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Massimo D’Alema di ritorno dal Mediterraneo meridionale
17.05.2003

Massimo D’Alema è di ritorno da un rapido itinerario nel Mediterraneo meridionale, è stato in Marocco, in Israele, ha incontrato gli esponenti del nuovo governo palestinese, è un percorso che vuole prolungare nei mesi prossimi per approfondire la conoscenza ed il rapporto con un mondo attraversato, dopo il conflitto iracheno, da risentimento, inquietudini, ma anche da spinte al cambiamento. Nel corso della nostra conversazione si sono intrecciate notazioni di viaggio, considerazioni storiche, culturali e politiche, ma sulla situazione dei territori palestinesi, D’Alema prorompe in una denuncia vibrante delle condizioni che lì si vivono, estrae da un faldone mappe, documenti, fotografie. Vuole scuotere il silenzio con il quale troppo spesso l’Europa appare rassegnata ad un conflitto senza fine.

La fine della guerra, la caduta di Saddam, hanno solo acutizzato lo scontro tra mondo islamico e occidente, oppure in questo scenario ci sono anche nuove opportunità da cogliere?

La guerra ha acutizzato il sentimento antioccidentale nelle opinioni pubbliche e tra le masse arabe, questo è indiscutibile, lo si percepisce ovunque. Allo stesso tempo, sul piano politico, la guerra ha aperto anche delle opportunità, perché oggi, sia i paesi che hanno fatto la guerra, sia quelli che non l’hanno condivisa, hanno interesse ad aprire una diversa prospettiva nel rapporto con il mondo islamico, di evitare cioè che la guerra preventiva degeneri in scontro di civiltà. Finora l’unico messaggio che ha agito in controtendenza, potentemente, è stato quello del Papa; il rischio di uno scontro di civiltà è stato molto ridotto dal fatto che il capo della Chiesa di Roma abbia parlato con tanta passione contro la guerra. Le sfide che si aprono nel dopoguerra sono: il futuro dell’Iraq, il rapporto del nuovo Iraq con i possibili processi democratici del mondo arabo e, naturalmente, la soluzione del conflitto israelo-palestinese che sarà il banco di prova della coesione e dell’influenza dell’Europa, nonché della costruzione di un nuovo rapporto tra occidente e mondo arabo e, più in generale, di rapporti internazionali che non siano basati su un “doppio standard”.

Di recente sei stato in Marocco, come vedono lo scenario del dopo guerre le classi dirigenti di quel paese che appare laicizzato e distante, non solo geograficamente, da Baghdad?

Il Marocco è un paese molto interno al mondo musulmano -tieni conto che il re del marocco è discendente del profeta, si chiama Maometto (Mohammed VI)- è sede di importanti scuole coraniche. E’ un paese dove si è costruito un difficile equilibrio con la democrazia, c’è il pluripartitismo, il parlamento, una coalizione di centro-sinistra al governo, composta dalle forze che storicamente si sono battute contro l’autocrazia. Tutto questo in un rapporto positivo con il re, che mantiene poteri rilevanti e che tuttavia sostiene i processi di modernizzazione, già negli ultimi tempi di Hassam II, ma soprattutto oggi, col nuovo sovrano.

Le forze di sinistra marocchine sono di cultura laica, occidentale o sono incardinate alla realtà islamica?

