società hanno sempre avuto debiti che storicamente sono stati appianati con ricapitalizzazioni della proprietà. E così sarà ancora.

Altrimenti, ancora come sempre, si vende: a mio avviso, il valore del marchio Roma è superiore ai suoi debiti; se Franco Sensi abbassasse le proprie richieste, forse troverebbe facilmente un acquirente. Una possibile difficoltà può derivare dal fatto che adesso i numeri sono indubbiamente più rilevanti (in linea con l’aumento dei ricavi).

Non sorprendentemente la crisi coinvolge soprattutto quei club i cui dirigenti hanno dimostrato cattivo management anche nel loro core business (si vedano gli esempi di Lazio e Parma): perché avrebbe dovuto essere diverso quando si occupano di calcio?

In un settore in trasformazione, alcune aziende sopravvivono e si rafforzano, altre invece falliscono e scompaiono. Si chiama legge del mercato. Ma pare che al calcio non si possa applicare.

La rottura tecnologica introdotta dalla pay-per-view pone un problema serio che non è tanto riscontrabile nella crisi finanziaria del calcio, ma nello squilibrio competitivo fra team di grosso richiamo e piccole squadre. Questo è dimostrato in modo lampante dalle vicende estive sui diritti Tv in Italia e Spagna: la gara, già impari, è diventata farsesca. Si tratta dell’avvento dell’economia delle superstar, grazie alla nuova piattaforma tecnologica (vedi Ascari del 27/08/02).

Il campionato italiano sta cambiando e forse diventa meno interessante. Pochi club dominano. Altro che la palla è rotonda: non esiste più un Partenio tomba delle grandi squadre. Quanto potrà andare avanti? La Superlega bussa alle porte, e, con essa, la scomparsa del campionato di calcio italiano.

di Guido Ascari

da www.lavoce.info

 

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