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La doppia età del capitalismo di ALESSANDRO PENATI
11.09.2004

In America è "giovane imprenditore" chi ha messo in piedi un'azienda in pochi anni. In Italia, è invece un giovane che l'ha ereditata. L'organizzazione confindustriale dei Giovani Imprenditori ha avuto sette presidenti negli ultimi vent'anni. L'età media delle loro aziende di famiglia è di 70 anni: la più vecchia (Riello) è stata fondata nel 1920; la più giovane (Marcegaglia) nel 1959; quella dell'attuale presidente (Artoni) risale al 1933.

Non è solo una nota di costume, ma il segnale di uno dei problemi del nostro capitalismo: la sindrome del controllo. L'obiettivo prioritario degli imprenditori sembra sia la preservazione del controllo proprietario, che diventa un bene da valorizzare, tutelare, e trasmettere di padre in figlio. Per questo le imprese italiane preferiscono non quotarsi: in Borsa ci sono appena 217 società, quante dieci anni fa. Troppo spesso la quotazione serve all'imprenditore solo per fare liquidità, collocando quote di minoranza. Rari i casi di società che, dopo lo sbarco iniziale, ritornano a Piazza Affari per raccogliere le risorse necessarie alla crescita: si rischierebbe di diluire il controllo.

Più frequenti sono gli aumenti di capitale legati a operazioni di ristrutturazione.

E quando i soldi per il controllo non bastano, si ricorre all'ingegneria finanziaria (le piramidi di holding) o al diritto.

In Borsa, una società quotata su tre è governata da un patto di sindacato (considerando anche i patti delle società non quotate, funzionali al controllo delle quotate). Dieci anni fa era una su sei. E l'84% delle società sono controllate, di fatto o di diritto, da un azionista di riferimento. Il controllo si cede solo se il patriarca muore e non ci sono eredi (o ce ne sono troppi e litigiosi), o se l'azienda va in crisi.

La ragione di questa situazione va cercata nei benefici privati del controllo: vantaggi che non sono condivisi dagli altri azionisti, che pure detengono diritti legali (le azioni) identici. Fenomeno noto in Italia come legge di Cuccia: "le azioni non si contano, si pesano". I benefici privati del controllo esistono ovunque, ma da noi sono più consistenti che altrove: diversi studi stimano che il premio di controllo raggiunga il 25-30% nel nostro Paese; ma è meno del 2% in Usa e Gran Bretagna, e circa il 10% in Francia e Germania. Se la stima sembrasse eccessiva, si pensi a quanto Tronchetti Provera ha sborsato per il controllo di Telecom Italia (inizialmente ha pagato le azioni Olivetti quasi il doppio dei prezzi medi di Borsa); o Ligresti per Fondiaria (60% in più), o gli azionisti Rcs per la quota di Gemina (oltre 30% di premio).

Ovunque le aziende nascono familiari. Ma nei paesi dove il mercato dei capitali è sviluppato, arriva un momento in cui i potenziali vantaggi della crescita superano i benefici privati del controllo. In quel momento la famiglia sceglie di aprirsi ad altri azionisti (col venture capital e in borsa); poi accetta di scendere in minoranza per raccogliere capitali esterni, e lascia la gestione al management. In Italia, questo momento sembra non arrivare mai.

I benefici privati sono difficili da quantificare: anche per questo valgono tanto. Ci sono la visibilità e il prestigio conferiti dalla posizione di imprenditore. La possibilità di prendere decisioni che non aumentano necessariamente il valore dell'impresa, ma sono vantaggiose per sé e la propria famiglia: ad esempio, coinvolgere figli e parenti nella gestione, anche se meno capaci di manager e amministratori esterni; sponsorizzare coi soldi dell'azienda iniziative sportive o culturali dalle quali l'imprenditore ricava un beneficio di immagine; usare un corporate jet invece dei voli di linea. Il controllo di un'impresa, inoltre, comporta inevitabilmente un bagaglio di relazioni e informazioni che l'imprenditore può sfruttare a vantaggio proprio, o di altre società delle quali è azionista di riferimento. Inoltre si possono compiere operazioni fuori mercato tra società che si rifanno allo stesso gruppo. Così gli imprenditori italiani tendono ad operare più come finanzieri che industriali, investendo nei settori più disparati; ma particolarmente in quelli dove relazioni e visibilità valgono di più: media, finanza, calcio e immobili.

I benefici privati del controllo non violano leggi e regolamenti ma riducono l'efficienza economica. Sono un freno allo sviluppo del mercato dei capitali (abbiamo una Borsa asfittica). Tendono a mantenere la dimensione delle  imprese al di sotto di quella necessaria per competere nei mercati internazionali (il ben noto nanismo nostrano). Disincentivano gli investimenti nei settori che richiedono molti capitali (e diluirebbero il controllo), ma privilegiano quelli dove è possibile fare ampio ricorso al debito grazie a flussi stabili di ricavi: ecco perché i nostri imprenditori sono usciti da chimica, farmaceutica, tecnologia e grande distribuzione per correre ad accaparrarsi autostrade, telefoni, aeroporti, elettricità. Impediscono la formazione di una classe di manager: quei pochi che abbiamo provengono dalla consulenza, dalle aziende  straniere, o da quelle di stato. Abbassano la trasparenza del sistema finanziario, favorendo la costituzione di holding, le operazioni tra società dello stesso gruppo, e il ricorso al credito bancario (meglio negoziare con una banca conosciuta che ottemperare alle rigide scadenze delle obbligazioni o avere le società di rating in casa).

Nel sito internet, i Giovani Imprenditori dichiarano che la loro "vision" è di "contribuire a creare un nuovo modello di capitalismo". Se chiedessero alla famiglia un collocamento in Borsa, e si facessero liquidare la propria quota per creare una nuova impresa (magari con l'aiuto di capitali esterni), ci riuscirebbero. A costo di perdere qualche beneficio, ma ci riuscirebbero.

www.repubblica.it

 

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