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Prodi: contro l'odio integralista ascoltiamo l'Islam moderato
1.09.2004

Il presidente della Commissione Ue sull'emergenza terrorismo e spiega il programma per battere Silvio Berlusconi - di ANDREA BONANNI - da Repubblica.it

"La sfida del terrorismo sta diventando sempre più terribile, sempre più invadente, sempre più mirata a colpire i gangli vitali delle nostre società. C'è un'onda lunga di odio che non si acquieterà facilmente. Dobbiamo esserne consapevoli. E tuttavia questi ultimi atti di una ferocia inaudita, e le reazioni unanimi di sdegno che hanno provocato anche nel mondo islamico, credo siano un segnale che il terrorismo fondamentalista non riesce a trovare le stesse sponde di prima neppure nell'integralismo religioso e sempre di più sono le voci contrarie che si levano dal mondo arabo. Una ragione in più per elaborare politiche capaci di cogliere queste diversità".

Così ragiona Romano Prodi negli ultimi scorci di vacanza, prima della ripresa autunnale. Un modo di ragionare, partendo da un fatto specifico e concreto per cercare di inserirlo in un quadro più generale, che gli ha fatto compagnia per tutta l'estate, durante la quale il Professore ha lavorato a raccogliere gli spunti, le idee e le persone per dare forma al programma con cui sfiderà il governo Berlusconi. E con cui sogna di cambiare l'Italia.

"Ma nessun programma si può preparare a tavolino. Non si costruisce in un giorno. Né lo può fare una persona sola. Il mio compito è dare la consapevolezza della sfida decisiva e mortale che il Paese ha davanti, e chiamare in aiuto tutti quelli che possono portare un contributo nei vari settori. Occorre mobilitare tutte le risorse e le forze disponibili per far fronte alla trasformazione straordinaria che il mondo sta vivendo".

Non sono però queste le note che arrivano dal resto del mondo politico. Né dalle forze del centro sinistra. Questa estate italiana si sta consumando tra distinguo e polemiche, tra richiami alle proprie radici ideologiche e riscoperta delle vecchie bandiere. Musica che stona agli orecchi del Professore.

"Stiamo sottovalutando i cambiamenti del mondo. E stiamo sottovalutando lo sforzo che sarà necessario per adeguarvisi. Invece scorgo una preoccupante tendenza a concentrarsi sul proprio ombelico. A perdersi in disquisizioni ideologiche o pseudo-ideologiche. A guardare al nostro passato, ai mille distinguo della nostra storia, invece che al nostro futuro. E' inutile. Ed è un elemento di divisione in un momento in cui dobbiamo invece misurarci su problemi concreti e su come invertire il nostro processo di decadenza iniettando energie nuove al Paese".

Vuol dire che occorre superare le distinzioni tra destra e sinistra?

"Parlare di destra e di sinistra di fronte al problema della pace e della guerra, o della redistribuzione del reddito, ha ancora un grande senso. Soprattutto quando le tensioni internazionali sono così forti e le differenze di reddito aumentano pericolosamente. Ma vorrei anche ricordare che si fa politica perché si ha una idea precisa della società futura. La politica, quella che mi interessa, è progetto. Non si fa politica guardando al passato. Il passato troppo spesso diventa una scusa perché non si vuole affrontare la durezza e il sacrificio del cambiamento".

Quale cambiamento?

"Tutti noi per anni abbiamo sognato che il mondo si svegliasse. Adesso metà dell'umanità, dalla Cina all'India, si è svegliata per davvero. E noi restiamo quasi impietriti. Il nostro sforzo deve essere invece quello di cogliere gli aspetti positivi del fenomeno. Prendiamo come esempio la questione del prezzo del petrolio, della crisi energetica. E' inutile stare a rincorrere le previsioni sulle quotazioni: potranno anche scendere un poco, ma è chiaro che dobbiamo adeguarci ad un mondo che avrà costi energetici più elevati e dobbiamo orientare la nostra economia verso risorse energetiche alternative. La crescita dell'Asia non ne fa solo un concorrente sul piano commerciale, ma anche sul mercato delle risorse naturali: dall'aria al petrolio. Piangere non serve. Dobbiamo riorganizzare la nostra economia adeguandola alla nuova situazione".

Situazione che però diventa sempre più difficile...

