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Di uomini e musei (di Paola Carini)
7.10.2004

Di uomini e musei

Questa è la storia di un museo, il National Museum of the American Indian – il Museo Nazionale dell’Indiano d’America - inaugurato 21 settembre 2004 a Washington D.C, ed è una storia di dignità. Frutto di un lavoro congiunto tra associazioni nativo americane, accademici, architetti e curatori, l’NMAI si colloca al fianco di altri musei nazionali su di un’area trapezoidale lungo la grande arteria, il National Mall, che arriva sino a Capitol Hill. Il cuore della collezione museale è costituito dalla raccolta di George Gustav Heye, la più grande collezione di manufatti nativo americani al mondo. Fino agli anni Ottanta era custodita da una fondazione privata a New York nel Museum of the American Indian-Heye Foundation, ma i membri nativo americani del consiglio d’amministrazione erano intenzionati a ricollocarne il milione di pezzi in un museo degno di questo nome, e fortunatamente trovarono un valido appoggio politico. Nel 1989 la creazione del National Museum of the American Indian voluta dal Senatore democratico delle Hawaii Daniel K. Inouye, dal Senatore allora democratico del Colorado Ben Nighthorse Campbell e da molti altri che li appoggiarono, fu sancita per legge, ma la sua evoluzione sarebbe stata implementata da una legge fondamentale: il NAGPRA, il Native American Graves Protection and Repatriation Act, che impartisce l’obbligo ai musei di restituire resti e oggetti funerari alle nazioni tribali. Il museo sarebbe nato come costola dello Smithsonian Institution, previa la restituzione del patrimonio funerario che esso possedeva. E qui cominciarono i guai più grossi. Essendo istituzione nazionale dal 1846, nata grazie al lascito consistente del britannico James Smithson, essa conservava una sterminata collezione di più di 22.000 tra ossa, scheletri integri e crani di nativo americani, raccolti per lo più nei sanguinosi campi di battaglia degli anni Sessanta e Settanta dell’Ottocento da volenterosi soldati dell’esercito. Ci vollero lunghe trattative e pressioni politiche affinché lo Smithsonian decidesse la cessione. Il risultato, dopo quasi un decennio, fu un decentramento della collezione Heye che ora si trova in parte a New York nell’Alexander Hamilton U.S. Custom House, in parte in un centro di ricerca nel Maryland, e in parte nel nuovo museo.

Il nuovo museo è una vera rivoluzione. Non solo conserva le vestigia del passato, ma è stato progettato e costruito con l’intenzione di far conoscere le culture autoctone di oggi. Le quattro sezioni – storia, vita contemporanea, conoscenze tradizionali, arte contemporanea – sono dislocate in un edificio che, allineato perfettamente con i punti cardinali, ha un andamento sinuoso all’esterno e ampie sale a spirale all’interno. Di pietra color ocra, vorrebbe evocare formazioni rocciose scolpite dal vento ed è circondato da un parco suddiviso in ambienti naturali diversi: a nord un bosco, a est un’area palustre, a sudovest la prateria, a sud un giardino di piante medicinali, e all’entrata delle rocce che provengono da una cava canadese, a ricordare che per i nativo americani le pietre sono sacre quanto ogni essere del creato, animato o inanimato che sia. Le guide nativo americane conducono in sale in cui gli oggetti esposti - trattati in modo appropriato a seconda dell’uso e dello scopo primario – vengono illustrati anche grazie a supporti multimediali. Le mostre permanenti all’interno del museo sono tre, e ospitano alternativamente nazioni tribali statunitensi, canadesi, sud americane e caraibiche. Il parco è ugualmente fruibile, mentre il punto di ristoro, il Piscataway, offre piatti cucinati con ricette nativo americane. La scommessa dell’NMAI è tutta qui: ricordare al visitatore che l’America di oggi ha un grosso debito culturale nei confronti dei suoi primi abitanti e che quegli abitanti hanno mantenuto e rivisitato tradizioni, usi, costumi sviluppatesi da conoscenze e credenze millenarie. I primi abitanti sono ancora qui, nonostante la Storia, e lo affermano con dignità. Questo è il messaggio del Museo Nazionale dell’Indiano d’America.

