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Il Caucaso è l’Iraq di Vladimir Putin - intervista a Volcic
3.09.2004

«Per Vladimir Putin il Caucaso è ciò che per George W. Bush è oggi l’Iraq: un pantano insanguinato da cui è molto difficile uscire indenni. Così come il presidente Usa, anche il leader del Cremlino non ha una strategia di uscita né militare né tanto meno politica». A sostenerlo è Demetrio Volcic, tra i più autorevoli analisti del «pianeta russo».

L’attenzione internazionale è rivolta alla drammatica vicenda della presa in ostaggio di centinaia di bambini in Ossezia del Nord. Come può essere letta questa vicenda in rapporto alla strategia antiterrorismo portata avanti da Vladimir Putin?

«Evidentemente non è stata inventata ancora una strategia vincente contro il terrorismo; la rivolta cecena dura da molti anni ed è cresciuta, si è rafforzata e a cambiato di tono: da una rivolta nazionale è diventata qualcosa di diverso ma soprattutto ha acquisito questa forma di estremismo islamico e dunque anche è stata copiata in questo contesto la strategia degli estremisti islamici. Pertanto oggi possiamo dire che il modo di combattere dei ceceni, la loro guerriglia oggi è divenuta praticamente uguale a quella che usano Bin Laden e i suoi alleati. Putin controlla un territorio enorme e certamente non ha a disposizione i mezzi sofisticati per opporsi a questo tipo di azione. Tanto è vero che i ceceni non hanno scelto per agire il territorio ceceno, che in occasione delle elezioni è stato abbastanza controllato da vicino, ma sono andati pochi chilometri più in là esportando verso il Caucaso del nord l’insicurezza e problemi aggiuntivi a quelli, già esplosivi, che esistono in quella zona: sappiamo, ad esempio, che la Georgia attraversa un momento difficile con tre rivolte in poco tempo. Putin fa quello che può ma evidentemente non ha i mezzi sofisticati di cui dispone l’Occidente».

Ma era inevitabile questa «alqaedizzazione» della guerriglia nazionalista cecena?

«Questo atto terroristico segue di pochi giorni le elezioni presidenziali in Cecenia; elezioni finte, in cui Putin ha messo il suo uomo a comandare la Cecenia e chi è contro di lui vuole dire "non ci sto". E lo fa con gli strumenti della lotta armata e del terrore».

Esiste, anche alla luce di questo riesplodere del terrorismo, una soluzione militare alla crisi caucasica?

«Probabilmente non esiste una soluzione militare ma quello che è peggio non esiste neanche una soluzione politica in quanto i russi si trovano nel Caucaso un po’ come gli americani in Iraq: senza una strategia di uscita e nello stesso tempo non hanno l’ interlocutore, perché qualsiasi interlocutore si scelgono questi non controlla la situazione sul terreno; pertanto manca il partner con cui trovare una soluzione politica. Putin sperava di trovarla con queste elezioni un po’ fittizie ma evidentemente si è dimostrato un errore di valutazione. Queste elezioni-farsa hanno accelerato la rivolta. Quando i ceceni si opponevano ai russi nelle battaglie frontali perdevano, avevano molti morti; adesso hanno scoperto la strategia nuova, propria del network terrorista di Al Qaeda e dei gruppi radicali mediorientali, e dunque sono molto più pericolosi e difficili da affrontare. Le avvisaglie di questo salto di qualità del terrorismo ceceno già si erano manifestate nel recente passato - gli attacchi al teatro di Mosca, ai cinema, ai palazzi, alle stazioni della metropolitana - ma gli eventi di questi giorni (oltre 110 morti in quattro attentati succedutisi negli ultimi nove giorni, ndr.) testimoniano, nel loro devastante susseguirsi, una ulteriore escalation del terrore islamico-nazionalista».

Quale analogia, anche di immagine, è possibile operare tra il Caucaso e l’Iraq del post-Saddam?

«L’immagine più calzante è quella di un "pantano". Di un "pantano" insanguinato dal quale sarà estremamente difficile uscire indenni. Io non so chi potrà aiutare Putin: controllare militarmente un territorio enorme come è quello della Federazione russa è impresa improba. La Russia ha 82 entità amministrative, pertanto da qualsiasi parte può succedere qualcosa che può essere legato alla questione cecena o ad altro».

C’è chi sostiene che l’Europa abbia aiutato Vladimir Putin a sbagliare, coprendone il pugno di ferro.

«L’Europa ha avuto paura di bruciarsi nell’"inferno caucasico". D’altro canto va anche detto che Putin non può avere una politica caucasica in quanto tutte le contraddizioni della guerra fredda, compreso il petrolio che scorre sotto le questioni irredentiste, sono in stato endemico, compreso il territorio del Nagorno-Karabach. Lì basterebbe veramente poco per riaccendere un altro focolaio di tensioni molto, molto forte. L’Europa si è sempre mantenuta a una certa distanza, favorendo quei Paesi che dimostravano un po’ più di voglia di democrazia, mandando ispezioni delle elezioni, facendo opera di monitoraggio dei processi di democratizzazione, accogliendo questi Paesi nel Consiglio d’Europa, ma non nell’Unione Europea, come scuola di allenamento per la democrazia. L’Europa ha svolto questo tipo di ruolo senza inserirsi attivamente negli scontri che potenzialmente sono almeno quattro-cinque estremamente pericolosi nella zona"

da www.unita.it

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