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Del populismo e della democrazia, di Yves Mény
17.11.2004

Il populismo segna il malessere della democrazia ma guai a rimuoverlo come una pura patologia

Dall'America del sud viene il caudillismo, da quella del nord il rifiuto dei partiti. Il difficile equilibrio con lo stato di diritto

Il populismo è diventato popolare sia come concetto sia come realtà. Non c'è domenica elettorale senza qualche notizia sulla vittoria di un movimento populista in qualche angolo dell'Europa allargata. Il fatto che il concetto sia utilizzato senza alcuna precauzione da giornalisti, politici e accademici non ne ha minato il successo. Strano destino di una parola, popolo, che secondo l'uso e il contesto può diventare carico di apprezzamento o di disprezzo.

Piace a tutti la parola popolare. Piace meno quella populista. La stessa sorte tocca più o meno, ma con conseguenze ancora più importanti, alla parola democrazia. Anche in questo caso possiamo osservare come la flessibilità del concetto, e qualche volta la sua manipolazione, permetta l'uso e l'abuso della parola per scopi non sempre condivisibili. La democrazia è diventata la "mucca sacra" del discorso politico. È l'alpha e l'omega di ogni cosa.

Non ci sarebbe molto da ridire sulla nobiltà della democrazia, se non fosse che questa parola viene utilizzata come foglia di fico per motivi meno nobili.

Democrazia, parola "passe-partout"

Troppo spesso il brevetto di rispettabilità - essere democratico - viene concesso per il solo fatto che il regime precedente è crollato e sostituito da un sistema che pretende di possedere subito tutti gli attribuiti del regime ideale. Stiamo vivendo questo fenomeno in modo quasi caricaturale: una volta rovesciati i regimi comunisti, si è dichiarato l'atto di nascita della democrazia in fretta e furia, e senza troppo riguardo per la realtà delle cose. In parallelo con la definizione del comunismo come socialismo più elettricità, la democrazia "new look" si è ridotta a capitalismo più elezioni. I presidenti russi sono stati accolti nel club democratico senza troppi problemi e la Turchia diventa accettabile purché rinunci a fare dell'adulterio un delitto penale. Fatto ancor più grave, in molti paesi assistiamo a un doppio andamento sotto la pressione del terrorismo: la difesa della democrazia spinge a ridurne la dimensione e la sostanza in particolare in uno dei suoi elementi costitutivi più preziosi, lo stato di diritto. Ma questa guerra ha un effetto ancora più perverso, visto che la propaganda politica contribuisce a svalutare i valori dei quali si richiama la democrazia stessa. Ad esempio, sostenere che la democrazia si è radicata in Afghanistan dal momento che si sono svolte le elezioni presidenziali appare poco credibile. Ancora peggio è pretendere di esportare e imporre la democrazia in Iraq con la guerra.

Non soltanto l'idea di democrazia si svaluta a causa delle condizioni nelle quali si pretende di attivare questo nobile scopo, ma in modo più insidioso si diffonde un messaggio pericoloso: le forme della democrazia (in particolare le elezioni) sono più importanti della sostanza. Stiamo entrando nell'era

della democrazia "Canada Dry", un'epoca di sistemi che si danno l'apparenza della democrazia senza possederne gli attributi essenziali. Si tratta di cambiamenti molto preoccupanti perché testimoniano l'evoluzione dell'"esprit public": l'edulcorazione del concetto da parte dei politici, l'accettazione passiva di tale evoluzione da parte della maggioranza dei media, la spinta di numerosi movimenti contrari all'attuale funzionamento delle democrazie, contribuiscono passo dopo passo a trasformare l'idea stessa di democrazia.

Questa trasformazione dell'idea maestra delle società politiche non deve stupirci. Nel corso della storia la stessa parola "democrazia" ha cambiato profondamente significato secondo anche le necessità di aggiustamento pratiche o ideologiche. Di per sé, l'evoluzione della realtà democratica e del concetto

di democrazia non è soltanto un fatto inevitabile. È anche una necessità vitale per garantire il mantenimento di questo programma ideologico. Sin dall'antichità greca ci sono stati conflitti accesi sul significato da dare a questa impresa: come organizzarla, entro quali limiti, con quali mezzi.