Sono partiti di tradizione laica, di ispirazione nazionalista. In particolare la principale formazione di sinistra, l’Unione socialista delle forze popolari, nasce da una scissione a sinistra dell’ Istiqlal, la storica formazione politica nazionalista e democratica. Le leadership di questi partiti hanno sofferto l’esilio, sono state in Europa, sono di cultura francese, hanno avuto una formazione di tipo laico (erano il gruppo di Ben Barka, il leader nazionalista marocchino, rapito e ucciso a Parigi nel 1965). Sono stato invitato dal leader dell’Unione socialista, Abdehrraman Youssoufi, avvocato, ex primo ministro, capo dell’associazione per i diritti umani, grande personalità democratica, oggi alleato nel governo con l’Istiqlal. E’ intervenuto alla conferenza pubblica che ho tenuto presso il ministero degli esteri a Rabat, dove mi ha colpito constatare la diffusione di un forte sentimento antiamericano generato dalla guerra e dalle preoccupazioni sul dopoguerra. Pur essendo il Marocco un paese in cui Saddam Hussein non ha mai goduto di alcuna popolarità. Poi ho avuto anche incontri con il primo ministro, con altri membri del governo, con il presidente della confindustria. La prima domanda che tutti mi hanno rivolto è stata: “perché l’Italia ha abbandonato la sua tradizionale posizione di amicizia verso il mondo arabo”? Questo cambio di linea del governo italiano è stato fortemente avvertito da larghi strati di opinione pubblica. Anche la famosa battuta di Berlusconi sulla superiorità della civiltà occidentale è rimasta scolpita nella memoria diffusa. Anche per questo lì oggi c’è grande simpatia verso chi si oppone a quella linea, l’ho percepito dal rilievo che ha avuto la mia visita sui giornali marocchini, nelle televisioni, addirittura dalle testimonianze di simpatia che ho raccolto per strada, nella medina di Fez.

In questo difficile dopoguerra come si colloca la road map, il percorso delineato dal “quartetto” (Stati Uniti, Europa, o nu e Russia) per dare una soluzione pacifica al conflitto tra israeliani e palestinesi. Si tratta di una nuova opportunità, oppure è un’”ultima possibilità”, come l’ha definita con un certo pessimismo il nuovo premier palestinese Abu Mazen, nel suo discorso di insediamento?

Bisogna guardare lucidamente alla situazione attuale nei territori occupati, dove si sta consumando un dramma di proporzioni inimmaginabili. Dopo il tragico errore compiuto dalla leadership palestinese, quando a settembre del 2000 non ha voluto concludere l’accordo con Barak -accordo sollecitato lungamente da Clinton negli incontri di Camp David - si è aperta una nuova fase di conflitto. L’intifada armata, il terrorismo, che ha fatto centinaia di vittime tra i civili israeliani, con le azioni spaventose dei kamikaze, hanno spinto a destra l’opinione pubblica israeliana e hanno prodotto una forte solidarietà internazionale verso la destra al governo. Si sono spostate in modo evidente anche le comunità ebraiche nei diversi paesi. La sinistra israeliana, dedita da anni al dialogo per la pace, è rimasta isolata. La reazione israeliana è stata devastante e ha prodotto effetti assai profondi: col governo Sharon, Israele non si è limitata ad una catena di rappresaglie, di uccisioni, che hanno prodotto un numero elevatissimo di morti tra la popolazione civile palestinese; ha mirato anche alla scientifica distruzione della struttura operativa della Autorità nazionale palestinese e ha rilanciato la politica degli insediamenti. In questo modo si è configurata, nei fatti, soluzione della questione palestinese assai diversa da quella di Oslo, che assumeva il principio “due popoli, due stati”. Ciò che sta avvenendo in concreto è la delimitazione militare di aree palestinesi, delle enclaves prive di qualsiasi struttura istituzionale e amministrativa, all’interno del territorio israeliano. Stiamo assistendo alla espansione delle colonie, divenute vere e proprie città, e alla creazione di nuovi insediamenti, le une e gli altri, recintati da mura di cemento armato alto dieci metri. Come si vede la recinzione sancisce la requisizione di intere aree della West Bank (i territori occupati della Cisgiordania), si sono espropriati senza indennizzo migliaia di palestinesi lasciando senza tetto, sinora, 12 000 persone. Nelle attuali condizioni, per esempio, i cittadini di Habla, per recarsi nel loro capoluogo, che in linea d’aria è vicinissimo, devono fare un giro di 45 chilometri. Con l’estensione delle colonie negli anni recenti è stato occupato stabilmente il 40 % del territorio palestinese. C’è un progetto che va in questa direzione, tracciato da Sharon, che illustra la proposta da lui avanzata a Clinton nel 2001, (d’altronde Sharon disse anche a me, una volta che l’ho incontrato, di voler creare delle “aree autonome palestinesi, all’interno dei confini di Israele, tipo i Bantustan”, le città ghetto del vecchio Sudafrica). Si tende a collocare gli insediamenti lungo i confini, nelle zone dove c’è l’acqua e sulle alture, per evitare che la futura entità palestinese possa confinare con altri stati arabi, quindi si procede alla costruzione di strade riservate agli israeliani, per collegare tra loro gli insediamenti, costeggiate da fossati e da fili ad alta tensione. Betlemme oggi è una città integralmente circondata, l’antica strada dei pellegrini che portava da Gerusalemme a Betlemme è chiusa dal muro

