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Zea Mexicana (di Paola Carini)
5.04.2004

È universalmente noto che i coltivatori e i consumatori di tutto il mondo guardano con diffidenza alle sementi geneticamente modificate e ai cibi che con esse vengono prodotti. I ricercatori non hanno alcuna certezza sulle conseguenze sul corpo umano e, nonostante gli irresistibili vantaggi illustrati dalle multinazionali che producono gli OGM, essi stentano ad illuviare l’intero pianeta e a creare gli enormi profitti che quegli stessi grandi gruppi – ad esempio la Monsanto – aspettano con impazienza.

Un po’ meno noto è che il Messico è la culla del granturco, ossia il luogo che ne ospita numerosissime varietà. Tra le montagne di Oaxaca, stato meridionale del Messico, le popolazioni autoctone riuscirono a rendere coltivabili diverse varietà di granturco già 7000 anni fa. Più a nord, nel sudovest degli attuali Stati Uniti, si ha traccia di coltivazioni di mais risalenti a 5000 anni fa a cui si affiancò la produzione di zucche e di fagioli all’incirca 1500 anni dopo. A quel punto la dieta di quelle popolazioni – costituita principalmente da carboidrati, legumi e verdura – si stabilizzò e così rimase fino all’invasione degli europei.

I botanici hanno catalogato più di 60 varietà selvatiche di granturco che continuano a crescere spontaneamente in tutto il Messico, a conferma che il paese è uno scrigno di biodiversità per quanto riguarda il mais.

Ma lo sarà ancora a lungo?

Nel 1994 il Messico sottoscrisse il NAFTA, il North American Free Trade Agreement, l’accordo nordamericano che abbattè le barriere doganali di Canada, Stati Uniti e Messico e rese più agevole il libero scambio delle merci. Da quel momento il Messico passò da una produzione di mais che soddisfava il 98% del fabbisogno interno ad una importazione così massiccia da collocarlo tra i principali importatori mondiali insieme a Giappone e Corea.

Cosa è successo?

Gli accordi del NAFTA prevedono che il Messico importi ogni anno un certo numero di tonnellate di mais dagli Stati Uniti e, sebbene lo stato abbia proibito l’importazione e la coltivazione di OGM, nel 2001 un terzo dei sei milioni di quel mais (adatto al consumo alimentare) era geneticamente modificato. A parte il conseguente e vertiginoso rialzo dei prezzi di tutti i prodotti a base di mais (come le comunissime tortillas) i ricercatori dell’Istituto Nazionale di Ecologia messicano hanno recentemente scoperto che sementi di granturco geneticamente modificato hanno contaminato parecchi campi di mais di sperduti villaggi indiani proprio nello stato di Oaxaca. Il pericolo è grave sia per il gran numero di varietà minacciate, sia per l’indipendenza alimentare e la salute di quelle popolazioni autoctone, e sono questi ultimi aspetti i motivi principali per cui dal nord al sud del continente americano le popolazioni indigene si trovano a combattere unite la battaglia contro gli OGM.

Se, da un lato, nei soli Stati Uniti ci sono circa 50 milioni di ettari di coltivazioni geneticamente modificate – dalle patate al pomodoro, dal riso alle barbabietole da zucchero, dalle zucche al cotone, alla soia, alla colza – dall’altro c’è l’agguerrita opposizione di coltivatori biologici e dell’associazione dei coltivatori nativo americani, la Traditional Native American Farmers Association, che chiedono che gli Stati Uniti rispettino il Protocollo sulla Biosicurezza, firmato a Cartagena (Colombia) nel 2000.

Le comunità nativo americane conoscono bene le conseguenze di un radicale cambiamento nella dieta: il passaggio da carne di animali selvatici a quella di animali da allevamento ha causato l’inserimento di una notevole quantità di grassi in più; la massiccia presenza di zuccheri semplici in bevande e cibi preconfezionati ha reso i nativo americani particolarmente predisposti a sviluppare il diabete; a causa dei conservanti nei cibi essi sviluppano allergie in modo allarmante. E queste situazioni patologiche non sembrano diminuire con il passare delle generazioni: oggi gli adolescenti nativo americani hanno una prospettiva di vita più corta dei loro coetanei – pur essendo questi ultimi a rischio di obesità. Il diabete è una malattia così diffusa che nel 2000 venne presentato al Sundance Film Festival un film educativo intitolato "Horse Song", co-prodotto dall’attore navajo Norman Patrick Brown e dal Northern Navajo Medical Center, e incentrato sulle vicende di una famiglia navajo e sugli effetti devastanti del diabete sui suoi membri.

