Intervista a: Joseph E. Stiglitz, premio Nobel per l’economia
MANTOVA «I ruggenti anni Novanta», in libreria in questi giorni per Einaudi, è il nuovo saggio di Joseph E. Stiglitz. Dopo il successo del precedente testo destinato al largo pubblico, «La globalizzazione e i suoi oppositori», il Nobel per l'Economia nel 2001 - studioso prestato alla politica durante la prima presidenza Clinton, come capo dei consiglieri economici e, dal '97 al 2000, vicepresidente della Banca Mondiale - qui lancia un attacco all'arma bianca all'amministrazione Bush. Ma fa anche parziale ammenda per le politiche economiche che, nel decennio scorso, lui stesso contribuì potentemente a influenzare. Stiglitz oggi tornato a insegnare - alla Columbia University - è a Mantova dove, nell'ambito di Festivaletteratura, stasera incontra i lettori a Palazzo Ducale. Alla vigilia dell'incontro l'abbiamo intervistato.
Dopo le dimissioni dalla Banca Mondiale lei, fatto raro se non unico, si è preso l'agio di rimettere i panni di studioso e analizzare in modo critico le strategie che lei stesso aveva caldeggiato. Perché?
«La tesi, che espongo in questo libro, è che al centro di un'economia di successo c'è, sì, il mercato. Ma il mercato da solo non risolve tutti i problemi: ci vuole la politica, ci vuole il governo. E anche durante l'amministrazione Clinton non abbiamo mantenuto abbastanza questo equilibrio. Ecco perché, dopo la recessione, la ripresa economica ancora tarda».
In seno alla Banca Mondiale ha caldeggiato la cancellazione del debito ai paesi in via di sviluppo. La caldeggia tuttora?
«Sì, soprattutto per i paesi più poveri. È difficile sostenere una crescita economica senza la cancellazione del debito. Ed è anche una questione morale: prendiamo i crediti concessi a Mobutu, in Congo. Si sapeva benissimo che i soldi finivano sui suoi conti personali in Svizzera, pure quei crediti servivano a comprare un alleato fedele durante la Guerra Fredda. È giusto che oggi sia il suo popolo a pagare per lui? Ora si parla di cancellazione del debito iracheno, ma a me sembra che ci siano paesi più poveri, come la Nigeria, che di questo hanno maggiore bisogno. Uno dei temi che mi stanno a cuore è questo: dopo la Guerra Fredda abbiamo avuto un'opportunità enorme di ridefinire le relazioni internazionali, anche economiche, sulla base di nuovi valori. Per quarant'anni era valso il principio "il nemico del mio nemico è mio amico", ed erano stati nostri amici governanti tremendi come Mobutu e Pinochet. Avevamo una possibilità : ridefinire l'ordine economico basandolo non sulla minaccia, ma sul sostegno alla crescita. E non l'abbiamo fatto.
Sotto questo profilo, l'Iraq cosa le dice?
«Dimostra il pericolo insito nell'unilateralismo. È una colpa che ha radici già negli anni Novanta: nel '97-98, durante la crisi asiatica, noi impedimmo al Giappone di creare un Fondo monetario asiatico, come sponda ai paesi del Sud Est in crisi. Avevamo paura che crescesse, in quell'area, l'influenza giapponese a discapito della nostra. Con l'Iraq Bush ha portato questa logica alle conseguenze più devastanti. Invece di un nuovo modello di realazioni internazionali negli ultimi anni gli Usa hanno esportato una nuova variante del rapporto tra mercato e politica: l'intreccio perverso tra controllori e controllati.
Lei accusa la Sec, l'organismo che ha il compito di salvaguardare i piccoli investitori, di "incompetenza e mancanza di impegno". E scende nel dettaglio dello scandalo scoppiato nei mesi successivi all'11 settembre intorno alla figura di Richard Grasso, il presidente della Borsa di New York. Perché è così significativo?
«Grasso ha chiesto una gratifica di cinque milioni di dollari per aver rimesso rapidamente in funzione la Borsa dopo l'11 settembre. Cosa che rientrava nei suoi precisi doveri. E fatto particolarmente odioso se si pensa a tutti i vigili del fuoco e i poliziotti morti quel giorno, mentre erano in servizio. Fatto particolarmente sgradevole è quello dell'autoregolamentazione: la Borsa di New York non è solo un luogo di contrattazione, fa parte del sistema di autoregolamentazione del mercato azionario. Se alcune aziende e operatori contribuiscono a pagare lautamente il Presidente, cioè il regolatore, quali garanzie ci saranno sulla sua equità ? Ecco una vicenda lampante, e particolarmente odiosa, di conflitto di interessi, dove un governo dovrebbe intervenire».
Tra i suoi obiettivi polemici, c'è il taglio delle tasse voluto da Bush. Perché?
«Un taglio alle tasse ben progettato può sostenere la crescita economica. Ma bisogna tagliarle ai più disagiati, perché sono loro che, se aiutati, spendono. Così come spendono i pubblici servizi, scuole e sanità , se sono messi in condizione di poterlo fare, perché sono perennemente affamati di fondi. Questa amministrazione, invece, ha tagliato le tasse ai ricchi. Così non ha stimolato l'economia e ha aumentato il deficit. Noi avevamo cercato di massimizzare lo stimolo per dollaro, Bush l'ha fatto precipitare».
Ci sono analogie impressionanti con le politiche dell'attuale governo italiano.
«Quando ho pubblicato questo saggio negli Usa, un anno fa, tutti pensavano che si trattasse di un problema americano. Poi, dopo Enron da noi, ecco scoppiare in Europa i casi Vivendi e Parmalat. Bush purtroppo dà un pessimo esempio. La famiglia media americana dal 2000 ha perso 1.500 dollari annui di reddito e ha visto crescere il costo delle assicurazioni sanitarie del 50% . Sta peggio, è più povera. E così sarà nei paesi che ci imitano».
Da un punto di vista economico, la guerra in Iraq per gli Usa si sta dimostrando un buon affare?
«È difficile per chiunque capire perché siamo lì. Armi di distruzione di massa non ce n'erano, con evidenza. Non è stato dimostrato il legame tra Saddam Hussein e Al Qaeda. Alcuni pensavano che essere lì garantisse l'accesso al petrolio. Se questo era il problema, il prezzo del petrolio è salito in modo esorbitante. È un disastro. E nuoce, a ruota, all'economia mondiale».
da http://www.unita.it