La road map rappresenta quindi una straordinaria inversione di tendenza...

Certo, ma non dobbiamo sottovalutare quanto sia critica la realtà da cui si parte: da un lato la decisione sciagurata della leadership palestinese di non firmare a Camp David ha dato vita all’intifada armata e ha portato a una sconfitta storica dell’Autorità palestinese, delle componenti democratiche e laiche di quel popolo, ha prodotto il rafforzamento del fondamentalismo che attecchisce più facilmente nella disperazione sociale che si è diffusa. Anche da parte israeliana c’è una deriva estremista, si rafforzano le posizioni fondamentaliste. Non dimentichiamo che nello stesso Likud (il partito di destra al governo) si è votato, a dispetto delle aperture di Bush e del parere dello stesso Sharon, contro la nascita di uno Stato palestinese. D’altronde la guerra in Iraq ha prodotto nel campo israeliano due diverse reazioni, da un lato il timore di dover pagare dei prezzi alti per una soluzione pacifica del conflitto con i palestinesi, ma dall’altro anche la convinzione, che si è diffusa in strati significativi dell’opinione pubblica, che alla questione palestinese si possa dare una soluzione militare.

La designazione di Abu Mazen a capo del governo palestinese può costituire una svolta non effimera in questo scenario, nel suo discorso programmatico ha preso un forte impegno a porre fine alle violenze e a realizzare il disarmo delle fazioni palestinesi, aderendo pienamente alla road map, come valuti il suo ruolo?

Abu Mazen rappresenta una reale svolta, è il primo dirigente palestinese che io abbia sentito dire: “Noi abbiamo sbagliato, dobbiamo cambiare strada, non solo noi di Al Fatah, ma dobbiamo convincere di questo tutte le componenti della società palestinese”, Abu Mazen pensa che, se il movimento palestinese continua così andrà alla rovina e vuole impegnarsi dunque in un duro chiarimento interno. “Fermare il terrorismo è interesse nostro, non è tema di una trattativa con Israele –questa è l’affermazione che mi ha colpito- nella peggiore delle ipotesi, anche se Israele non farà nulla -come è possibile, se non ci sarà una fortissima pressione americana- quantomeno recupereremo la solidarietà internazionale che ora ci manca”.

Ti sembra che il suo tentativo abbia la possibilità di affermarsi, o le forze che lo contrastano prenderanno il sopravvento?

E’ molto difficile, questa posizione di Abu Mazen, così giusta, è anche assai impopolare nel campo palestinese, perciò ha bisogno del sostegno internazionale, ma soprattutto di quello di Arafat, che è il Presidente eletto dai palestinesi. Per questo sono andato ad incontrarlo, ritengo che solo con il sostegno di Arafat, Abu Mazen può pensare di farcela, altrimenti le possibilità si riducono a zero. Lo deve capire la diplomazia internazionale e specialmente quella europea. Solo se ci sarà rispetto per Arafat, per la sua libertà e per il suo ruolo, Abu Mazen potrà tentare quella sfida.

Che ruolo svolge Arafat oggi, rispetto a questa svolta che è, in parte, anche una sconfessione delle scelte da lui compiute a partire da settembre del 2000; si attiva per mobilitare forze a sostegno di Abu Mazen o fa ancora troppa fatica a riconoscere i propri errori?

