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Intervista a Adriano Sofri
19.04.2004

Intervista ad Adriano Sofri
Pacifismo e giustizia internazionale
di Carlo Gnetti

La visita ad Adriano Sofri è stata voluta e organizzata da Nino Sergi, segretario generale di Intersos, ed è finalizzata tra l'altro a coinvolgerlo nella campagna antimine dell'ong di cui fanno parte Cgil Cisl e Uil. Oltre allo sminamento della zona di Bassora, Intersos è impegnato in Iraq nell'organizzazione del rientro dei profughi dall'Iran e dall'Arabia Saudita, nelle attività di due centri di aggregazione per ragazzi e di un centro anziani (in cui è coinvolto anche l'Auser) e nell'organizzazione di un campo profughi in cui vivono 6000 curdi iraniani.
Nel corso del colloquio con Sofri parliamo di guerra e di pace, di Cecenia e di Russia (Sofri contribuì, grazie al suo impegno personale e alle sue relazioni, alla liberazione di tre volontari di Intersos rapiti dai guerriglieri durante la guerra in Cecenia), di rapporto tra ong e forze militari in paesi come l'Iraq, e di altre questioni internazionali. Restano a margine della conversazione le vicende personali e giudiziarie, sulle quali peraltro l'atteggiamento di Sofri è piuttosto rassegnato: «Poche speranze finché c'è questo governo». E siamo alla vigilia della bocciatura alla Camera della legge «Boato».


Fa un caldo primaverile lungo il viale alberato, proprio a ridosso del centro storico, dov'è ubicata la casa circondariale, elegante eufemismo che a Pisa è d'uso comune per indicare il penitenziario della città. È un edificio che si confonde con gli altri e non ha nulla di tetro, di imponente o di austero. Nulla che serva a mettere soggezione al visitatore. Varcata la soglia l'impressione non cambia: sembra un normale ufficio pubblico alla scadenza del turno, con un via vai di impiegati, uomini e donne che timbrano il cartellino in entrata e in uscita. La portineria espleta in fretta poche formalità. Un documento e via, senza perquisizioni né altro. Ci trattengono solo un pacco di libri e riviste. La raccomandazione di consegnarli ad Adriano Sofri viene accolta quasi con ironia: a chi altro possono essere destinati libri e giornali?

Entriamo nel cortile interno e, dopo una porta blindata, direttamente nel corridoio delle celle e nel parlatorio. L'atmosfera non è affatto pesante come ci si potrebbe aspettare, nonostante le restrizioni che, ci dicono, hanno di recente apportato. Il personale civile e militare è affabile, disteso, per nulla formale. Quando usciamo dopo due ore di colloquio ininterrotto, senza mai l'impressione che il tempo stia per scadere, che orecchie estranee ascoltino i nostri colloqui, che un secondino indifferente e crudele controlli i minuti come nei film americani, verifichiamo di persona il modo confidenziale, persino affettuoso, con cui il personale del carcere tratta quest'uomo. Non diverso, abbiamo motivo di pensare, dev'essere il rapporto di questo prigioniero «speciale» con i suoi compagni. «Dopo 7 anni ­ spiega lo stesso Sofri ­ sono ormai diventato una specie di patriarca del carcere».

La riflessione di Sofri sulla guerra e sulla pace parte dalla Cecenia. «All'ultima manifestazione organizzata a Roma non c'erano più di 200 persone. Come mai una tale indifferenza? ­ si chiede ­. Forse perché la Russia è entrata nel gioco diplomatico internazionale. Ma è più probabile che la guerra lasci indifferenti i no global, dato che in essa non sono coinvolti gli Stati Uniti». Eppure negli ultimi anni, ammette lo stesso Sofri, abbiamo assistito a una cosa bellissima: dopo quella che definisce «riconversione eco-pacifista» sulle ceneri del marxismo tradizionale, e lo sforzo per trovare un altro terreno di impegno al quale ancorarsi, i giovani sono tornati a scandalizzarsi delle cose del mondo.

È stata però una «scoperta tardiva» ­ osserva Sofri ­, la stessa che si era avuta nei confronti di Auschwitz dopo che le bombe di Hiroshima e Nagasaki avevano accantonato l'olocausto per un certo periodo di tempo. «Oggi ­ prosegue ­ molte persone perbene si sentono coinvolte dallo scandalo della guerra. Anch'io mi commuovo quando vedo le bandiere della pace sui balconi delle case. Ci mancherebbe che non si irrobustisse il discorso contro la guerra. Ma dire "no alla guerra senza se e senza ma" è come chiudere una saracinesca sulla propria intelligenza e sulla propria morale». È come se ci fosse un «arresto della coscienza critica» ­ argomenta Sofri ­, un arresto che va fatto risalire in primo luogo ai dirigenti politici. «I pregiudizi sono così rigidi ­ osserva ­ che, quando si fa un passo nella giusta direzione (ad esempio D'Alema a proposito della guerra nel Kosovo), ci si sente sfiniti e il passo si esaurisce per lo sforzo compiuto.

Così, superata l'alternativa tra guerra e pace, la discussione termina proprio al punto in cui occorrerebbe fare un passo ulteriore. Nessuno si chiede più come intervenire e cosa resta fare. Eppure anche i pacifisti più sfrenati dovrebbero porsi come un problema loro, non da affidare ad altri, quello di abbattere le tirannie e di proteggere le loro vittime. Se si elude il problema della giustizia internazionale si lascia mano libera ai signori della guerra».

Ma qual è il «passo ulteriore» da compiere, anche per chi è stato ed è contrario alla guerra, al punto in cui sono arrivate oggi le cose in Iraq? «In primo luogo ­ risponde Sofri ­ occorre rinunciare all'idea agghiacciante di abbandonare il paese al suo destino. In secondo luogo si tratta di convertire la forza internazionale di cui si dispone affinché risponda agli scopi che ci si sono prefissi: rispetto delle regole, rispetto del nemico, introduzione di una forma di democrazia che preveda una rappresentanza delle minoranze, come del resto avviene in occidente. In questa chiave si può anche pensare a forme di integrazione tra servizio militare e volontariato civile. Ma tutto ciò ­ conclude Sofri ­ è destinato a fallire se l'opinione pubblica del paese non farà sentire la propria voce».

fonte www.rassegna.it

(7 aprile 2004)

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