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Le strategie di Bertinotti
12.09.2004

STRATEGIE. RIFARE IL PARTITO, AFFONDARE I PARTITINI, DIVENTARE LA SECONDA GAMBA DEL CENTROSINISTRA

Bertinotti vuol fare il Blair dell'estrema sinistra

Quando hai ripudiato un secolo di comunismo realizzato e hai rottamato il mito della presa del Palazzo per sostituirlo con la pratica della nonviolenza, non è certo la bufera intorno a un vertice bipartisan che può trovarti spiazzato.

Fausto Bertinotti sa bene come funzionano certe cose a casa propria Rifondazione) e dintorni (movimenti e partitini della sinistra ulivista). Spiega ai suoi collaboratori di aver imparato che in questi casi gli indignati si dividono fondamentalmente in due categorie: gli «sciacalli» e i «cretini». I primi sono quelli che vogliono lucrare politicamente, che sperano di occupare tutti gli spazi rimasti (in teoria) liberi dopo uno scarto. Sui «cretini», basta la definizione, non c'è altro da aggiungere. Ma stavolta Bertinotti è convinto che non sia questa la categoria maggioritaria.

Alle critiche degli uni e degli altri ha replicato ieri senza spostarsi di linea sulla necessità di sospendere la richiesta di ritiro delle truppe italiane dall'Iraq. Ha risposto a Luca Casarini («Finora io non ho neanche collaborato strettamente con qualche ministro, come ha invece fatto chi mi accusa», ha detto ricordando che il leader dei Disobbedienti del nord-est è stato consulente del ministro Livia Turco durante il governo del centrosinistra), ha espresso disgusto per una vignetta di Vauro sul Manifesto («Non merita risposta») e ha spiegato che, nonostante dal governo lo divida tutto, sarebbe disposto «a fare un accordo anche con il diavolo pur di salvare gli ostaggi».

Dice insomma Bertinotti che a motivare la sua presa di posizione c'è una evidenza quasi pre-politca, che non può sfuggire ad alcuno: occorre salvare le ragazze, a qualunque costo, tanto più che non c'è da rinnegare niente del giudizio su guerra e occupazione americana. Ma è chiaro che, oltre tale evidenza, questa vicenda è destinata a diventare uno dei passaggi cruciali della strategia politica bertinottiana. A differenza di ciò che pensano quanti lo danno già titolare di portafoglio, il segretario del Prc non ha alcuna intenzione di fare il ministro (e ieri lo ha ribadito). Il primo obiettivo, casomai, è farsi un partito tutto suo. Al prossimo congresso, che si celebrerà probabilmente in gennaio, Bertinotti non solo non cederà la mano, come a un certo punto sembrava probabile dopo la sua elezione a presidente del Partito della sinistra europea, ma punta a ottenere una solida maggioranza autonoma intorno alla sua mozione, per non dover più dipendere come adesso dall'appoggio della minoranza ex cossuttiana (l'area dell'Ernesto guidata da Claudio Grassi) e di parte della sinistra trotzkista (guidata dal vicedirettore di Liberazione Salvatore Cannavò), che in queste ore lo stanno attaccando sia per la questione degli ostaggi sia per la «svolta governista». Per riuscire nell'impresa Bertinotti ha intenzione di rivoltare il partito come un calzino, sottrarlo alle logiche di fazione (negli ultimi mesi ha commissariato per questo una intera regione, la Calabria, cosa mai accaduta prima nel Prc, e ha rovesciato la maggioranza grassiana alla federazione di Milano), tirarlo fuori dal ghetto postcomunista aprendo ulteriormente a movimenti e associazioni e rinsaldando l'asse con la Fiom di Gianni Rinaldini, col quale le relazioni sono in costante crescita (due giorni fa il comitato centrale del sindacato dei metalmeccanici ha votato un odg sull'Iraq in sintonia con le tesi del subcomandante). 

Tutto questo per arrivare dove? Al governo, certo. Ma con obiettivi ben diversi dalla prima esperienza ulivista. Come è noto, Bertinotti punta alla creazione di una sinistra alternativa che si affianchi a quella riformista con rapporti di forza non troppo squilibrati. Ma per arrivare allo scopo è indispensabile la semplificazione del quadro politico: i riformisti da un parte, i radicali dall'altra. Tutto quello che sta in mezzo, i partitini rosso-verdi in primis, rappresenta un ostacolo, non foss'altro perché, per ragioni di sopravvivenza, queste formazioni hanno tutto l'interessa a replicare a oltranza il vecchio schema del 1996 (Ulivo più Rifondazione). Per questo Bertinotti gioca costantemente a scavalcarle, provocarle, scartarle: per inchiodarle alla loro «residualità». Se non per merito, almeno per metodo si potrebbe parlare di blairismo applicato all'estrema sinistra.

Poi, certo, c'è la questione del nome e del simbolo. Nemmeno sotto tortura il leader di Rifondazione ammetterebbe di pensare a cambiarli, ma sui tempi medi, in vista della creazione del nuovo soggetto plurale antagonista, considera il passaggio inevitabile, soprattutto perché questa è la richiesta che portano in dote le nuove generazioni. La cosa è inspiegabilmente passata sotto silenzio, ma sulle nuove tessere dei Giovani comunisti per il 2005, insieme al simbolo del partito, sono sparite del tutto falce e martello. E tutto lascia credere che non torneranno l'anno prossimo.

IL RIFORMISTA, 11 Settembre 2004

http://www.ilriformista.it

 

 

 

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