Arafat è un uomo anziano che vive in isolamento, in condizioni umilianti, trincerato dentro i ruderi di un palazzo che è stato distrutto, con le automobili accartocciate davanti. Tutto questo non aiuta. Certo è importante che vadano a trovarlo persone di cui si fida e verso le quali prova affetto che gli dicano, come ho fatto io: “caro Yasser, devi dare una mano ad Abu Mazen, è l’unica speranza e devi sapere che quelli che vogliono bene ai palestinesi nel mondo la pensano così”. Lui mi ha detto di non nutrire grande fiducia sul fatto che Sharon voglia andare in direzione della pace, ma ha aggiunto che per quanto in suo potere sosterrà Abu Mazen. Il successo di questa svolta palestinese è legato comunque a un equilibrio molto fragile, quando le incursioni israeliane, ogni giorno, distruggono le case, uccidono i civili (come è avvenuto anche nelle ultime ore) la piazza di Gaza si riempie di estremisti che invocano la guerra e minacciano Abu Mazen. E’ una spirale entro la quale diventa quasi impossibile per i leader moderati imporre il disarmo e la tregua. Questo tentativo che è in atto nel campo palestinese, o trova una sponda nella comunità internazionale che eserciti una pressione decisiva su Israele, oppure non produrrà effetti.

Abu Mazen ha fatto appello a tutte le componenti della società palestinese, dichiarando di voler costruire un sistema pluralistico, basato sul multipartitismo. Oltre alla sfida del disarmo e della legalità, sembra voler costruire un dialogo con le componenti più radicali. . .

Questo è molto importante, perché Abu Mazen propone un patto politico ad Hamas, alla Jihad: “deponete le armi e facciamo le elezioni in Palestina, se vincete governate voi. E’ un leader che si rende conto del fatto che gli elementi di dittatura (che ci sono stati) nel governo di Al Fatah, le malversazioni, hanno favorito i fondamentalisti. Lui ha fama di persona integra e vuole aprire un processo democratico, trasparenza nella gestione del potere, tutela delle libertà e dei diritti umani, disarmo e libere elezioni. Abu Mazen propone un patto democratico alle componenti radicali e religiose, le invita a deporre le armi e a far pesare la loro influenza nelle prossime elezioni palestinesi.

Nella logica di allargare il campo della pace, come vedi le prospettive politiche nel campo israeliano, è possibile ed auspicabile un ritorno della sinistra alla coalizione con Sharon?

La questione è nelle mani di Sharon, la chiave della road map è il parallelismo delle concessioni, incardinato a scadenze precise, progressive e ravvicinate. E’ previsto che gli israeliani debbano fare delle cose autonomamente e da subito, per esempio porre fine alle uccisioni e tornare ai confini del 28 settembre 2000. Se Sharon accetterà la road map è assai probabile che la sua coalizione andrà in crisi, non solo nel rapporto verso i partiti religiosi, ma anche con inevitabili chiarimenti interni al Likud. Non c’è dubbio che se l’attuale, esigua maggioranza che sostiene Sharon, con l’apporto determinante dei partiti religiosi minori, dovesse andare in crisi si aprirebbe la strada ad un nuovo governo con la partecipazione dei laburisti che, pur indeboliti (sono passati, alle ultime elezioni, da 25 a 19 seggi), sono comunque il secondo partito e sono disponibili. L’altro partito della sinistra israeliana invece, il Meretz, che conta su 6 deputati alla Knesset, intende restare all’opposizione. I Palestinesi peraltro auspicano la formazione di un nuovo governo israeliano che nasca sulla base della accettazione della road map. Purtroppo i primi segnali non vanno in questa direzione, Sharon ha già detto che intende negoziare modifiche alla road map direttamente con gli Stati Uniti, se questa è la logica temo che non si andrà lontano. Anche il viaggio di Colin Powell di questi ultimi giorni, che pure ha dato alcuni risultati positivi, non sembra aver rimosso gli ostacoli.

La figura di Sharon appare tragica quanto quella di Arafat. . .

Il quale infatti tende a raffigurarsi come lui, quando gli ho detto: “Tu appari come il responsabile delle violenze”, mi ha risposto “like Sharon”.