Una battaglia particolarmente feroce, una lotta intensa che non si è mai fermata: chi è il popolo della democrazia e quali sono i suoi poteri? La definizione del popolo è disputata sin dai tempi di Pericle e rinvia alla definizione dell'alterità: chi è «in», chi è «out». Da un certo punto di vista, la storia della democrazia è la storia di una lenta e progressiva integrazione degli esclusi: gli stranieri, le donne, i giovani, i prigionieri.

Ciascun sistema ha la sua definizione di «non-cittadino»; che, ad esempio, nell'Italia del 1947 può arrivare ad includere per qualche mese le prostitute.

I tempi della democratizzazione subiscono grandi mutamenti da un sistema all'altro: la Francia ha riconosciuto il diritto di voto alle donne vent'anni dopo la Turchia e fino agli anni Sessanta gli Stati Uniti hanno mantenuto nel Sud una convenzione ad excludendum degli ex schiavi.

Un'altra questione chiave è stata quella della rappresentanza, che, grazie anche alla tradizione politica inglese, ha permesso la straordinaria evoluzione mentale e pratica delle rivoluzioni americana e francese. Ricorrere alla rappresentanza al posto della democrazia diretta permetteva di superare

l'equazione indiscussa fino all'Illuminismo, che vedeva nella democrazia il regime ideale per paesi piccoli o addirittura minuscoli. Successivamente, la democrazia nella sua iniziale purezza concettuale è stata radicalmente trasformata e arricchita da due altre rivoluzioni lente ma profonde: lo stato di diritto e il Welfare State. Ambedue i concetti sono indipendenti dell'idea di democrazia; ambedue si sono inseriti facilmente nella democrazia e hanno contribuito a farla accettare dalle masse; ma sia l'uno sia l'altro concetto possono anche creare una sorta di choc frontale se si adotta una definizione diversa della democrazia. Lo stato di diritto può anche essere definito con il limite imposto al "bon plaisir" del popolo sovrano; il Welfare State può essere interpretato con una violazione intollerabile della libertà di ciascuno e come l'imposizione inaccettabile della maggioranza sulla minoranza, per esempio con il prelievo del reddito di alcuni a beneficio di altri.

Il momento populista che stiamo attraversando non è dunque una novità in se stesso. La democrazia - malgrado il suo successo nel tempo e nello spazio, tanto da apparire come un sistema senza alternativa - non è mai stata accettata da tutti. La stessa Chiesa cattolica l'aveva definita come un male dei nostri tempi: ci ha ripensato, ma sappiamo bene che la tensione fra democrazia e religione è ben lontana dall'essersi dissolta e non solo, come si crede, nel mondo musulmano. Il fondamentalismo religioso è il vizio più diffuso al mondo; in particolare, le religioni monoteiste hanno un problema fondamentale nel loro Dna: non sono preparate all'accettazione del pluralismo.

Ma le opposizioni alla democrazia sono di natura diversa: ci sono quelle dei nemici della democrazia, dai tiranni antichi ai despoti moderni. In un certo senso, con loro le cose sono piuttosto chiare: si tratta di un conflitto frontale nel quale, purtroppo, sappiamo che le democrazie possono soccombere. Ma ci sono conflitti più sottili e per certi versi più pericolosi, visto che la battaglia si svolge nel campo e nel quadro della democrazia.

La lotta si svolge intorno alla definizione legittima della democrazia.

Il populismo si inserisce in questa categoria, anche se non si può escludere uno scivolamento progressivo da un atteggiamento formalmente democratico a posizioni che finiscono per far soccombere la democrazia. Se vogliamo evitare di cadere in errore nella definizione dei diversi problemi da affrontare questa distinzione è importante. In effetti, i movimenti populisti non si

presentano quasi mai come movimenti antidemocratici. Da questo punto di vista non sono assimilabili ai movimenti della storia europea durante il periodo fra le due guerre mondiali. Oggi non esistono, come esistevano nella Francia degli anni Trenta, movimenti di massa capaci di chiamare la democrazia "la gueuse". Al contrario, gli attuali movimenti populisti pretendono il possesso della vera legittimità democratica. Sono loro i democratici che si oppongono alla classe incapace, corrotta e cartellizzata dei partiti politici, sia di governo sia d'opposizione. Non possiamo dimenticare che,

storicamente, il populismo è nato negli Stati Uniti della fine del XIX secolo come reazione alla corruzione e al dominio delle oligarchie pubbliche e private. Non è un caso se, di fatto, la traccia che hanno lasciato nelle istituzioni degli Stati americani sono, in effetti, l'espressione della democrazia diretta, la proibizione dei partiti in alcune elezioni locali, i referendum, le iniziative popolari, ecc. Il populismo può nascere solo con l'arrivo del popolo sulla scena politica.

