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Politica sociale nei Paesi in Via di Sviluppo
16.04.2004

Politica sociale in un paese in via di sviluppo non significa automaticamente previdenza sociale onnicomprensiva, ferie pagate o quello che noi intendiamo come welfare.

Politica sociale significa acqua pulita, servizi igienici, esistenza di fogne, raccolta regolare della spazzatura nelle strade, alimentazione sufficiente, istruzione primaria il piu' possibile universale.

Stiamo quindi parlando d'un livello gia' raggiunto da tempo nel mondo occidentale.

L'universalizzazione di tali servizi essenziali fu resa possibile in Europa dall'accelerazione della crescita economica, ma anche dalla contemporanea diffusione d'ideologie egualitarie (passaggio dal concetto di democrazia fondata sui diritti politici a quella basata sui diriti sociali ed economici).

Tali servizi essenziali sono parte fondamentale del nostro modo di vita e nessuno, nemmeno il piu' folle liberista, potrebbe pensare di fare marcia indietro.

Per i paesi in via di sviluppo non si tratta quindi di mutuare gli aspetti piu' generosi del nostro welfare, concepiti in un'epoca nella quale la crescita economica sembrava senza limite e le condizioni internazionali favorivano nettamente il mondo occidentale (prima degli shock petroliferi, che incominciarono a cambiare tutto) e che noi stessi oggi dobbiamo tagliare, ma di perseguire politiche sociali essenziali, per rispondere a bisogni da noi gia' coperti.

E' questo il punto di partenza per uno sviluppo duraturo.

L'esperienza degli ultimi cinquant'anni dimostra che fattori produttivi che sembravano fondamentali (possesso di materie prime) al momento della decolonizzazione si sono spesso rivelati controproducenti. Numerosissimi i casi di PVS ingovernabili proprio per la presenza di risorse abbondanti.

I paesi che hanno intrapreso con maggior successo la via dello sviluppo sono quelli che si sono dati come priorita' migliorare la sanita' e l'istruzione delle loro popolazioni. I dragoni asiatici, Mauritius, o ad un altro livello la stessa Tunisia hanno migliorato significativamente i loro indicatori sociali ed hanno avuto uno straordinario (o buono, nel caso di Mauritius o della Tunisia) ritorno economico. Pur senza contare, nessuno di loro, su particolari risorse naturali.

Paesi a loro vicini, a volte maggiormente dotati di risorse, hanno invece fallito a causa d'errori di governance: trascurando quei servizi essenziali cui accennavamo, e scegliendo altri modelli di sviluppo, Marocco, Indonesia o Madagascar sono rimasti drammaticamente indietro rispetto ai loro vicini.

Questa tendenza si sta accentuando nel XXI secolo, nei quali sanita' ed educazione saranno fattori sempre piu' cruciali.

Chiaro che e' quindi necessario investire in essi, non tagliare, perche' il ritorno di tali investimenti e' altissimo.

Il problema vero non e' comunque tanto quello della disponibilita' di risorse per il sociale, ma dell'errata concezione dell politiche sociali nella maggior parte dei PVS: le spese sociali sono di solito clientelari, non sono inserite in una strategia coerente, non sono coordinate tra branche diverse dell'amministrazione, sono legate puramente al ciclo politico. E' impressionante vedere come, analizzando il funzionamento della spesa sociale in molti PVS, le risorse gia' limitate (perche' la tassazione e' in media molto bassa) vengono poi spese in politiche che favoriscono le classi piu' abbienti.

Due esempi: in Brasile la spesa educativa pubblica si concentra sulle universita', trascurando del tutto l'insegnamento primario (in un paese con il 30% d'analfabeti). I figli dei ricchi vanno a scuole primarie private carissime, per poi passare all'educazione pubblica gratuita universitaria, dalla quale sono esclusi coloro che appartengono ai ceti meno abbienti, che hanno dovuto frequentare scuole primarie pubbliche scadenti che non permettono di competere negli esami d'accesso all'universita'. L'uso dei fondi pubblici moltiplica quindi le differenze sociali, non le riduce.

Lo stesso con le pensioni: generosissime con le classi medio - alte (pensione piu' alta dell'ultimo stipendio!), inesistenti per le classi basse.

Conclusione: in quel paese la spesa sociale e' concepita in modo tale da essere funzionale ai ceti piu' abbienti, non ai piu' bisognosi.

