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Confini di Paola Carini
1.09.2004

Confini: naturali, politici, geo-politici – il mondo intero è fatto di confini che gli uomini (quasi sempre gli uomini, quasi mai le donne) hanno creato inchiostrando il pianeta di linee immaginarie tracciate per convenzione, opportunità, vicende pregresse. I confini sono delimitazioni e demarcazioni, con quel piccolo prefisso de- che segnala, inequivocabile e inappellabile, restrizioni, esclusioni, limitazioni: chi è dentro è conosciuto, simile e amico; chi sta fuori è estraneo, diverso e nemico. Foresto, direbbe Marco Paolini.

I confini sono righe sottili e ondivaghe che travalicano la geo-politica, scavalcano le montagne, guadano i corsi d’acqua e solcano i mari insinuandosi melliflui nelle menti e nelle coscienze. I confini sono lenti tutt’altro che convergenti che non permettono di guardare i dettagli del mondo che sta intorno, così chi è dentro riduce e riconduce tutto a sé, si arrocca e si difende. È una questione di lenti.

Sul monte Dzil Nchaa Si An, il monte Graham, in Arizona, c’è il fior fiore di tutte le lenti: il polo di osservazione astronomica più attrezzato del mondo. Sono due i telescopi installati sulla sommità ma il terzo, quello che costa 120 milioni di dollari, promette faville. Sarà lui ad avere l’occhio più fino del mondo per guardare oltre il mondo stesso, dicono gli scienziati dell’Università dell’Arizona, dell’Osservatorio di Arcetri, della Specola Vaticana, di un consorzio astronomico tedesco e di una serie di altre università americane, partners in questo progetto. Certo, nemmeno gli altri due già costruiti, quello di proprietà del Vaticano e l’Heinrich Hertz Submillimeter Telescope, scherzano. Tutti e tre sono nati per proiettarsi sull’universo e per scrutarne l’incommensurabile, non certo per osservare il microcosmo sul nostro pianeta. È una questione di lenti.

Il monte Dzil Nchaa Si An è sacro per parecchie tribù dell’area, principalmente per gli apache. Quel luogo ha la stessa sacralità di una chiesa, di una moschea, di una sinagoga, di una pagoda; ci si va per pregare e per essere ascoltati dai propri dèi; ci si va per riconnettere i fili della propria spiritualità e della propria interiorità come accade in ogni altro tempio edificato dalla mano degli esseri umani. Ma l’opposizione alla costruzione dell’osservatorio da parte di gruppi tribali e di associazioni ecologiste – dato che l’area è la casa di una specie autoctona di scoiattolo americano in via d’estinzione – non ha trovato ascolto nemmeno in tribunale, nonostante le 40 cause. I confini tra scienza e religione, scienza ed ecologia e, cosa ancor più eclatante, tra religione cattolica e religione non-cristiana stabiliti dagli scienziati e dai loro committenti sono stati giudicati invalicabili, impenetrabili, intoccabili. Essi circoscrivono il territorio della scienza e della sua incontrovertibilità, il territorio della cristianità e della sua verità universale. Non è solo e semplicemente una questione che indica "l’Altro" come "altro da sé", è una questione di fili spinati, di recinzioni reticolate e di offendicula predisposti dove finisce il territorio "dentro" e inizia il territorio "fuori". Quello foresto, per l’appunto.

Nella travagliata Storia americana niente come la scolarizzazione degli indiani d’America ha esplicitato la contrapposizione allo sconosciuto e all’estraneo in maniera più drammatica. Per secoli l’istruzione dei nativo americani ha avuto due presupposti basilari: assimilazione e acculturazione. La piccola a- , di per sé prefisso che indica avvicinamento, non tragga però in inganno: era razzismo mascherato da bonomia, era genocidio (nell’esatta accezione stabilita dalle Nazioni Unite) camuffato da filantropia. Dalla fine dell’Ottocento fino a pochi decenni fa più di 100.000 bambini sono stati sistematicamente sottratti alle loro famiglie per "uccidere l’indiano che c’era in loro e salvare l’uomo", e si deve al capitano dell’esercito statunitense Richard H. Pratt la paternità sia della dichiarazione che della prima scuola per indiani costruita e gestita come una prigione, la Carlisle Indian School.

Le Indian boarding schools, i collegi per ragazzi e ragazze indiani, erano il luogo in cui si "educavano" i bambini indiani. Che fossero missionari protestanti, francescani o gesuiti, il comune obiettivo era quello di crisitianizzare e, quindi, di "civilizzare" i nativo americani con una rete di scuole dentro e fuori le riserve, sistema poi istituzionalizzato dal governo federale. Era una scolarizzazione coatta, che seguiva l’allontanamento forzato dalla famiglia e dalla tribù, dove la violenza fisica, verbale e psicologica veniva esercitata con l’unico scopo di recidere ogni tipo di legame - tribale, famigliare, culturale e linguistico.

Nel 1928 apparve il Meriam Report, dal nome del professor Lewis Meriam che presiedette la commissione che esaminò la condizione dei nativo americani negli Stati Uniti. Nel capitolo dedicato all’istruzione si denunciano sia le condizioni materiali sia l’approccio didattico delle boarding schools. L’alimentazione e la situazione igienico-sanitaria generale erano così carenti da contribuire alla diffusione di malattie; i bambini venivano costretti ad ingoiare barre di sapone se parlavano la loro lingua e venivano fatti lavorare nei campi o presso famiglie benestanti. Fino allo scoppio della guerra, il Bureau of Indian Affairs cercò di riorganizzare l’istruzione nativo americana; il programma scolastico cominciò a comprendere testi bilingue e materie pertinenti alla cultura di provenienza degli scolari; alcune scuole vennero chiuse. Poi tutto si inabissò fino agli anni Sessanta, gli anni della contestazione e dei diritti civili. Oggi si è giunti ad avere un corpus di insegnanti nativo americani ad ogni livello scolastico e universitario, i professionisti nativo americani figurano in ogni campo, ma il tragico retaggio dei quei collegi è ancora così devastante da aver sollecitato anche l’attenzione di Amnesty International. Le testimonianze raccolte da Amnesty e da altre organizzazioni vanno dalla denuncia di abusi all’accertamento che le conseguenze del trauma si ripercuotono nelle comunità indiane di generazione in generazione - sono gli effetti a catena della violenza ai danni di minori che psicologi e psichiatri conoscono bene.

Le condizioni che hanno permesso la violazione dei diritti umani in quelle circostanze proliferano in tutto il mondo. Finché ci si ostina a non guardare per non voler vedere la diversità che sta fuori, a non uscire per esaminarla meglio e conoscerla, delle carrette del mare sembreranno gigantesche e minacciose corazzate anziché relitti con a bordo un’umanità devastata nell’anima e nel corpo e sfruttata da contrabbandieri di esseri umani.

Se la paura e la protervia continueranno ad essere sentinelle ai confini, lo scontro sostituirà l’incontro e il confronto a detrimento di chi sta fuori - che continuerà a cercare di venire dentro - ma, inevitabilmente, anche di chi sta già dentro, perché paura e protervia alla lunga implodono.

E poi ricordiamoci che ora siamo noi quelli "fuori" per una buona fetta del sud politico e geografico del mondo; per loro i foresti siamo noi. Auguriamoci quindi che chi sta di guardia a quei confini scelga di vedere con lenti migliori delle nostre, migliori di quelle del più grande binocolo astronomico in fase di ultimazione su Mount Graham. Perché se lo si considera limitatamente al suo essere estraneo e diverso, il foresto finisce inevitabilmente per essere anche nemico. È tutta una questione di lenti.

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