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Ulivo. Sicilia, candidature senza ombre
6.04.2004

Questa è una lettera aperta. Rivolta appassionatamente ai leader del centrosinistra in vista delle prossime elezioni europee e amministrative. Con la fiducia che ne venga assunta fino in fondo la sincerità degli intenti. E con la speranza che nei quartieri "a rischio" della politica essa non diventi occasione solo per dispute ammuffite o particolaristiche.

L'antefatto è l'ultimo viaggio della Commissione antimafia a Palermo, la scorsa settimana. Un viaggio atteso da tempo e che, con molto ritardo, ha fatto seguito sia ad alcune importanti audizioni romane sia alle polemiche che avevano dilaniato in autunno gli uffici della Procura palermitana. Un viaggio che ha incrociato il recente coinvolgimento in inchieste di mafia di alcuni personaggi di prima grandezza dell'establishment siciliano, a partire dal presidente della Regione Totò Cuffaro.

Per due giorni ho cercato di ascoltare con la massima attenzione la testimonianza dei protagonisti locali, dai magistrati palermitani al sindaco di Palermo allo stesso "governatore". Per due giorni, nel salone della prefettura dedicato alla memoria di una lontana vittima di mafia, ho cercato di mettere a confronto la situazione dipinta dai racconti e dagli atti giudiziari con quella di venti, dieci, cinque anni fa. Di comparare gesti e contesti, di inseguire i ricami impazziti della storia, di infilarmi nell'oggi, di decrittare il detto e il non detto, le deferenze vere e le deferenze finte, le insofferenze giuste e le insofferenze ingaglioffite.

Mi sono formato l'idea che la situazione dei rapporti tra mafia e politica sia oggi di estrema gravità. Non rientro fra coloro che per costume cantano ogni anno la litania che "qui è sempre peggio, anzi almeno una volta si sapeva chi erano i boss, ora che li abbiamo presi non sappiamo più neanche chi sono i nuovi". Credo di avere l'attrezzatura teorica e cognitiva utile ad apprezzare le grandi differenze che esistono tra oggi e l'altro ieri. E tuttavia la presenza della mafia sembra di nuovo invasiva, strafottente, ingagliardita da quell'acre odore di antistato che promana dal governo, perfino poco preoccupata da quel celebre 41 bis che infligge il carcere duro a chi è dentro. Perché chi è fuori e non ha il proprio padrino detenuto pensa con intraprendenza e spirito fattivo agli affari suoi e del suo clan. Il 41 bis, sembra di capire, serve a mimetizzare l'intero mondo mafioso, a vestirgli addosso gli umili panni dello sconfitto: ecco lo Stato che gliela fa pagare, finalmente la mafia non la fa più da padrona. Tragico errore. La mafia fa appalti e fa racket; la mafia orienta progetti e spesa pubblica, seleziona carriere imprenditoriali ma anche carriere professionali (i medici, per esempio), la mafia acquista e investe. La mafia ha talpe negli uffici pubblici, anche - pare - in quello più in alto di tutti, quello del presidente della Regione.

La mafia fa trasferire i funzionari scomodi. La mafia raccoglie e porta voti. E vuole, pretende leggi a sua misura.

Per essere precisi, non mi sono formato la convinzione che, dopo le stragi del '92 e del '93, si sia strutturato un sistema di potere articolato intorno a un fortilizio politico, come all'epoca della corrente andreottiana e dei suoi alleati minori. Oggi la situazione è più fluida, più aperta. E ciò se offre il vantaggio di non doversi misurare con un blocco di potere granitico, capace di dettare impulsi quasi a ogni faccia delle istituzioni, obbliga però tutti a un supplemento di attenzione. Perché oggi la mafia arriva dappertutto. Pronta a schizzare verso l'alto nei partiti maggiori e a più forte insediamento governativo, specie - va detto per onestà - in quell'Udc che sembra avere più efficacemente ereditato un forte apparato di relazioni clientelari dal vecchio sistema politico. Pronta a conquistare aree ancora vergini, a portare in molti collegi uninominali quel "di più" di consenso necessario per fare la maggioranza (il che la rende ancor più decisiva di quanto potesse essere nel proporzionale). Forte, fra l'altro, della imperiosa dimostrazione di salute (politica) che ha dato al mondo nelle elezioni del 2001.

