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Vendita SME: il prezzo era giusto? da www.lavoce.info
9.05.2003

La questione sollevata dal Presidente Berlusconi sul prezzo di vendita della Sme richiede forse qualche chiarimento.

Il caso Sme risale al 1985, quando la società era appena tornata a mostrare un piccolo utile dopo che negli anni precedenti era sistematicamente incorsa in pesanti perdite di esercizio.

L'allora presidente dell'Iri, Romano Prodi, raggiunse un accordo con Carlo De Benedetti, presidente della Buitoni, in base al quale l'Iri avrebbe ceduto la sua partecipazione nella Sme (il 62,1 per cento del capitale) per 497 miliardi di lire. L’intervento di altri offerenti – la vicenda è nota, ne omettiamo i dettagli – ha fermato l’operazione di vendita, che si è sbloccata solo negli anni Novanta, quando la Sme è stata spezzettata e venduta (tra il 1993 e il 1996) per una somma complessiva di circa 2000 miliardi di lire (a valori correnti).

Quanto valgono dieci anni

Si può dire quindi che l’intervento di Berlusconi – a prescindere dalle accuse di corruzione, su cui abbiamo ben poco da dire – abbia favorito lo Stato italiano? Per poter rispondere a questa domanda, dobbiamo innanzitutto notare che confrontare valori distanti nel tempo all’incirca un decennio richiede che si considerino gli interessi che la somma incassata nel 1985 avrebbe reso allo Stato se l’operazione fosse stata conclusa a quel tempo.

Se quei 497 miliardi fossero stati investiti in Cct dall’inizio del 1986 alla fine del 1996, essi si sarebbero trasformati in 1.688 miliardi nel 1996. Se si tiene conto, inoltre, che la Buitoni si impegnava a ricapitalizzare la Sidalm, società controllata dalla Sme, per 30 miliardi, evitando all’Iri di dover sborsare questa somma, il valore totale del pagamento implicitamente ricevuto dall’Iri (incasso più mancato esborso) sale a 527 miliardi, che investiti in Cct si sarebbero trasformati in 1.790 miliardi nel 1996 (1).

Applicando lo stesso metodo di capitalizzazione alle somme che lo Stato ha ricavato dalla liquidazione graduale della Sme effettuata tra il 1993 e il 1996, otteniamo una somma di 2.353 miliardi di lire del 1996. In sintesi, la privatizzazione del 1985 avrebbe fruttato allo Stato 1.790 miliardi nel 1996, mentre la liquidazione degli anni Novanta ne ha fruttati 2.353, sempre in lire del 1996. Come si vede, la differenza non è poi molto grande: magia dell’interesse composto!
Se poi consideriamo che tra il 1985 e il 1996 le quotazioni di Borsa in Italia sono pressoché quintuplicate, e che nel 1985 i vincoli imposti all’acquirente sul fronte occupazionale – anch’essi rilevanti per le aspettative di profitto dell’impresa – erano particolarmente stringenti, che si richiedeva il mantenimento della unitarietà della Sme (poi frammentata negli anni Novanta, con il tradizionale apprezzamento da parte dei mercati di queste operazioni) la differenza appare più che spiegata.
Questo calcolo non include i dividendi che lo Stato ha incassato – la Sme è rimasta in utile in tutto il periodo – o gli apporti di capitale che lo Stato ha effettuato nel decennio in cui la Sme è restata una controllata dell’Iri: ad esempio, a fine 1988 la Sme ha beneficiato di un aumento di capitale per complessivi 87,2 miliardi di Lire… Un raffronto più completo dovrebbe includere anche questi introiti ed esborsi, opportunamente capitalizzati. Ma resta la conclusione che, almeno in linea di prima approssimazione, l’offerta della Buitoni nel 1985 avrebbe comportato un introito per lo Stato di un ordine di grandezza del tutto analogo a quello ottenuto con la liquidazione effettuata negli anni Novanta.