Agli inizi del Novecento i musei americani, pur ospitando raccolte artistiche o scientifiche e testimonianze del passato, esponevano anche esseri umani come "curiosità" o "rarità". Questa è la storia di uno di loro, di un uomo e del suo museo.

Nel 1901 Alfred Kroeber e Thomas Talbot Waterman, entrambi allievi dell’eminente antropologo Franz Boas, vennero incaricati di organizzare la vasta collezione di Phoebe Apperson Heast sotto la direzione del giovane dipartimento di antropologia dell’Università di California, campus di San Francisco. Nel 1911 il Museo di Antropologia dell’Università di California venne aperto al pubblico e tra le attrazioni ne figurava una in particolare: Ishi, l’ultimo degli yaqui, una popolazione del nord della California massacrata qualche decennio prima dai cercatori d’oro.

In quel periodo non era affatto inusuale "ospitare" uomini indigeni nei musei; lì venivano studiati, esaminati, impiegati come guardiani e come spettacoli viventi. A volte si trattava anche di bambini, costretti a vivere dentro al museo e a fare da cavie da laboratorio per esperimenti pseudo-scientifici.

Ishi visse nel museo, allora confinante con la facoltà di medicina del campus, sin da quando arrivò come dal nulla nella cittadina di Oroville nel 1911. Questa vicinanza lo sottopose anche ad "esami" medici oltre che a studi antropologici e linguistici, e lo espose a relazioni frequenti con il personale medico e paramedico. Venne ricoverato parecchie volte all’ospedale universitario di San Francisco per complicazioni polmonari e morì di tubercolosi nel 1916.

Ishi è ricordato nei libri di storia dei bambini californiani come l’ultimo indiano selvaggio, mite e docile, soprattutto grazie al racconto che ne fece la moglie di Kroeber, Theodora, parecchi decenni dopo. In realtà si sa ben poco di lui perché le fonti – i resoconti di Kroeber e di altri studiosi o la stessa versione romanzata della sua vicenda raccontata da Theodora – non permettono di conoscere il punto di vista di Ishi. Di certo si sa che insegnava agli antropologi la sua lingua e che mostrava come accendere un fuoco senza fiammiferi ai visitatori del museo, ma non che cosa pensasse di quel mondo che metteva un uomo in un edificio per studiarlo come una cavia misurandogli la lunghezza dei piedi ed il cranio, che lo vestiva con abiti strani, che gli faceva ramazzare il pavimento o intrecciare un cestino davanti ad un pubblico applaudente. Qualcuno ha provato a ricostruirne la vicenda dalla sua – presumibile – prospettiva, ma sono solo ipotesi inserite nel contesto generale dell’olocausto nativo americano. Certo è però lo sfregio alle ultime volontà di Ishi da parte di Kroeber e di altri presunti amici: pur avendo chiesto una sepoltura rituale yaqui, egli subì un’autopsia, il cervello venne asportato e successivamente il corpo venne cremato. Solamente nel 1999, dopo quasi 82 anni dalla morte, si è scoperto che il cervello era depositato, pensate un po’, allo Smithsonian.

Ora Ishi riposa nel Mount Lassen National Park, dove una volta viveva la sua gente e dove i discendenti degli yana, consanguinei degli yahi, hanno sepolto i suoi resti con una cerimonia rituale. Così si conclude la storia di un uomo e del suo museo, la storia di uomo che non rivelando mai a nessuno il suo vero nome venne chiamato dagli antropologi Ishi, che in lingua yahi significa "uomo". È tragico e al contempo ironico che quegli studiosi, pur chiamandolo "Uomo", si rifiutarono di riconoscerne l’umanità. È tragico che la storica Nancy Rockafellar stimi che il numero di resti umani di nativo americani rimasti in collezioni pubbliche si aggiri intorno ai 200.000, poiché significa che si continua a trattare irrispettosamente i morti ed offendere i vivi che vorrebbero onorare quei morti. Ed è tragico che ancora sfugga il significato dell’esistenza di Ishi nel mondo dei bianchi: si può negare ad un uomo di morire con dignità ma non gli si può impedire di vivere con dignità, nemmeno quando è esibito come un fenomeno da baraccone nella gabbia dorata di un museo.

Paola Carini

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