"Non è detto. La crescita economica cinese non è solo un rischio: è una grande opportunità. Pechino non vuole destabilizzare l'economia mondiale accumulando attivi nella bilancia commerciale. La Cina è troppo grande e politicamente avvertita: i suoi governanti vogliono una bilancia in pareggio. Ma il pareggio della bilancia commerciale cinese non significa automaticamente il pareggio della nostra: in questa corsa ai mercati asiatici c'è ci vince e chi perde. E l'Italia sta perdendo terreno, anche di fronte a Francia e Germania che hanno costi del lavoro ben più alti del nostro".

E allora?

"Allora occorre rinnovare la struttura produttiva. Non solo finanziando la ricerca e lo sviluppo, ma anche incentivando la nascita di nuove imprese.

Dobbiamo puntare sulla nuova generazione, quelle della fascia dai 23 ai 35 anni, perché sviluppi capacità imprenditoriali e contribuisca a creare ricchezza. Non è facile supplire alla mancanza di grandi imprese. Ma almeno possiamo accelerare il dinamismo delle imprese che nascono. E per questo occorre mobilitare tutte le risorse disponibili: dalla scuola al credito. Il nostro obiettivo deve essere un grande sforzo comune per diminuire il tasso di paura che il Paese nutre verso il futuro: una paura sbagliata. Solo così potremo fare una politica efficace. La crescita asiatica, per esempio, riporta il Mediterraneo al centro del mondo. Ed è una straordinaria opportunità per lo sviluppo del nostro Mezzogiorno. Non si può tardare a mobilitare il Paese quando un obiettivo di questa portata è reso finalmente accessibile dai cambiamenti della storia. E noi non ce ne vogliamo accorgere".

Torniamo al programma, dunque...

"Ma il problema è proprio questo. Affrontare una situazione del genere con una politica di conservazione e di richiamo al passato è pura follia. Occorre un programma nuovo, originale, profondo, che rinnovi tutto quello che deve essere rinnovato senza stare a preoccuparsi della percentuale di quello che possiamo o non possiamo tenere delle riforme del vecchio governo. Dobbiamo avere una partecipazione vastissima alla costruzione del programma. La gente deve capire che porta un contributo al futuro, senza restare prigioniera delle vecchie diatribe. Il cambiamento del mondo si affronta solo cambiando noi stessi. Non serve a nulla appellarci al passato, dobbiamo guardare avanti"

Un programma senza ideologie, allora?

"Il che però non significa senza principi. L'aumento delle differenze e delle ingiustizie che si è verificato in questi anni, per esempio, va assolutamente corretto. Ma occorre mobilitare tutte le risorse e, in questo senso, bisogna superare le ideologie tradizionali per far fronte alla trasformazione. Più che di ideologia, di destra e di sinistra, io parlerei di princìpi. Occorre un grande dibattito sul contenuto etico della vita del Paese. Ogni riforma, da quella del Mezzogiorno a quella della Giustizia, ha bisogno di grandi princìpi etici. Ma un'etica rivolta al futuro. Il passato deve essere uno stimolo, non una bandiera. Di vecchie bandiere non abbiamo bisogno".

Sta chiedendo ai partiti del centro sinistra di rinunciare alle proprie radici?

"No. Le tradizioni sono importanti, legittime, doverose. Ma non devono farci perdere di vista che il vero compito è questo: affrontare il futuro. Non possiamo distrarci rispetto ai problemi reali del Paese. Gli italiani ci giudicheranno sulle proposte concrete, e sulle soluzioni che sapremo indicare. Il programma deve tradurre in tutti i capitoli della vita pubblica questo grande obiettivo: far fronte ai cambiamenti della società in un quadro di maggiore equità e giustizia. Non mi stancherò mai di sottolineare la necessità di solidarietà e di giustizia, ma messe in pratica con strumenti che non sono più quelli di dieci anni fa".

Col rischio però di trovarsi di fronte a ricette diverse...

"E' naturale. E ne discuteremo nei prossimi mesi in modo non ideologico, fino a trovare una posizione comune. Ma l'elemento unificante deve essere quello di un'etica civile, sia nella legislazione sia nella sua applicazione: cioè proprio quello che è mancato a questo governo. La nostra società può ricomporsi solo su un alto contenuto etico. Oggi questo è l'unico collante che può tenere insieme il Paese. Cominciamo a lavorare subito, prima che sia troppo tardi".

 (1 settembre 2004)

da www.repubblica.it 

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