Ma è proprio qui che nasce il ragionamento che porta alla presente pubblica richiesta. Ho ascoltato Cuffaro, ho letto stralci di verbali, ho sentito le domande-fiume di molti esponenti della maggioranza in Commissione. Il governatore siciliano ha spiegato ai parlamentari giunti da Roma il suo punto di vista: io, egregi signori, soprattutto egregi signori dell'opposizione, non ho fatto nulla di male. E se l'ho fatto, l'ho fatto come tutti voi. Perché i nostri mondi si sovrappongono, perché abbiamo spesso le stesse frequentazioni, perché le contingenze politiche spostano i favori mafiosi ora da una parte ora dalla parte opposta, ma -dacché ci furono le stragi- nessuna parte ne è stata immune. Fioccavano, nelle audizioni, negli atti scritti, i nomi di politici più o meno responsabili di "conoscere", di "colludere", di "frequentare". Quel consigliere comunale che sosteneva la giunta di Orlando, che era con la primavera di Palermo, come potete dubitarne? Quel sindaco indipendente di sinistra. Quell'altro che è dei vostri ed è una gran brava persona (messaggio implicito: purché riconosciate che anch'io lo sono). Una marmellata insidiosa, dove -beninteso- su tre cose dette o alluse una era vera, una verosimile e una falsa. Ma dove ugualmente tornava a pungere la domanda: e noi, noi accidenti, perché ci mescoliamo?

In fondo anche Cuffaro è stato assessore regionale (e di primo piano) con una giunta regionale di centrosinistra. In fondo anche il deputato regionale appena arrestato Vincenzo Lo Giudice detto Mangialasagne è stato assessore con il centrosinistra. Ed è uno che non ha linguaggi forbiti o che colluda per "nobile" realismo politico. Tra una bestemmia e l'altra il nostro "esponente cattolico" (chissà a quanti avversari avrà fatto l'analisi del sangue sul valore della famiglia e della vita dei nascituri...) definiva infatti i poliziotti "sbirri", "infami", da fare "a pezzetti", in purissimo linguaggio mafioso. Il suo mito dichiarato era don Vito Corleone, il padrino per antonomasia.

Amici cari, ma come ha fatto questo signore a rappresentare il popolo dell'antimafia in una regione in cui, come ha giustamente osservato Giuseppe Ayala, ognuno sa esattamente chi sono i mafiosi e i loro amici, e in cui l'identità di boss viene sancita (se e quando accade) dalla giustizia solo dopo che è stata certificata per anni dalla forza delle cose e dei costumi, dal sistema delle fedeltà e delle obbedienze?

Ecco dunque che cosa voglio dire. Il pericolo è grande. Il pericolo di non potere più denunciare credibilmente. Di essere omologati. Come parte forse marginale, ma sempre dentro, sempre interni a un sistema gelatinoso quanto il tritolo che scoppia devastante nei passaggi cruciali della storia. Gira voce incontrollata e tendenziosa che nel 2006 potremmo vincere le elezioni. Come si regolerà la mafia che sta sempre con chi governa, come ci è stato ripetuto fino alla noia? Che strade tenterà di battere? Conosciamo bene alcune obiezioni. Ci si dirà che l'antimafia fa perdere voti. Anche se ciò non è sempre vero in tutti i momenti e tanto meno praticando una più ampia contabilità nazionale. Che dobbiamo tornare al governo e che per farlo non dobbiamo guardare troppo per il sottile, visto che il saldo sarebbe comunque sempre positivo. Oppure che è finita l'era del giustizialismo. Obiezione, quest'ultima, che va condivisa senza riserve. Nel senso, però, che è davvero arrivato il momento in cui le candidature non vengano più demandate alle sentenze dei giudici, ma siano decise con atti di piena responsabilità politica. Grazie ai quali si stabilisca una volta per tutte che si può essere penalmente innocenti, ma se si frequentano consapevolmente dei boss mafiosi, se li si incontra, se ci si accorda con loro, non c'è scampo: non si possono rappresentare né le istituzioni né i cittadini onesti.

Lungi da me l'idea di semplificare il problema. Purtroppo è il problema che costringe la mente a semplificazioni brutali. Che vanno oltre la "complessità" e le "mediazioni ambientali" senza le quali, come è noto, non si può fare saggia politica. Qui (spero davvero che lo si capisca) non è davvero questione di essere riformisti o radicali, a meno che non si voglia affossare per sempre la dignità della parola riformismo. Qui la domanda suona così: è possibile per un leader politico, per un amministratore che reclami democrazia, libertà, legalità e giustizia, tenersi per mano con la mafia o tenerla per interlocutrice amichevole? La domanda sembra pleonastica. E invece, nella concretezza dei fatti, è drammatica. Come drammatica è la risposta. Ai leader del centrosinistra, nelle decisive settimane delle candidature, il viaggio palermitano e la storia dell'antimafia chiedono la risposta più facile nelle parole e più difficile nei fatti.

di Nando dalla Chiesa

fonte www.unita.it

 

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