L’associazione dei medici nativo americani lavora da anni per diffondere linee guida alimentari tra le comunità. I messaggi primari sono quelli di ritornare alle tradizioni culinarie tribali ed evitare quei cibi pronti che possono scatenare iperglicemia, ipercolesterolemia e tutte le complicanze derivate dall’assunzione di cibi "moderni". Per i navajo che abitano nella riserva, ad esempio, si consiglia di ricorrere a cipolline, carote, zucche e spinaci selvatici, alle numerose varietà di bacche commestibili, alla yucca, ai pinoli, a tutti quei piatti a base di mais di cui è ricca la cucina navajo come i fagottini blu (blue dumplings), a base di una varietà di zea mays dai chicchi blu. E poi i tipici fagioli neri, la carne di pecora, di cervo o di coniglio, il latte di capra e i latticini da esso derivati che, se combinati con patate selvatiche ed altre bacche locali, hanno un tale contenuto di calcio che a parità di età i navajo hanno una densità ossea maggiore rispetto agli altri americani. Interessante è l’aggiunta di cenere di ginepro ai fagottini o al pane blu, un integratore, diremmo noi, al pari di un tipo particolare di argilla commestibile che viene spesso associata alle pietanze. Per quelli meno fortunati, per gli "indiani di città", si consiglia quel che viene ripetuto nell’opulento occidente: frutta e verdura devono costituire la base della piramide nutrizionale.

Ricerche pionieristiche su cibi e bevande tradizionali delle popolazioni autoctone americane ne hanno rivelato gli aspetti altamente benefici. I valori nutrizionali di piatti tipici come quelli navajo e le proprietà di infusi di piante locali come il tipico tè ojibwe, un potente antiossidante, promettono di giocare un ruolo importante per la salute umana, e lo stesso vale per piante officinali, cereali ed altri prodotti della terra utilizzati da centinaia di anni in tutto il continente.

E qui cominciano i guai.

Le conoscenze tradizionali delle popolazioni indigene sono tutelate dall’articolo 29 della Dichiarazione dei Diritti delle Popolazioni Indigene redatta in maniera non definitiva dalle Nazioni Unite. In esso si dichiara che le popolazioni indigene di tutto il mondo hanno il diritto di possedere e controllare la loro proprietà intellettuale e culturale, ossia scienze, tecnologie, genetica, semi, pratiche mediche, flora e fauna, lingue, letterature ed espressioni artistiche.

Ma la pratica è un po’ diversa.

Nel 2001 le comunità indigene del Chiapas, in Messico, sventarono un tentativo di "bio-pirateria" (tecnicamente "bio-esplorazione") da parte del Dipartimento dell’Agricoltura statunitense in collaborazione con altri enti governativi, con l’Università della Georgia (campus di Athens), con un’azienda di biotecnologie gallese e con il Colegio de La Frontera Sur messicano. Si intendeva indagare la biodiversità e quindi la ricchezza di piante medicinali presenti nel Messico dei maya senza aver prima consultato approfonditamente la popolazioni coinvolte. Il risultato fu una dura opposizione che dopo due anni di battaglie riuscì a vanificare il progetto e i milioni di dollari stanziati per attuarlo. In gioco non c’erano solamente conoscenze millenarie che sarebbero state sfruttate e commercializzate, ma anche il patrimonio culturale e spirituale di quelle comunità, che contempla anche il territorio in cui abitano.

Che le specie animali e vegetali di un particolare luogo siano il cuore di una cultura non è un concetto semplice da comprendere, eppure i maya del Chiapas non sarebbero quello che sono se venisse meno l’ambiente naturale con cui convivono da millenni. Allo stesso modo, se al posto del granturco coltivato in tutta l’America autoctona, discendente di quella prima specie chiamata teosinte – zea mexicana – venisse introdotta una specie geneticamente modificata, gli effetti sarebbero devastanti sia da un punto di vista dell’autonomia alimentare (queste sementi, spesso volutamente sterili, creerebbero un’inevitabile dipendenza nei confronti di chi le produce), che culturale. Per pueblo, apache, zuni e navajo, ad esempio, il granturco è Madre-Granturco, è il dono del Creatore agli esseri umani, e solamente se si prenderanno cura di Madre-Granturco nei modi indicati dal Creatore stesso essi potranno continuare a vivere. Madre-Granturco non si può sostituire con ibridi che hanno geni di altre specie, magari animali, altrimenti le conseguenze sarebbero dirompenti sia concretamente, come è intuibile, che spiritualmente.

I diritti di proprietà intellettuale e culturale delle comunità indigene devono indubbiamente essere protetti e difesi in modo rigoroso in ogni luogo preposto, in ogni sede nazionale e internazionale. Ma quelle stesse comunità possono esser sostenute con gesti semplici anche da cittadini qualsiasi. Basta andare a fare la spesa. E scegliere i prodotti distribuiti dalla rete TransFair (spesso trovabili anche al supermercato) la cui qualità è indiscutibile ed il prezzo giusto. Come il caffè zapatista del Chiapas o la miscela arabica del Nicaragua. L’ottimo cioccolato fondente Mascao dell’America Latina o il tè nero aromatizzato ai frutti di bosco dell’India e, permettetemi, come la nostrana pasta di Libera Terra, coltivata sui terreni siciliani confiscati alla mafia.

Sapere che i profitti andranno a chi effettivamente li ha lavorati aggiunge poi un sapore ineguagliabile. Che sa di giustizia. Di buono. Per il corpo e per lo spirito.

Paola Carini

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