Dunque, in se stesso, il populismo non può essere descritto come intrinsecamente antidemocratico. Di fatto, molte rivendicazioni populiste non sono prive di fondamento, benché il modo in cui vengono espresse sia spesso problematico: la distanza sociologica tra il popolo e le élite è probabilmente inevitabile, ma ciò non significa che tale tensione non debba essere messa in discussione e - possibilmente - ridotta. La natura chiusa del processo politico e dell'agenda politica è stata evidenziata da molti osservatori e non solo dai populisti, e la ricerca di un più diretto coinvolgimento dei cittadini rappresenta una questione centrale per qualsiasi democrazia, tanto che numerose soluzioni rivendicate dai populisti sono state introdotte nei sistemi politici nel tentativo di bilanciare il principio della rappresentanza con modalità dirette di espressione dei cittadini.

Ci si potrebbe domandare come mai la percezione del populismo, vista la sua vicinanza e la sua affinità con i principi democratici, sia così negativa.

La ragione è molto semplice. Il populismo, come molti altri concetti, è in se stesso un guscio vuoto, che può essere riempito e dotato di senso da qualsiasi cosa venga versata al suo interno. Ciò aiuta a spiegare le difficoltà per definire il populismo e per individuare caratteristiche che non mutino nel tempo e nello spazio quando si considerano le sue variegate manifestazioni. Paul Taggart sottolinea come «il populismo abbia una natura essenzialmente camaleontica, e questo comporta che assuma sempre le tonalità dell'ambiente nel quale fa la sua comparsa».

Il problema allora non è solo quello del carattere "impreciso" del concetto di populismo (messo in evidenza nel 1967 da Peter Wiles nell'opera curata da Ghita Ionescu ed Ernest Gellner), ma ha a che fare anche con l'ambiguità di fondo del suo principale e fondamentale referente, "il popolo". In italiano e in francese (ma anche in molte altre lingue), popolo e peuple designano al tempo stesso l'intero e la parte. Un terzo significato, che talvolta si aggiunge ai primi due, è quello del popolo in relazione a una patria - in genere la nazione, ma talvolta una frazione di uno Stato Nazione che vuole innalzarsi a comunità culturale e/o politica -, come espresso dal termine tedesco das Volk. Un recente dibattito in Francia si è focalizzato proprio su questa ambiguità, a seguito della decisione della Corte costituzionale di annullare il primo articolo di una legge che riguardava la Corsica perché faceva riferimento al peuple corse, sostenendo che esiste solo un peuple français e che la nazione francese non è composta da popoli ma da un solo popolo.

Il carattere mal definito del principale referente ideologico spiega perché lo stesso termine possa riferirsi a specifiche realtà, tra loro così diverse.

La classica ortodossia democratica usa il popolo come un costrutto astratto, mentre l'ideologia e la retorica populiste vi possono aggiungere altre dimensioni, percependolo anche come una comunità di sangue, cultura, razza e così via.

La prima concezione è repubblicana, la seconda più tradizionalista, organica e nazionalista. Tuttavia, si tratta sempre di ideal-tipi piuttosto che di realtà empiriche. Il modello repubblicano è stato costretto a fare delle eccezioni al proprio costrutto altamente astratto, per poter includere rivendicazioni settoriali o territoriali. La variante "etnicista" del "popolo" è presente in alcune democrazie (la Germania, ad esempio), ma le sue potenzialità di esclusione sono tenute sotto controllo dal Rechtsstaat. La stessa confusione si presenta quando il concetto viene trasposto da un livello a un altro: per esempio, dallo Stato Nazione al sistema europeo. Gli stessi fautori della concezione repubblicana a livello nazionale sostengono che una democrazia europea rappresenta una contraddizione in termini data l'assenza di un popolo europeo.

