La fretta di piegare la vittoria elettorale di Bush e l’intera campagna presidenziale Usa alla misura della politica di casa nostra ha già giocato alcuni brutti scherzi agli improvvisatori. Da quelli che scimmiottano l’uso politico del cristianesimo (esilarante un Adornato di ieri: «Gesù è il primo liberale della storia», testuale); agli altri che d’un colpo sovvertono la teoria sostenuta fino al giorno prima sulle elezioni che si vincono al centro; a quelli infine che sminuiscono l’eccezionale performance dei cinquantaquattro milioni di voti democratici descrivendo un Kerry prigioniero dei radicali Usa.
Personalmente non ho gli strumenti per un’interpretazione politologica del voto americano, né per la verità l’avverto come mia prima preoccupazione. Considero infatti necessario fare i conti in primo luogo con un messaggio scomodo, e però netto, inequivocabile, che la vittoria dell’America conservatrice consegna al mondo intero. Quel voto ci segnala la prosecuzione del tempo della guerra. Il popolo americano se n’è dichiarato convinto, ha respinto come inverosimile la speranza di una rapida composizione del con- flitto mondiale in cui si sente coinvolto.
Al dilemma pace o guerra ha risposto compattandosi come mai prima d’ora dietro al comandante in capo del suo esercito. Non stiamo parlando solo dell’Iraq, ma anche delle prossime tappe che in un modo o nell’altro coinvolgeranno l’Iran e, chissà , forse l’Arabia Saudita, forse l’Africa, forse la Corea del Nord, senz’altro il Caucaso.
Certo, con amarezza, ma dobbiamo prenderne atto. Riguarda anche noi. Riguarda anche l’Europa. La vera domanda che ci si pone è come gli europei vivranno il prolungarsi della guerra, come riusciranno a comportarsi. Se cioè saremo capaci di esercitare una funzione di saggezza, tesa alla composizione del conflitto che si riaccende già in queste ore a partire dall’epicentro di Falluja, ma destinato a prolungarsi altrove, con imprevedibili incursioni su altri territori, fin dentro casa nostra per opera del terrorismo jihadista che già ha colpito Madrid e Istanbul; ma anche col rischio di incrinare assetti multiculturali consolidati come rischia di accadere oggi in Olanda e domani, chissà , in Francia.
C’è chi si attrezza culturalmente elaborando un’ideologia del combattimento ritenuto ineluttabile. Chi ritiene cioè che anche noi europei saremmo destinati prima o poi a riallinearci in toto agli americani, e pazienza se ciò provoca spaccature inficiando sul nascere la scommessa ardita dell’Unione politica del Vecchio Continente.
Per costoro Washington viene di necessità prima di Bruxelles, nel nome di una difesa se necessario anche protezionistica della supremazia occidentale, di un modello e di un tenore di vita al quale non si è disposti a rinunciare.
Eppure la nostra storia europea, e in particolare la memoria delle tragedie novecentesche costate all’Europa decine di milioni di morti, indicano la necessità di un cammino diverso. Un tragitto nel quale non cammineremo da soli se è vero che una grande minoranza di americani, cinquantaquattro milioni di elettori, ha tentato di opporsi all’ineluttabilità di un ordine mondiale fondato sull’unilateralismo occidentale. La costa atlantica e la costa pacifica, le grandi metropoli statunitensi, hanno espresso un voto per certi versi "europeo", manifestando quanto meno perplessità sull’efficacia di una soluzione prevalentemente militare di fronte all’instabilità in cui prospera la strategia terrorista. Su questo dobbiamo ragionare, dopo la vittoria di Bush. Come riuscire ad esprimere in termini culturali e politici un’altra sensibilità che ci deriva dalla memoria ancora fresca delle tragedie vissute.
L’America si sente Marte anche perché nel secondo conflitto mondiale ha avuto "solo" trecentomila morti. L’Europa non è Venere, ma un pianeta appena risollevatosi dopo un’ecatombe da cui per fortuna ha tratto degli insegnamenti preziosi che sta traducendo in pratica superando i suoi confini insanguinati e privilegiando il dialogo con i suoi vicini. Stare dentro al tempo di guerra recandovi l’impronta di una tale consapevolezza, respingendo la tentazione della furia e l’illusione miope della rapida soluzione di forza, implica che ci attrezziamo fin da subito con quella vera forma di coraggio che si chiama lungimiranza.
Gad Lerner
da www.europaquotidiano.it