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L'ago della bilancia (di Paola Carini)
9.07.2004

Stato del South Dakota, terra dei fieri indiani sioux, terra di episodi di razzismo, violenze, angherie. Nel South Dakota c'è Pine Ridge dove povertà e alcolismo, opportunamente alimentate dalla noncuranza federale e da oculati imprenditori che vendono alcolici appena fuori i confini della riserva, si abbarbicano morbosamente alle esistenze degli indiani della riserva. Pine Ridge, un tempo Red Cloud Reservation, fino a quando il capo oglala Red Cloud (Nuvola Rossa) non venne accusato dai federali di aver aiutato sioux e cheyenne a sconfiggere clamorosamente il Colonnello George Armostrong Custer a Little Bighorn nel 1876. Pine Ridge, la riserva dove nel 1973 nacque un'organizzazione per i diritti civili come reazione alle violenze e alle molestie verso donne, vecchi, bambini. Pine Ridge, all'interno della quale Wounded Knee è il luogo simbolo di due eventi passati alla storia: il massacro di donne e bambini nel 1890 e l'occupazione di quella stessa area nel 1973 da parte di attivisti nativo americani dell'AIM, American Indian Movement, che attirò l'attenzione dell'opinione pubblica americana e mondiale sulle violazioni ripetute dei diritti civili dei nativo americani. A seguito dell'uccisione di due agenti dell'FBI laggiù, Leonard Peltier sconta l'ergastolo dopo un processo controverso. South Dakota, stato che ha eletto con un vantaggio di qualche migliaio di voti la candidata democratica Stephanie Herseth alla House of Representative, la Camera americana che, insieme al Senato, forma il Congresso degli Stati Uniti, chiamata a sostituire il repubblicano Janklow costretto a dimettersi per aver causato un incidente d'auto mortale.

L'analisi del voto ha rivelato un sorprendente e insospettabile bacino di voti democratici nelle contee con alte percentuali di votanti di discendenza nativo americana i quali, pur essendo numericamente esigui, si trovano improvvisamente ad essere essenziali. I commenti di entrambi gli schieramenti mostrano la sorpresa di una scelta elettorale per nulla scontata. Per la verità i repubblicani del South Dakota, a seguito di una precedente vittoria del candidato democratico al Senato, invece che cercare di attirare i voti nativo americani condussero in quell'occasione una campagna denigratoria proprio nei loro confronti parlando di brogli e di procedure scorrette nella registrazione al voto. Certi sbagli si pagano cari, si sa.

L'irlandese Tom Daschle, uno dei senatori democratici del South Dakota, ha invece ben presente cosa significhi vincere anche grazie ai voti delle minoranze. Strenuo sostenitore dei diritti dei nativo americani nei fatti, oltre che a parole, da parecchi anni gira il paese per ascoltare, toccare con mano, dialogare, riuscendo a convogliare milioni di dollari federali per supportare programmi tribali. Ora però le comunità native vogliono qualcosa in più poiché se, da un lato, le tematiche sono sempre le stesse - cure sanitarie e istruzione garantite, sviluppo economico serio e sostenibile - dall'altro i metodi per attuarle devono andare oltre la semplice elargizione di fondi. I nativo americani delle Great Plains, così come quelli della riserva Crow Creek o di Pine Ridge, vogliono essere interlocutori ascoltati e rispettati perché senza il loro aiuto, e il loro consenso, ogni soluzione rischia di essere un'ennesima misura tampone invece che una valida alternativa.

In risposta a questi quesiti, il team congressuale che fa capo a Daschle sta confrontandosi con le comunità sia per trovare soluzioni definitive ad annosi problemi, sia per promuovere un più ambizioso piano di sviluppo economico locale ed intertribale che trasformi definitivamente ogni forma di assistenzialismo nelle solide basi di un'imprenditoria florida e autorevole. Ciò che manca, l'ultimo tassello che gli osservatori di cose indiane ritengono indispensabile, è la partecipazione al voto dei cittadini nativo americani. È giunto il tempo in cui bisogna che i nativo americani si rendano conto che il loro voto è determinante e prezioso e che in virtù della loro posizione mediana possono far spostare l'ago della bilancia e quindi fare pressioni - il famoso lobbying - affinché la politica si metta davvero al loro servizio. I cittadini del South Dakota se ne sono accorti da tempo, ma qual'è la situazione a livello nazionale?