Quando definiscono il popolo come un ethnos, piuttosto che come un più astratto demos, i movimenti populisti si collocano su una china pericolosa. Eppure, ancora una volta, non si tratta di un destino inevitabile. Prendiamo per esempio il caso della Repubblica federale tedesca, dove gli immigrati sono

stati a lungo considerati come semplici "lavoratori ospiti", mentre la nazionalità tedesca era garantita ai discendenti di tedeschi emigrati molte generazioni prima. Tuttavia, tale tensione è stata attenuata grazie a un forte regime democratico e a una generosa politica d'asilo; ma nella maggior parte dei casi una concezione basata sull'etnicità del popolo conduce all'esclusione, al razzismo e alla xenofobia. Dal punto di vista della loro ideologia, negli ultimi anni molti movimenti populisti sembrano essere caduti nello stereotipo in base al quale il populismo è equiparato all'estrema destra. Per lo stesso motivo, l'immigrazione è divenuta una questione centrale nei loro discorsi: gli stranieri sono percepiti come una minaccia non solo per il sistema di Welfare o per le possibilità di occupazione dei cittadini nazionali, ma anche per la natura essenziale della nazione stessa, per la sua omogeneità e la sua identità.

Politica rappresentativa e populismo

La rappresentanza ha contribuito a rendere praticabile la democrazia. Il costituzionalismo ha garantito la sua sopravvivenza. Come suggerito da Jean Leca nel 1996, i sistemi democratici sono caratterizzati da un'intrinseca tensione tra il potere popolare (la volontà popolare/populista), da un lato, e le regole costituzionali che proteggono i cittadini dal governo e da un esercizio arbitrario del potere, anche laddove tale potere appartenga a una maggioranza politica responsabile del governo, dall'altro. In termini pratici, la democrazia è stata resa possibile dall'inattesa combinazione della sovranità popolare con il principio di rappresentanza. L'istituzione e il funzionamento della democrazia non si sono senza dubbio conformati agli ideali dei filosofi o al modello idealizzato della città-stato greca.

Il potere assoluto del popolo è dovuto scendere a compromessi con la necessità di devolvere l'autorità a un'élite, selezionata grazie a una competizione all'interno dei confini della comunità politica. Quest'ambigua combinazione di elementi è diventata parte integrante del codice genetico dei regimi

democratici. Purtroppo, dobbiamo vivere con questa contraddizione, dato che né gli scienziati sociali né gli uomini politici sono stati in grado di fornirci un'alternativa più attraente o meglio funzionante. L'attuale modello può essere modificato e migliorato, ma rimane profondamente segnato dal suo difetto originario, vale a dire la tensione costitutiva tra la sua ideologia (il potere del popolo) e il suo effettivo funzionamento (il potere delle élite scelte dal popolo). Questa contraddizione rappresenta una caratteristica permanente dei sistemi democratici, e mentre senza dubbio non scomparirà, potrà evolversi e modificarsi sia sotto il punto di vista della forma sia sotto il punto di vista della sua intensità. La democrazia per i populisti può essere definita dal motto di Lincoln come il «governo del popolo, esercitato dal popolo, per il popolo», con una forte enfasi su «esercitato dal popolo».

Questi movimenti rifiutano, in modo più o meno sofisticato, le modalità o persino il principio stesso della rappresentatività, tanto congeniale ai sistemi democratici contemporanei. La democrazia (com'è) viene contestata in nome della democrazia (com'è immaginata). Come ha spiegato Margaret Canovan,

è «il popolo» che rappresenta l'«ideologia» di questi movimenti, che di tanto in tanto appaiono sulla scena politica della maggior parte dei regimi democratici per poi scomparire. In altre parole democrazia significa potere del demos. Prima del 1787-89, la maggior parte dei pensatori politici avrebbero sostenuto che si trattava solo del potere del demos, e questa illusione è sopravvissuta a lungo nel corso del XIX e del XX secolo. Nel frattempo, nel corso degli ultimi due secoli la democrazia è diventata un regime politico composito, che unisce in molti modi diversi il governo del popolo (tramite la rappresentanza e il principio maggioritario) con lo stato di diritto, quale contrappeso alla discrezionalità e arbitrarietà del potere dei rappresentanti del popolo. Tra studiosi e osservatori dei sistemi politici c'è ampio consenso su questo carattere composito della democrazia, e per una volta le prove empiriche concordano con gli approcci normativi. Vi sono discussioni e qualche disaccordo per quanto riguarda il giusto equilibrio tra le due componenti, ma nell'insieme esiste un vasto consenso sul fatto che tutte le democrazie siano fondate su questi due "pilastri".

