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Buchi............. (di Paola Carini)
8.06.2004
Buchi
Nel mondo carcerario americano le prigioni dello stato di Washington pare siano un modello di tolleranza religiosa. Il regolamento interno prevede il rispetto della libertà di religione dei singoli carcerati da ottemperarsi con l’incontro dei detenuti con capi spirituali di ogni confessione e venendo incontro alle esigenze individuali che variano a seconda delle varie religioni. Per esempio pipa, tabacco, salvia, cedro e piccoli tamburi sono oggetti che i detenuti nativo americani possono portare con sé perché parte delle loro tradizioni religiose. Essi possono ottenere di consumare occasionalmente anche cibi tradizionali e, a volte, è stato concesso per scopi spirituali l’uso delle “sweat baths”, tepee in cui pietre laviche bollenti creano un ambiente simile ad una sauna. Da più di trent’anni Lenny Foster, direttore del Navajo Nation Corrections Project, gira per le prigioni di tutti gli Stati Uniti come consigliere spirituale dei detenuti nativo americani. In molte occasioni ha denunciato il non rispetto della libertà di religione sancito dal Native American Religious Freedom Act al di là delle sbarre ma, negli anni Ottanta e Novanta, in tutte le 96 prigioni che aveva visitato aveva notato la buona volontà delle amministrazioni carcerarie di permettere la pratica di riti nativo americani e lo sforzo di comprendere che non tutte le tribù hanno e praticano la stessa religione - una “sweath bath” ad esempio, non è un rito tipico dei gruppi tribali che si affacciano sulla costa pacifica, ma degli indiani delle pianure. Da qualche tempo, però, non è contento di quello che vede. Nel 2002, durante l’incontro annuale del National Congress of American Indians (NCAI), organizzazione che dal 1944 raggruppa i rappresentanti di tutti i governi tribali degli Stati Uniti e dell’Alaska, fu messo all’ordine del giorno il problema dei diritti religiosi dei detenuti nativo americani. In pochi anni una situazione che era progressivamente anche se lentamente migliorata era degenerata in maniera preoccupante. Molte associazioni a difesa dei diritti dei prigionieri nativo americani denunciavano la sistematica soppressione dei più elementari diritti civili, erosi da un capovolgimento di prospettiva inspiegabile: oggetti rituali confiscati, rotti o inspiegabilmente andati perduti per ragioni che avevano poco a che fare con la sicurezza; aumento delle molestie nei confronti di chi pratica religioni nativo americane; restrizione dell’accesso a riti di gruppo per paura che si formino “bande” di carcerati nativo americani. Per l’NCAI questo stato di cose divenne la priorità da risolvere entro il 2003, unendo il lavoro di molte organizzazioni native all’investigazione del Dipartimento di Giustizia americano, sezione Diritti Civili. Nonostante ciò, poco o nulla è cambiato. Le notizie che filtrano dalle varie carceri di Washington sono allarmanti: oltre alla proibizione e alla confisca di oggetti rituali, i trasferimenti dei carcerati che lamentano la privazione di questi diritti a sedi più lontane si fanno sempre più frequenti, col risultato che gli incontri con i famigliari sono rari se non impossibili. Chi rivendica con forza la propria libertà religiosa viene messo in “segregazione amministrativa”, ossia nel “buco”, infami e minuscole celle dove si rimane per settimane senza contatti con alcuno. Ai più fortunati vengono distribuiti piccoli involti contenenti oggetti uguali per tutti, che sarebbe come distribuire il rosario cristiano a musulmani, ebrei, indu e così via, per cercare di mantenere intatta la facciata tollerante del sistema carcerario. Ma per i detenuti nativo americani non si tratta solamente di rivendicare diritti o fare appello alla tolleranza: il ritorno a riti ancestrali con l’aiuto di consiglieri spirituali o le visite con membri tradizionali della propria tribù sono uno strumento terapeutico e di recupero eccezionale per individui che per storia e cultura non sono assimilabili agli altri prigionieri. Per molti di loro l’accesso a questo tipo di supporto spirituale in carcere significa non reiterare il reato una volta scontata la pena. Ma questa è solo la punta dell’icerberg di una situazione molto complessa che non è certo favorevole