Nell’intervista di Sharon sulla road map, dicevo, oltre a proporre 15 modifiche al testo, cosa che preoccupa, fa però una considerazione sulla sua generazione in cui dice che, dopo aver combattuto per tutta la vita, giunto a questo punto il suo impegno principale non è più solo quello di garantire ad ogni costo la sicurezza di Israele, ma anche quello di convincere il paese a fare “dolorose concessioni” per ottenere la pace, è possibile che sia un uomo come lui a portare Israele alla pace ed al riconoscimento di uno stato palestinese?

Non lo conosco così bene da poter esprimere un giudizio sulla persona. Ci sono precedenti di leader che hanno combattuto e poi si sono rivelati gli esponenti più adatti a far la pace. Capisco il significato della domanda, ma temo che dovremo aspettare e giudicare gli atti che si compiranno nei prossimi giorni. La mia personale convinzione, comunque, è che israeliani e palestinesi, da soli, la pace non sono in grado di farla. O questo processo viene costruito e “imposto” dalla comunità internazionale o non andrà avanti. Io ritengo che anche nel caso la road map venisse accettata da tutti sarebbe utile che si recassero degli osservatori internazionali a fare “monitoraggio” sul rispetto degli accordi nei territori occupati. . . . ma non dieci, mille, duemila! Proprio perché la cessazione degli attentati e la sacrosanta garanzia di sicurezza per i civili israeliani deve essere garantita in parallelo con il ritiro dell’esercito dai territori, dobbiamo essere realisti e sapere che i palestinesi non sono in grado oggi di controllare pienamente la West Bank, il loro governo è stato distrutto.

Il lavoro diplomatico per far convergere Siria e Libano nel percorso di pace può essere importante. L’Europa e la Russia possono usare argomenti positivi, diversi dalle minacce di Rumsfeld, per indurre questi paesi a cambiare atteggiamento?

Libano e Siria sono due paesi ma costituiscono un unico problema politico. In Libano ci sono trentamila soldati siriani che esercitano un condizionamento molto forte. Il problema è la Siria, il Libano non può che avere vantaggi dalla pacificazione e dal ritiro dei siriani, è un paese con grandi possibilità di sviluppo. Io parlai col presidente Hassad (padre), due volte, nel corso degli anni ‘90, l’ultima poco prima che morisse. Loro non si sono mai impegnati molto per la pace, salvo che con Rabin, con cui avevano già una bozza di accordo. La Siria rivuole le alture del Golan, conquistate da Israele nel 1967, molto semplice. Certo può essere incoraggiata sul piano politico a fare aperture, a democratizzarsi, può essere interessata sotto il profilo economico alla partnership mediterranea, all’amicizia con l’Unione europea, ma ritengo che il nodo sia tuttora il Golan. Ritengo però che la chiave della pace sia nel rapporto tra israeliani e palestinesi, fare la pace con la Siria senza averla fatta con i palestinesi non risolve il conflitto. Quando, nel 1979, Israele firmò la pace con l’Egitto, questa non ha prodotto la pacificazione della regione. Dopo le lacerazioni sulla guerra all’Iraq, ti sembra che il “quartetto” sia oggi sufficientemente unito e determinato per imporre ai due contendenti il rispetto di un percorso così difficile? Gli americani cercheranno di impegnarsi, comunque la finestra temporale di opportunità, che oggi è aperta, è molto breve e si potrebbe richiudere presto; nel 2004 ci sono le elezioni americane e le pressioni contro la road map sul Senato degli Stati Uniti, sono molto forti. Credo comunque che questo sia il principale banco di prova della rinnovata coesione dell’Europa. Su questo tema Blair si gioca molta della sua possibilità di recuperare un rapporto con l’opinione pubblica europea e con la sinistra del continente. Quando ci siamo visti, a Roma, poco prima dell’attacco all’Iraq, non abbiamo parlato della guerra, eravamo in disaccordo punto e basta. Io gli posi due problemi: innanzitutto quello del dopoguerra in Iraq, segnalavo l’assurdità e i rischi connessi ad un protettorato americano, la necessità di coinvolgere l’Onu e l’Ue. Lui condivise, anche se finora la sua possibilità di influenzare il corso di questi eventi è apparsa minima. Quindi gli ho chiesto di mantenere il suo impegno per la questione palestinese, un impegno che è costato al Regno Unito, nei mesi scorsi, una mezza crisi diplomatica con Israele e ancora di recente Sharon nella intervista di cui abbiamo parlato ha polemizzato con la posizione inglese. Blair su questo si gioca molta della sua credibilità.

