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Azzardi (di Paola Carini)
1.08.2004

Che slot machines e ogni forma di gioco a pagamento siano un azzardo è cosa nota. Che al casinò non si vinca quasi mai, che si perda quasi sempre e che a volte ci si riduca sul lastrico è altrettanto noto. Eppure mai il gioco d’azzardo è stato magistralmente ricoperto di una veste umanitaria come nell’ultimo decennio negli Stati Uniti.

Dal 1988, anno dell’approvazione dell’Indian Gaming Regulatory Act, più di 300 casinò sono stati costruiti e aperti su terre tribali. Dal punto di vista dei legislatori, la fruizione dei proventi di strutture come queste da parte delle tribù dovrebbe contribuire al rilancio economico ed occupazionale della riserva, oltre che a fornire i mezzi finanziari necessari per rendersi indipendenti dall’assistenza-assistenzialismo federale in materia di sanità e scuola. Negli anni i sostenitori più entusiasti, da capi tribali a professori universitari, da semplici cittadini a senatori di discendenza nativo americana, hanno lentamente ma inesorabilmente intessuto il mito del casinò tribale come panacea per risolvere l’annoso problema dell’indigenza nelle riserve. E allora si portano gli esempi più eclatanti, soprattutto delle minuscole ma attivissime tribù dello stato della California, lo stato americano che presenta il più alto numero di casinò "nativo americani". I morongo, ad esempio, si sono ricomprati il Millard canyon, area che originariamente era dei loro antenati e che la Storia coloniale, soprattutto spagnola, gli aveva sottratto. Il gruppo pechanga dei luiseno ha acquisito un grosso ranch, mentre il gruppo agua caliente dei cahuilla ha acquistato le colline circostanti, un ambiente naturale pressoché intatto; più a nord, i wintun hanno comprato migliaia di acri di terra coltivabile. Tutta questa terra non verrà lottizzata e resa edificabile, ma sarà piacevolmente usufruita dai membri tribali per quello che è, ossia terra coltivabile o wilderness in cui andare a fare escursioni, gite a cavallo o recarsi per pregare. Inoltre, per i più fortunati, gli introiti sono ampiamente sufficienti per ristrutturare edifici pubblici e privati, creare infrastrutture, garantire servizi essenziali. Mai denaro frutto di vizio è stato meglio reinvestito e speso. Ma siccome la virtù si dice stia nel mezzo, è meglio soppesare i pro e contro e verificare se essa sbilanci. Non si sa mai.

La complessità della situazione da un punto di vista sia legislativo che finanziario non permette una semplice analisi, ma genera inevitabilmente altre domande. La prima e più ovvia riguarda la proprietà: chi possiede effettivamente i casinò? Di solito chi indiano non è, come il milionario malese Lim Goh Tong che si cela dietro il casinò Foxwood, in Connecticut, il quale elargisce una percentuale degli introiti alla tribù da cui ha "preso in prestito" la terra per costruirlo. Dell’introito totale solo una parte va quindi alla tribù, al netto di tutte le spese "aggiuntive" come i tributi che gli stati in cui è situata la riserva avanzano come richiesta sine qua non, ad esempio la percentuale sui proventi delle slot machines. L’inaccuratezza della legge nello specificare se gli stati possano o meno tassare le tribù indiane per i loro casinò ha creato una situazione in cui il casinò indiano è diventato una mucca da mungere, ha dichiarato Brenda Soulliere, presidente della California Nations Indian Gaming Association. Intanto i magnati stranieri che decidono di investire in questo business non sono tenuti a versare gran parte delle tasse americane, con un risparmio indubbiamente consistente.

Il secondo punto scottante è la ripartizione degli introiti. Più membri ci sono, meno grossa è la fetta della torta, meno soldi ci sono a disposizione della comunità. In effetti l’equazione casinò = benessere funziona per gruppi poco numerosi, come appunto le 52 tribù della California che si sono gettate nell’impresa del gioco d’azzardo. Ma anche in questi casi i problemi abbondano, come la protesta del 16 luglio scorso ha dimostrato anche al neo-governatore Schwarzenegger. In quell’occasione parecchie centinaia di nativo americani appartenenti a nove gruppi tribali californiani hanno dato voce alla loro insoddisfazione per essere stati improvvisamente privati del loro status di membri. Sebbene sia una questione che il governo federale attraverso agenzie come il Bureau of Indian Affairs (BIA) deve dirimere, l’argomento non può non coinvolgere anche lo stato ai suoi massimi livelli. Tra perizie sul DNA presentate alle tribù e il quantum di sangue indiano necessario perché il BIA consideri un individuo di discendenza nativo americana, la battaglia prosegue. E se è vero che individui di discendenza non-indiana si sono spacciati tali le rare volte in cui l’essere indiano comportava anche avere benefici economici – penso alle royalties dell’estrazione del petrolio, ad esempio – è indubbio che il numero degli esclusi sia a dir poco sospetto per essere solamente riconducibile all’intramontabile vizio dell’avidità umana, soprattutto se comparato alle dimensioni esigue di ciascuna delle tribù.

Poi ci sono le tribù che hanno scelto tutt’altra strada per migliorare le proprie condizioni, come gli hoopa, la cui riserva giace nelle Klamath Mountains della California e, forte della produzione di legname e di un’oculata gestione delle risorse e delle finanze, è una tra le poche a godere di una situazione sociale in netto e costante miglioramento. Imprescindibile per gli hoopa è il mantenimento di usi e costumi tradizionali, cosa che sarebbe ardua con la costruzione di un casinò e del flusso turistico conseguente.

In realtà, anche quando funziona a dovere, il meccanismo casinò = posti di lavoro e introiti (che suona un po’ come ipermercato = posti di lavoro e ricadute economiche per tutti, sic) secondo gli esperti che hanno partecipato al Harvard Project on American Indian Economic Development non è un affare che alla lunga premia, perché non crea una vera occupazione e non attrae investitori. Si dovrebbe invece incoraggiare – con l’adeguata legislazione – la creazione di imprese piccole e medie create e gestite dai membri tribali, con un occhio alla salvaguardia dell’ambiente (ottima attrazione turistica). Gi hoopa insegnano: la gestione tribale si articola in 60 "dipartimenti", quasi esclusivamente gestiti da membri tribali; i giovani possono permettersi l’università e tornano certi di trovare un impiego nella riserva; tutti possono pescare, cacciare e pregare nelle terre ancestrali che occupano da almeno 10.000 anni; la cultura è trasmessa e preservata, l’identità salva.

Se capitate in California, dalle parti delle Klamath Mountains, fate un salto nella Hoopa Valley. Potrete far spesa nei negozi locali, ascoltare la radio o leggere il giornale del posto. C’è un efficientissimo ospedale se la salita vi ha dato il mal d’auto e una foresta incantevole che solo a vederla rigenera. Un vero paradiso. Senza bisogno di fiches.

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