ai nativo americani né dentro né fuori le carceri. Nel luglio del 2003 la U.S. Commission on Civil Rights, l’organo indipendente di sorveglianza che si occupa di monitorare il rispetto dei diritti civili, emise un comunicato stampa intitolato “I diritti civili dei nativo americani compromessi dal governo federale”. Vi si sottolinea che gli obblighi sanciti per legge o attraverso i trattati con le tribù non sono stati ottemperati dal governo federale, in particolare si stigmatizza la decurtazione dei fondi federali diretti a sostenere e implementare la sanità, l’istruzione, lo sviluppo e l’autosufficienza economica un po’ dovunque in Indian Country. Mary Frances Berry, presidente della commissione, ricordando il trattamento ricevuto dai nativo americani – dall’espulsione dalle proprie terre d’origine e la loro confisca alla segregazione e alla forzata assimilazione alla cultura bianca americana – dichiara che le politiche federali nei loro confronti si sono risolte in violazioni dei diritti civili su larga scala. In sostanza, al gradino più basso di ogni parametro sociale, economico o sanitario ci sono i nativo americani, i cittadini americani che soffrono la povertà e la disoccupazione due volte di più di ogni altro cittadino, che hanno la più bassa aspettativa di vita e che hanno una probabilità doppia rispetto agli altri di patire la fame. Concludendo, non hanno le stesse opportunità degli altri, ma in rapporto al loro numero complessivo sono quelli che più finiscono in galera. Uno studio condotto dalla stessa commissione nello stesso anno in South Dakota riguardo al sistema giudiziario di quello stato in rapporto ai cittadini nativo americani, svela situazioni di angherie, episodi razzisti, diffidenze, disparità di trattamento anche nel caso i nativo americani siano le vittime dei crimini. Non deve quindi stupire, si legge nel rapporto, se alle opportunità negate e alle situazioni appena descritte corrisponda una sproporzionata presenza della popolazione nativo americana nelle carceri e nelle strutture minorili. La disperazione, si conclude dicendo, non è una parola abbastanza forte per designare lo stato d’animo di molti nativo americani che vivono in un ambiente a loro ostile. La situazione nel remoto stato dell’Alaska, tanto per prenderne un altro a caso, non è migliore. Accanto al fatto che i nativo americani di quella regione sono percentualmente il numero più alto delle vittime di qualsiasi tipo di crimine - dallo stupro all’omicidio – si nota che vengono condannati ed incarcerati in modo assolutamente sproporzionato, ed ancora una volta la denuncia è della commissione sui diritti civili, che non può fare altro che rendere pubblica e condannare una pratica vergognosa e suggerire agli organi preposti varie soluzioni, che vanno dall’aumento del numero di nativo americani impiegati nelle forze di polizia a un maggiore stanziamento di fondi per l’avvocatura d’ufficio. Ottimi consigli se applicati, ma comunque non risolutivi a meno che non intervenga il governo federale, l’unico a poter-dover efficacemente legiferare a favore della popolazione nativo americana. Il primo punto su cui si deve intervenire è enucleato nella conclusione dello studio della commissione sui diritti civili in South Dakota. Finché l’ambiente in cui vivono è così “ostile” da renderli disperati, finché opportunità di migliorare la propria vita con un impiego decoroso, un’istruzione degna, una sanità di qualità ed efficiente vengono sistematicamente negati, non deve sorprendere che le carceri siano affollate di nativo americani. E non sorprenda neppure se i carcerieri, ultimo anello di un sistema giudiziario che discrimina, discriminino a loro volta riempiendo i “buchi” con chi ha la pelle di un colore diverso. Forse se ci si ricordasse più spesso che non esistono le razze ma una sola razza umana, come insegnano ora anche i genetisti, certi comportamenti non avrebbero senso di esistere. Di certo se ci si ricordasse che, come diceva Dostoevskij, il grado di civiltà di una nazione si misura anche da come tratta i propri prigionieri, non saremmo spettatori di azioni inqualificabili nei confronti di nessun cittadino americano. O di nessun cittadino nel mondo. Quindi, di nessuno di noi.
Paola Carini
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