Mi pare presto per formulare un giudizio su come procede la ricostruzione dell’Iraq, tuttavia, sul piano politico, sembra che la chiave di volta, per capire l’impronta che assumerà la riorganizzazione democratica del paese, sia il tipo di relazione che si stabilirà con il vicino Iran e con la sua leadership riformatrice. Nell’anno che ha preceduto la guerra, sin da quando, a Gennaio del 2002, Bush incluse l’Iran nell’”asse del male”, i riformatori guidati dal premeir Khatami sono apparsi in difficoltà. Il nuovo scenario che si apre con la ricostruzione può favorire un ruolo più deciso da parte loro, la fine dei conflitti con il clero tradizionalista e la ripresa del processo di apertura del paese a relazioni internazionali positive?

Molto dipende da come si risolverà l’equilibrio interno all’Iraq tra le diverse componenti etniche, politiche e religiose. Gli iraniani hanno un rapporto con gli sciiti che sono, come si sa, la maggioranza della popolazione, una comunità perseguitata e oppressa da Saddam Hussein; se gli sciiti troveranno posto nel nuovo Iraq, in equilibrio con le altre comunità, questo sarà positivo anche per l’Iran. . .

Ma non vale anche il contrario? La ripresa di rapporti internazionali con i riformisti iraniani non favorisce una buona stabilizzazione democratica in Iraq?

Certo, però dobbiamo sapere che se parte una persecuzione degli sciiti, da parte iraniana scatterà automaticamente una solidarietà di matrice fondamentalista, le due cose sono strettamente connesse.

Nelle scorse settimane, quando Rumsfeld aveva accusato l’Iran di interferire con la guerra in Iraq, il ministro degli esteri britannico Straw, non solo prese le distanze, ma definì l’Iran una “democrazia emergente”, pensi che un approccio di questo genere da parte della comunità internazionale può essere utile per dare il giusto indirizzo al dopoguerra?

Sì, però ho la sensazione che il problema dell’”interventismo democratico” di Blair sia dimostrare quanto conta: il banco di prova è il medio-oriente. In Iraq finora non ha inciso molto. Per condizionare gli Stati Uniti sul medio-oriente ha bisogno della coesione dell’Europa, visto anche che lo stesso Blair lamenta come le divisioni europee sulla crisi irachena abbiano ridotto la possibilità di condizionare l’agenda e le decisioni degli Usa.

Khatami definisce il suo riformismo come il tentativo di superare la crisi, che si è prodotta, nelle società in cui l’Islam assorbe gran parte dello spazio pubblico, a causa della penetrazione della modernità occidentale, costruendo un percorso di sviluppo economico e riforme democratiche autonomo, capace di tenere in equilibrio modernità e tradizione, fattori storici, che egli invita a non caricare di eccessivi significati ideologici o di sacralità. Ti pare sia un riformismo con cui possiamo condividere una battaglia politica, oppure la sinistra non può che identificarsi integralmente ed esclusivamente con le élites filoccidentali e democratiche del mondo arabo?

