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Sierra Leone. Una trestimonianza di Andrea Bellardinelli
28.03.2004

Costruire speranza
25/03 Goderich, Sierra Leone: Pubbliciamo una lettera che Andrea Bellardinelli ha scritto dalla Sierra Leone a tutto il “popolo di Emergency”.

Carissimi, vi scrivo questa lettera per mille motivi, il principale è che credo moltissimo nel lavoro che fate.
È anche per il vostro grandissimo impegno che il Centro chirurgico di Goderich funziona così bene.
Qualche numero può darvi un’idea.
Dal 2001 ad oggi, le operazioni chirurgiche effettuate sono circa 3.000. Nel solo 2003, i bambini visitati nell’ambulatorio medico sono più di 19.000, i trattamenti di fisioterapia circa 5.000 e l’ambulatorio chirurgico effettua almeno una quarantina di visite al giorno.

Forse il modo migliore per chiudere questa chiacchierata sarebbe questo.
E invece no, perché ogni numero è una vita, una famiglia (allargata), una storia da raccontare. Ogni volta che leggo una statistica, penso alla persona che ci sta dietro che di solito ha da raccontare qualcosa che riuscirebbe a inchiodarmi sulla sedia per ore intere.
Forse fa lo «spaccatore di pietre»: due dollari al giorno, due quintali di polvere ingeriti e muscoli da bronzo di Riace.
Oppure è un «uomo della sabbia», pala e sacchi di sabbia sulle spalle.
Magari invece, come tanti, non ha lavoro ed era nel posto sbagliato al momento sbagliato quando quattro ruote motrici gli hanno spappolato la gamba. Una gamba che dev’essere curata subito – ma come in un paese che quasi non ha strutture sanitarie? – e che gli renderà la vita molto difficile.
E lui, senza lavoro, con la sua gamba malconcia, riesce pure a farti una battuta e accenna a un passo di danza reggendosi sulla sua stampella.
Devo ancora abituarmi a tutto questo.
Ho appena finito di leggere un libro sul paradosso umanitario.
L’autore è una persona autorevole, ha visto la guerra in Bosnia, in Ruanda, in Kosovo. Io, però, non sono riuscito a capire le sue analisi: le organizzazioni umanitarie sono un fallimento? L’azione umanitaria è un fallimento? Le Ong fanno «pietas marketing»? Bene, allora, lasciamo perdere tutto, cambiamo lavoro, godiamoci il nostro tempo libero. E Freetown? E la Sierra Leone? Lasciamo tutto, è solo un’enorme fatica, come svuotare l’oceano con un secchio.

Avevo tanti dubbi sul fatto di lasciare la mia vita in Italia, ma ora non li ho più perché, mentre scrivo a delle belle persone che credono in quello in cui credo io, sto seduto in «casa 1». «Casa 1» è la casa “selvaggia” dello staff di Emergency.
«Casa 1» sta a Obafunkya, frazione di Goderich, frazione di Freetown.
Obafunkya si raggiunge dall’ospedale percorrendo una stradina piena di dossi, pozzanghere, pietre, capanne, polli in pessimo stato di salute e bambini panciuti. Un viaggio compensato dalla vista di questa arteria di granito nero che crea una piccola penisola e un’insenatura meravigliosa.
Giorgio, pazzo pioniere di questo progetto, l’ha scoperta subito quella spiaggia e l’ha chiamata «doggy beach».
Immagino quante sigarette abbia fumato guardando il tramonto e quante domande si sia fatto durante i suoi mesi di lotte per avviare il progetto.
Lo facciamo spessissimo anche noi perché quella spiaggetta è la nostra seduta dall'analista. Ogni giorno ci sono problemi con l\'acqua, con il generatore, con il caldo e con i pensieri che continuano a frullarti in testa, ma questa casa ha un panorama che alla sera fa fiorire tutte le cose brutte che hai dentro e ne fa un giardino unico.
Questa casa ha due guardiani: Tijan, che è qui da quando «casa 1» era la casa di un ufficiale dei ribelli, e Mohamed – che ha due figli bellissimi – che abbiamo assunto più tardi. Mi ricordo quando è arrivato Richard, «big Richard» il nostro ortopedico canadese alla seconda missione con Emergency in Sierra Leone.

Appena è sceso dalla macchina, lui e Mohamed si sono abbracciati; Mohamed lo stringeva al petto e aveva una gioia nel rivederlo che non riesco a trascrivere. Poi ho pensato: se qui ci si affeziona a qualcuno, noi possiamo sempre prendere un aereo e venirli a trovare. Loro no.
Loro possono solo aspettare.
Come loro i 156 dello staff dell’ospedale di Emergency, per l’80% donne: infermiere, «cleaners», reparto cucina, dottoresse che portano avanti il loro lavoro, la loro famiglia in questo paese conosciuto solo per l’esportazione di diamanti.
Con loro, secondo un’espressione da addetti ai lavori, stiamo facendo «capacity building», costruiamo capacità.
E insieme a loro costruiamo speranza con professionalità e affetto, tirando le 3 di mattina parlando di quello che non va, di quello che si potrebbe fare, a incoraggiare e a cercare, a sentirsi male e bene, a non capirci più niente e voler mollare, a feste con le nostre amiche sierraleonesi che si muovono con un'armonia da allineamento dei pianeti, a capire chi sono le persone fidate e chi no.
Questo ha senso, costruire con queste persone le capacità, la dignità e la speranza.
Se questo è «pietas marketing», benissimo: chiunque sollevi questo dubbio, legittimo e forse a volte giusto, è invitato ufficialmente dallo staff dell'Emergency Surgical centre a Goderich, a Obafunkya, a Odokoko.
Da Bruxelles partono due voli a settimana.
Se passa da queste parti al tramonto e non ci trova in ospedale, basta che guardi nella spiaggetta di «doggy beach».
Troverà qualche bianco un po’ affaticato e molti “ abbronzati” in gran forma, che sono andati fuori di testa: continuano a svuotare l\'acqua del mare con dei secchi.
E sorridono.

Un abbraccio a tutti,
Andrea

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