L'alternativa della Opv

Questione molto più spinosa da chiarire è se l’offerta fosse inferiore a quella che si sarebbe ottenuta vendendo la società con una procedura alternativa di vendita, e in particolare con un’offerta pubblica di vendita (Opv). In un mercato perfetto, è il mercato azionario a dire quale sia il valore di un’impresa. E vendere la quota di controllo dell’impresa (che è quello che vendeva allora l’Iri) di solito comporta il pagamento da parte dell’acquirente di un premio per il controllo, ovvero di un sovrapprezzo rispetto al valore corrente di Borsa. L’offerta di De Benedetti valutava la Sme a 1.107 lire per azione, a fronte di un prezzo corrente di mercato di 1.275 lire. Inoltre, tenendo conto delle dilazioni accordate per il pagamento di una parte del prezzo, il valore attualizzato offerto allo Stato si aggirava intorno alle 1.000 lire per azione.

Sotto questo profilo, si potrebbe pensare che un’Opv sarebbe stata più vantaggiosa. In pratica, tuttavia, le cose possono essere più complesse, per almeno due ragioni.

Innanzitutto, il prezzo di mercato della Sme nel 1985 certamente scontava in qualche misura il successo della privatizzazione, l’apporto di capitale da parte della società acquirente e i guadagni di redditività legati al suo rilancio nell’ambito del nuovo gruppo alimentare. Quindi non è affatto detto che il prezzo di mercato sarebbe stato lo stesso se il Tesoro avesse interrotto le trattative con la Buitoni e avesse annunciato una Opv. In una situazione in cui un’impresa – come la Sme all’epoca – ha necessità di essere ricapitalizzata e ristrutturata, per cui l’acquirente è chiamato a scommettere sulle possibilità di risanamento, il premio di controllo può essere negativo.

In secondo luogo, massimizzare i ricavi può non essere il solo obiettivo delle privatizzazioni. L’offerta della Buitoni e il suo piano industriale consentivano di mantenere l’unitarietà dell’impresa e di raggiungere potenziali economie di scala, integrando la Sme in un gruppo più grande, il che non sarebbe necessariamente accaduto con una Opv.
Tutto ciò indica che esistono ragioni plausibili per cui in una privatizzazione lo Stato può voler vendere a un prezzo inferiore a quello di Borsa – come avrebbe fatto a suo tempo Romano Prodi, se la privatizzazione fosse stata completata nel 1985.

Concludendo…

Sia a raffronto con la vendita poi avvenuta negli anni Novanta, sia considerando i prezzi delle azioni del 1985, è difficile argomentare che accettare l’offerta della Buitoni nel 1985 avrebbe procurato un danno allo Stato. Tanto è vero che anche le altre offerte, tenuto conto dei termini di pagamento proposti, erano poco superiori a quella indicata nell’accordo Prodi - De Benedetti.

Un’ultima considerazione è quella dei tempi. Se l’operazione di Prodi fosse andata in porto, la Sme sarebbe stata privatizzata al 1985, invece di restare altri dieci anni nella sfera statale. E l’effetto positivo sulla credibilità della politica di privatizzazioni sarebbe stato probabilmente notevole. Come notevole è stata probabilmente la perdita di immagine del settore pubblico nazionale a fronte di un’Iri che finalmente cercava di vendere qualcosa, e veniva bloccata prima dal Governo, poi dai magistrati.
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(1) Se al lettore sembra strano che lo Stato investa il ricavato di una privatizzazione in Cct, si consideri che con tale somma lo Stato avrebbe potuto rimborsare una pari quantità di debito pubblico, e quindi evitare il pagamento dei rispettivi interessi (composti) per undici anni: ritirando 527 miliardi di Cct alla fine del 1985, lo Stato italiano avrebbe evitato di restituire 1.790 miliardi nel 1996.

(2) La somma complessiva incassata dallo Stato e riportata nel Libro bianco sulle privatizzazioni del 2001 è di 2.044 miliardi, distribuiti in quattro rate tra il 1993 e il 1996. Il valore di 2.353 miliardi riportato nel testo è ottenuto supponendo che ciascuna di queste rate sia stata incassata dallo Stato alla fine dell’anno corrispondente e che sia stata investita in Cct (ovvero usata per rimborsare Cct).

(3) L’indice Msci del mercato italiano è aumentato 4,81 volte tra fine 1985 e fine 1996. Quindi, supponendo che il valore della partecipazione Sme sia cresciuto in linea con l’andamento del mercato azionario italiano in questo periodo, la somma di 527 miliardi del 1985 sarebbe dovuta diventare pari a 2.535 miliardi nel 1996.

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di Marco Pagano e Carlo Scarpa

da www.lavoce.info

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