L'India governata dalla destra induista sta seguendo una via simile: anno dopo anno taglia i fondi per sanita' ed educazione primaria, ma ha appena fatto discutere un decreto che sovvenziona i costi d'iscrizione alle business school private. Che certo non frequentano i piu' poveri. C'e' bisogno di usare fondi pubblici per aiutare le classi al potere?

Non siamo quindi in presenza d'uno scenario statico nel quale si puo' entrare con l'accetta. Un trend che sembra pero' chiarissimo e' che i paesi che optano per un modello di educazione e sanita' per tutti e, nella misura del possibile, pari opportunita', fanno piu' strada di quelli che preferiscono concentrare i privilegi la' dove stanno.

Tunisia: Il caso di questo paese e' effettivamente paradossale. Di gran lunga il piu' avanzato del mondo arabo in termini d'indicatori sociali, di benessere delle classi medie, d'inserimento della donna nella societa' etc, e questo sin dai primissimi tempi di Bourghiba, e' rimasto paradossalmente indietro in termini di sviluppo politico e rispetto dei diritti umani. E' uno sfasamento che costituisce senza dubbio il grande limite storico di Ben Ali, incapace di farsi da parte, come troppi lider arabi, incapaci di concepire l'alternanza. In termini di reddito la Tunisia sta gia' nell'Europa meridionale, in termini politici riattraversa il Mediterraneo.

Il suo sviluppo economico e sociale spiega anche il poco peso che vi hanno i fondamentalisti, che si nutrono della frustrazione economica delle popolazioni.

E' vero che si dovrebbe essere piu' fermi con il governo tunisino, trovando il modo di far capire al governo l'incoerenza di tale comportamento, e l'insostenibilita' di tale modello.

Senza giungere pero' a misure estreme, tipo bloccare il funzionamento degli accordi economici o boicottaggi, che non servono a nulla in tali circostanze.

Un arma efficace e' quella del rafforzamento dei contatti e scambi tra i rappresentanti della societa' civile, per esempio europea e tunisina, che costituisce alla lunga un lievito per le riforme che diverranno inarrestabili. Ai massimi livelli, mi posso solo augurare che chiunque incontri Ben Ali non si stanchi di ripetergli mille volte che la strada che ha scelto non e' quella giusta.

Esiste comunque un limite alle pressioni che si possono fare, alla fine i cambiamenti devono essere l'espressione della societa' stessa, la democrazia non e' un prodotto facile da esportare se chi non ce l'ha non si dimostra interessato a lottare per averla.

Cina: in questo caso uno strumento di pressione importante e' in vigore, e non mi convince troppo l'idea di togliere l'embargo sulla vendita di armi. le pressioni economiche sono forti perche' la Cina sta spendendo somme colossali in armamento, che compra essenzialmente dalla Russia, dal Sudafrica, dal Brasile, da Israele.

Un' economica in stabile crescita e con le dimensioni di quella cinese, e con una stabile tendenza a spendere molto in armamenti nei prossimi decenni e' un boccone ghiotto pee le nostre imprese, che premono sui loro governi.

Dal punto di vista strategico mi sembra pero' un errore alimentare la macchina da guerra cinese: Pechino punta ad affermarsi come seconda potenza militare mondiale e contrappeso agli Usa in Asia.

Le sue mire sono assai chiare e preoccupano (molto) i paesi della regione, che non hanno nessuna voglia di doversi trovare a confrontarsi, tra qualche anno, con un imperialismo cinese ben armato.

In questo quadro, gli Usa soffiano chiaramente contro, perche' sanno a cosa si sta andando incontro.

La Russia invece vede con favore un rafforzamento cinese, perche' a lungo periodo una tensione sino - americana le darebbe grandi spazi di manovra.

L'Europa avrebbe invece interesse a stemperare le ambizioni cinesi, che non vanno nella direzione d'un mondo piu' pacifico ed equilibrato, cui noi invece teniamo. Eliminare l'embargo ora sembra invece una risposta di corto respiro, che tiene conto solo d'interessi commerciali a breve.

Un' ennesima dimostrazione della necessita' per l'Europa di pensare di piu' in termini strategici complessivi invece che farsi guidare solo da logiche commerciali. Quel che si guadagna a breve, lo si puo' perdere (con gli interessi) piu' tardi.

Stefano Gatto

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