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E' possibile guadagnare onestamente il più possibile?
16.05.2003

Lo scrupolo del commercio È possibile guadagnare o nestamente il più possibile? di SALVATORE BRAGANTINI

da www.enel.it/it/enel/magazine/golem/_default.asp

C'è una famosa battuta sull'etica negli affari che secondo me consente di riflettere sul tema che ci intrattiene, discernendo fra comportamenti leciti e illeciti in una prospettiva etica e non solo giuridica.
Un commerciante risponde così al figlio che gli chiede cosa sia l'etica negli affari:"ti ricordi di quel turista giapponese che oggi è entrato nel nostro negozio di antiquariato in centro? Bene, ha comprato un vaso, bello ma niente di particolare, che avevamo posto in vendita per 100 €. Non ha fatto alcuna negoziazione sul prezzo, ha preso il pacchetto confezionato, mi ha dato 1000 € in 10 biglietti da 100, ha girato i tacchi ed è uscito. Ora l'etica negli affari è questo: al nostro socio, glie lo diciamo o no?"
Non c'è nulla di più distruttivo che cercare di analizzare con la logica le battute, ma mi pare evidente che il vaso doveva essere venduto al prezzo al quale era stato posto in vendita, e che il frettoloso e distratto turista giapponese aveva ogni diritto di ritenersi, comunque, truffato.
Più complicato, e direi quasi insolubile, è quale sia il giusto prezzo di quel vaso. Se lo avevo comprato a 50, era giusto venderlo a 100? E se avessi trovato qualcuno che me lo comprava a 200, avendo affisso questo prezzo, era ancora un prezzo o nesto, o no? (Ovviamente, si escludono come disoneste dichiarazioni false o stravaganti sull'epoca di produzione, sul vasaio etc.)
La risposta dipende dal livello dei costi della bottega di antiquario, dando per scontato che vi sia un diritto anche morale a cercare di conseguire un profitto dalla attività che si svolge professionalmente. Quale sia questo livello resta indeterminabile, anche perché i vasi si pagano tutti - almeno se si è commercianti o nesti - mentre si dà il caso che non tutti vengano venduti, ragion per cui quelli che si vendono devono pagare anche il costo di quelli che ti restano sul groppone.
Ma forse bisogna prendere il toro per le corna e affrontare il tema dell'onestà in una prospettiva più generale, uscendo da casistiche minute. Non mi sento qualificato, però, a dichiarazioni di carattere universale, ed allora posso solo ricordare due questioni che ritengo di grande rilievo, sempre su questo tema.

Parto dalla considerazione che mi accontenterei se nel mondo dell'economia ci fosse almeno un diffuso livello di equità: l'onestà e l'equità in alcuni casi possono portare, nelle situazioni concrete, agli stessi risultati, in altre a risultati differenti. La prima considerazione è che solo l'equità nei comportamenti assicura il sostegno popolare al funzionamento di un sistema economico. In mancanza di o nestà, poi, crolla la fiducia, presupposto necessario per i rapporti economici e senza fiducia accetto solo scambi che non lascino obbligazioni in sospeso fra le parti; anche un pagamento in contanti mi deve lasciare dubbioso, perché le banconote potrebbero essere false o rubate.
Le l'equità sono allora condizioni che facilitano lo sviluppo dove siano diffuse e lo ostacolano in caso contrario. Si aggiunga che la reputazione, come la pubblicità, è l'anima del commercio, e mantenersi una buona reputazione è necessario per chiunque voglia continuare a lavorare anche domani, e magari dopodomani.
La seconda questione, particolarmente attuale nella fase storica in cui viviamo, è quale sia una retribuzione "giusta"; in particolare quale differenza fra le retribuzioni alte e quelle basse sia compatibile con quella equità che è presupposto della stabilità del sistema. Un interessante articolo di Paul Krugman sul "New York Times" nello scorso autunno metteva in luce come fra gli anni Settanta ed oggi la situazione sia, al riguardo, enormemente mutata: allora i primi cento manager USA guadagnavano 40 volte lo stipendio americano, oggi questo rapporto è di uno a mille. La perdita del rapporto diretto fra una prestazione e la sua remunerazione, per gli stipendi alti, e la conseguente iniquità del sistema agli occhi non solo della manodopera dei wetbacks (così si chiamano in Texas i messicani che si bagnano attraversando il Rio Grande per emigrare clandestinamente), ma anche del mitico "americano medio", è questione di grande interesse; essa, tuttavia, ci porterebbe troppo lontano, ponendoci la questione se la democrazia, così come l'abbiamo studiata e conosciuta, non stia subendo una tragica mutazione genetica. Meglio fermarsi qui.

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