Quel tipo di riformismo è l’unico che può vincere. Il fondamentalismo però è qualcosa di più del rinchiudersi nella tradizione, nasce come reazione alla penetrazione dell’occidente, il primo testo importante del nuovo fondamentalismo sciita è del 1962 e si intitola “Occidentalite”, descrive cioè l’influenza occidentale come una malattia. Non so se l’idea della democratizzazione dei paesi islamici intesa come occidentalizzazione di quelle società possa vincere, ma certo sarebbe destinata ad aprire conflitti drammatici di lungo periodo, è lo scenario di un autentico conflitto di civiltà. Dobbiamo osservare con attenzione quello che accade in Turchia, invece, dove vince e governa un partito islamico moderato che si ispira esplicitamente alla democrazia cristiana; quel tipo di sintesi tra ispirazione religiosa e valori democratici è molto interessante. Bisogna tener presente poi che la democrazia non è solo un fatto dell’occidente, ma contiene valori universali. Questo riformismo lo dobbiamo giudicare non dall’impronta occidentale, ma dalla capacità effettiva di favorire la partecipazione, la democrazia, la liberazione delle donne, tema importantissimo, quando l’ho sollevato, in Marocco, ho trovato grande attenzione e approvazione. Dobbiamo assumere l’obiettivo della democrazia nel mondo islamico come tema centrale della sinistra, cosa che non si è mai fatta. Ritengo molto significativo che l’Internazionale socialista abbia deciso di tenere un appuntamento a Roma, su questi temi, nei prossimi mesi. Penso che la sinistra non possa avere una idea della democratizzazione come estensione del perimetro della influenza occidentale, ma dobbiamo favorire i processi che possono nascere dall’interno di quelle società come fatto popolare, non solo nelle élites. La tragedia è stata la guerra fredda e il modello sovietico. Quando tra gli anni ‘50 e gli anni ‘60 il nazionalismo arabo di impronta socialista, anticoloniale, anziché trovare sponda nella sinistra democratica europea (gli inglesi e i francesi nel ’56 assaltavano Suez contro Nasser), ha trovato la sponda sovietica e ha preso la strada dei sistemi autoritari a partito unico. In fondo il modello di Saddam Hussein all’origine è stato quello sovietico. Qui però c’è anche una responsabilità della socialdemocrazia europea che non ha saputo accompagnare con coraggio la decolonizzazione. . . c’è voluto De Gaulle per andar via dall’Algeria!

Che obiettivi politici si prefigge questa conferenza?

C’è la possibilità concreta di accompagnare e contribuire politicamente ai processi di democratizzazione dell’intera regione, quei paesi sono quasi tutti in bilico. Nello stesso Marocco c’è il problema del Sahara occidentale, dove a fine anno scade l’amministrazione delle Nazioni Unite e purtroppo non c’è accordo sul rapporto predisposto per l’Onu da James Baker. Lì anche la posizione marocchina è sbagliata. Il rapporto Baker propone una autonomia speciale che prelude a un referendum, storica rivendicazione indipendentista del popolo Saharaui. E’ una questione assai delicata perché non solo tocca le rivendicazioni di questo popolo, ma investe anche le relazioni tre Marocco e Algeria, ci riguarda da vicino e dobbiamo favorire una soluzione condivisa sulla base del rapporto Baker. Altra situazione in bilico è quella della Tunisia, paese che si sta modernizzando sul piano economico, che si sta aprendo, ma dove la democratizzazione va più a rilento. La democratizzazione del mondo arabo e islamico è un grande tema politico per la sinistra internazionale, dobbiamo incontrare questi partiti, incalzarli porre loro degli obiettivi. Alcune di queste forze sono legate all’internazionale, altre no, porre degli obiettivi di democratizzazione può essere il metodo giusto anche per incontrare nuovi interlocutori. In materia di democrazia e diritti umani l’Internazionale deve essere esigente verso i suoi membri e verso i suoi interlocutori. Se si assume l’esigenza della democratizzazione come tema cruciale si può fare molto. Gli americani hanno posto con forza la questione e hanno elaborato una risposta, quella della guerra preventiva che, oltre a essere sbagliata, rischia di essere anche controproducente, ma il tema dell’allargamento della democrazia esiste. La debolezza dell’Europa, e anche quella della sinistra, è che non offriamo delle risposte diverse a questa esigenza, avanzianmo solo delle critiche, giuste, alla risposta degli americani. Questo è il punto vero. Una conferenza dell’Internazionale che si ponga questo obiettivo, dunque, mi pare opportuna e legare le due questioni, pace in medio-oriente e democrazia nel mondo arabo è assai importante.

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