Il 2 novembre si voterà per la poltrona della Casa Bianca, ed entrambi gli schieramenti dovranno far fronte ad un nemico comune, l'astensionismo, che negli Stati Uniti raggiunge picchi altissimi e lascia ad una minoranza del paese il diritto-dovere di scegliere. In virtù di queste premesse saranno con tutta probabilità 16 o forse 17 gli stati in cui la partita si giocherà sul filo del rasoio, e in ognuno di questi il voto indiano rappresenta quella manciata di voti in più che farà da ago della bilancia. Nello stesso periodo si rinnoveranno anche i seggi di Camera e Senato e se adesso la prevalenza è dei repubblicani (228 seggi alla Camera contro i 205 dei democratici; 51 contro i 48 dei democratici al Senato), in alcuni stati il voto nativo americano sarà ugualmente decisivo anche per i due rami del Congresso.

Se si guarda da vicino la compagine elettorale degli stati-chiave in vista delle elezioni di novembre, si vede che nell'elettorato nativo - che in Alaska rappresenta il 16%, in New Mexico il 10,5% in Arizona il 5,7%, nel South Dakota il 5,5%, nel Michigan 1,3% e via decrescendo - sta la risposta finale che orienterà il futuro politico del paese. Ovviamente altri fattori "etnici" da noi sconosciuti (almeno finché non ci sarà diritto di voto anche per gli immigrati regolari) entreranno in gioco, ad esempio l'orientamento della comunità ispanica o di quella araba, eppure è nel voto nativo americano l'esito delle prossime elezioni americane. Kerry, democratico e oppositore di Bush, se ne è accorto, ed è l'unico candidato alle presidenziali a dedicare una sezione intera del suo vasto programma ai nativo americani. Intervistato dal National Congress of American Indians, elargisce risposte accurate che mostrano una conoscenza approfondita di Indian Country, insistendo sulla necessaria cooperazione tra governo federale e tribù in un rapporto tra pari, sulla sovranità tribale come perno di ogni futura relazione tra stati, governo federale e tribù e sulla prevenzione del crimine nelle riserve, legato a fattori quasi sempre riconducibili all'alcolismo dietro cui si cela una devastante povertà. Anche a questo Kerry risponde, proponendo (o meglio promettendo) una massiccia redistribuzione di fondi federali alle tribù in modo che i blocchi che ostacolano l'espansione economicamente sostenibile delle riserve vengano rimossi al più presto, cominciando dalle infrastrutture, dalla preparazione scolastica, dal potenziamento delle università indiane, dagli incentivi per lo sfruttamento delle fonti di energia rinnovabili di cui è ricca Indian Country (vivaddio), dai prestiti alle piccole e medie imprese nativo americane fino alle spese sanitarie che, in un paese in cui la sanità è privata e accessibile solo se si stipulano assicurazioni, Kerry intende coprire facendosene carico attraverso un sistema sanitario riformato, almeno per quel che riguarda i cittadini nativo americani.

Alla domanda se intenda onorare gli impegni che gli Stati Uniti hanno assunto nel corso dei secoli nei confronti delle tribù attraverso trattati o leggi successive - la cosiddetta "trust responsibility" - Kerry conferma illustrando attraverso gli esempi sopraccitati quel che è possibile fare da subito ma si spinge oltre, dichiarando la sua disponibilità a modificare e migliorare questa dottrina cardine consultando le comunità indiane.

Che sia musica per orecchie indiane - e non - è piuttosto chiaro. Che sia un candidato migliore dell'attuale presidente mi pare sia fuori dubbio. Che riesca, se eletto, a concretizzare almeno alcune delle idee del suo programma è un augurio che in molti gli fanno. Ma che sia responsabilità della collettività, soprattutto di quella parte che voterà per lui, di controllare che mantenga le sue promesse è - o dovrebbe diventare - un'abitudine, in modo che la democrazia sia davvero quel complesso sistema di pesi e contrappesi nel quale ogni elemento che vi partecipa non può fare a meno dell'altro. Ne va dell'equilibrio democratico della vita dello stato. E noi ne sappiamo qualcosa.

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