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Terra e Acqua (di Paola Carini)
7.05.2004

Nella topografia rettangolare degli Stati Uniti le riserve indiane appaiono come ritagli dai contorni improbabili. A volte piccole come un bottone appiccicato all’interno degli stati, a volte grandi come un rattoppo cucito su confini interstatali, esse sono porzioni ridottissime di ben più ampi tratti di territorio ceduti dagli indiani al governo federale attraverso 650 trattati sottoscritti dal 1787 al 1871. Nel corso dei decenni la Corte Suprema ha delineato il profilo giuridico di queste "enclave", definendo via via il complesso rapporto tra governo federale e singole tribù. Le sentenze del giudice John Marshall ne sono il caposaldo ma, sebbene in esse si riconosca la sovranità tribale all’interno delle riserve, non manca la riaffermazione dei diritti acquisiti dagli europei con la conquista del "nuovo" mondo. Marshall, nella sentenza del processo che portò davanti alla Corte Suprema la nazione Cherokee contro lo stato della Georgia (1831), stabilì che le tribù non sono soggette alle leggi dello stato in cui la riserva si trova ma che esse sono "nazioni domestiche dipendenti", per cui solamente il governo federale può esercitarvi i propri poteri. Lo stretto rapporto di dipendenza così chiaramente sancito ha, da un lato, messo al riparo le tribù da ingerenze statali di ogni tipo ma, dall’altro, le ha lasciate alla mercé del governo federale che ne è diventato a tutti gli effetti il "guardiano". Sebbene lo scopo originario fosse quello di preservare il benessere delle comunità indiane, nei decenni l’ingombrante presenza del governo federale e delle sue agenzie nelle riserve ha portato a situazioni paradossali, quando non tragiche.

Negli anni cinquanta del Novecento, quando McCarthy perseguiva chiunque fosse in sentore di comunismo, il governo federale cancellava l’esistenza di varie tribù ignorando clamorosamente gli obblighi sottoscritti nei trattati o sanciti per legge. Tra il 1954 e il 1962 più di cento tra rancherias (le riserve della California), e piccole comunità vennero spazzate via e lasciate senza più nulla. Il fine era quello di costringerne i membri a trasferirsi in aree urbane dove avrebbero assimilato lo stile di vita americano, liberando il governo federale dai costi che il ruolo di "guardiano" presupponeva, come ad esempio l’assistenza medica, per quanto carente potesse essere. In più, la terra delle riserve si ritrovava nelle uniche mani del governo federale, che poteva disporne a piacimento. Solamente recentemente alcuni di questi gruppi sono stati riconosciuti nuovamente come tribù, ma non sempre in concomitanza con la riacquisizione della terra. I klamath ne sono un esempio.

Originari della parte meridionale dell’Oregon, i klamath vennero cancellati e, con loro, due milioni di acri di terra che comprendevano una foresta di pini di 860.000 acri. Sebbene abbiano riguadagnato il loro status di tribù a livello federale, non sono ancora rientrati in possesso territorio poiché prima devono provare di essere autosufficienti economicamente. Ma per loro territorio e autosufficienza sono tutt’uno e con una mossa che ha spiazzato il Forest Service americano, il quale per quarant’anni ha gestito l’area consentendone anche il taglio estensivo, hanno proposto un piano di riqualificazione della foresta che potrebbe diventare un modello di gestione ambientale per tutta l’America. E richiamare frotte di turisti.

Ma cosa frena il ritorno delle terre ancestrali ai klamath?

L’acqua.

Il fiume Klamath, che attraversa l’Oregon e il nordovest della California, è la risorsa idrica principale di queste zone. Lungo il suo corso, che si snoda per 254 miglia, ci sono insediamenti agricoli, tribali, urbani e aree naturalistiche. Tutti vogliono l’acqua, ma non ce n’è a sufficienza per tutti. Più di 20.000 acri di terra agricola che producono principalmente cipolle, patate e rafano richiedono ingenti quantità di acqua per l’irrigazione, per cui le aree umide più a valle ne risentono istantaneamente e, con esse, la flora e la fauna. Se, nel 1999, il Fish and Wildlife Service aveva stabilito che la priorità andasse alle aree protette e poi all’agricoltura, nel 2002 l’Amministrazione Bush ha capovolto la situazione. Ora sono le fattorie ad avere a disposizione per prime tutta l’acqua che c’è, col risultato che le zone più lontane dalla sorgente come certe aree protette sono quasi a secco.

Ma la pesca, come la caccia, se è un’attività limita dalla legge per i cittadini americani, è invece un diritto garantito ai membri delle tribù nativo americane, poiché fonte di sostentamento e parte imprescindibile della vita spirituale delle comunità. I pesci sono la risorsa principale di almeno quattro gruppi tribali che vivono in prossimità del Klamath, ma se dighe e deviazioni degli affluenti hanno ulteriormente ridotto la portata del fiume e gli agricoltori ne consumano la gran parte, con la conseguenza che nei periodi siccitosi ci sono continue morie di pesci come il salmone, che ne è dei diritti dei nativo americani? E dell’acqua a cui avrebbero diritto per irrigare tutti gli acri coltivabili della riserva?

Oltretutto, se non c’è un accordo sull’uso dell’acqua del fiume non ci può essere la riappropriazione delle terre da parte dei klamath perché in quel caso la loro "autosufficienza" sarebbe minata dalla scarsità idrica.

Che fare?

Tra commissioni e perizie che ora appoggiano una ora l’altra parte, tra concessioni ad alcuni e violazioni dei diritti di altri, si profila un tavolo di trattativa a cui siederanno tutte le parti coinvolte. Ma più che una ragionevole ripartizione di una risorsa fondamentale, quel che più peserà sembra essere il declino economico del comparto agricolo, che non gode più della floridezza di un tempo. Ora il valore di tutta l’area del fiume Klamath sta nell’attrattiva turistica, e quindi nella salvaguardia delle aree naturalistiche protette e nella eventuale creazione di nuove.

L’acqua, dunque, si trova a fungere da ago bilancia in una situazione che può degenerare sia a livello sociale che economico e ambientale. Da questa decisione dipenderà il futuro delle altre 16 crisi idriche che gli Stati Uniti sanno di dover affrontare nei prossimi vent’anni. E, ancora una volta, la questione è una questione politica.

Come dice una bellissima poesia noi siamo figli dell’epoca, e l’epoca è politica, e così i nostri occhi e il colore della nostra pelle hanno una sfumatura politica ma, aggiungerei io, anche l’acqua ne ha una. E determinare di quale sfumatura politica sia fatta l’acqua dipende da come la si guarda: è un valore o una merce, è un diritto o un privilegio?

Dalla risposta dipende il futuro del mondo. Ma anche il presente di ognuno di noi.

di Paola Carini

 

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