Quest'analisi realista può aiutarci a comprendere perché i movimenti populisti si oppongano all'attuale funzionamento dei sistemi democratici. Tutti i movimenti populisti si esprimono e agiscono come se democrazia significasse potere del popolo e solo potere del popolo. Di fatto, questa caratteristica è probabilmente il solo elemento condiviso da tutti i movimenti e i partiti populisti, dato che questi hanno vanificato tutti i tentativi di trovare definizioni sufficientemente ampie o tipologie adeguate da un punto di vista tanto longitudinale che spaziale.

Tale definizione riduzionista della democrazia da parte dei leader populisti e dei loro elettori è paradossalmente resa più facile dagli stessi uomini politici che, sin troppo spesso, parlano e agiscono come se la democrazia fosse la mera espressione della volontà popolare. In tal modo, non solo aprono la strada a discorsi più radicali, come quelli populisti, ma si preparano anche la corda con la quale saranno impiccati. Incapaci di mantenere le promesse fatte, le condizioni strutturali di funzionamento dei sistemi democratici e i loro rappresentanti vengono messi sotto tiro dal discorso populista, accusati di tradimento, corruzione, scarsa trasparenza e incompetenza.

La democrazia rappresenta ancora il potere del demos, ma il demos rappresenta ora solo una componente della democrazia. Il costituzionalismo, ovvero lo sviluppo di contrappesi alla squilibrata supremazia del popolo, si è sviluppato con grande forza: effettiva difesa dei diritti umani, corti costituzionali, divisione dei poteri su base territoriale e funzionale, autonomia delle banche centrali, sono diventati tutti caratteri essenziali dei regimi democratici.

Non tutti i sistemi si sono adattati facilmente a questo nuovo ordine e a questa rinnovata visione della democrazia, soprattutto dove partiti radicali o estremisti hanno contestato i nuovi assetti politici. Se ci volgiamo indietro e guardiamo agli ultimi cinquant'anni, il fenomeno più notevole è rappresentato dalla straordinaria continuità e coerenza di questa tendenza. I primi cambiamenti furono introdotti a causa dell'eredità del passato. Le ondate successive furono guidate dalle trasformazioni del mercato e dalla progressiva liberazione di forze economiche ancora sottoposte a controllo politico o burocratico.

Un tempo dominato dai politici, il mercato diventa una forza autonoma, regolata da "autorità indipendenti" - invece che dai governi rappresentativi - che non devono rispondere del loro operato al popolo attraverso il processo politico.

Questa seconda dimensione costituzionale della democrazia si sta sviluppando a tal punto che alcuni pensano che possa mettere in pericolo l'esistenza stessa della democrazia, della democrazia del popolo. Ci siamo spinti troppo oltre? Non c'è una risposta netta a questa domanda, dato che ogni sistema democratico rappresenta uno specifico mix, la cui composizione varia nel tempo e nello spazio. Alcuni, come Giandomenico Majone, sostengono che l'attuale disaffezione nei confronti delle istituzioni democratiche e rappresentative derivi da aspettative non appropriate da parte dei cittadini, e che la politica abbia bisogno di essere liberata dall'illusione di possedere la capacità suprema di risolvere tutti i problemi umani e sociali.

Queste considerazioni sono senza dubbio pertinenti e risultano spesso fondate su evidenze empiriche, ma appaiono inutili se la percezione pubblica dell'esistenza di un deficit democratico indebolisce la legittimità del sistema politico.

Le sensazioni di impotenza, di incapacità a dar voce con efficacia al malessere sociale o, più in generale, di incapacità a farsi sentire, rappresentano tutte un terreno fertile per i partiti populisti. I movimenti e i partiti populisti sono un effetto secondario del malessere democratico, malore che a loro volta aggravano qualora le élite politiche e le loro istituzioni democratiche risultino incapaci di affrontare la sfida con vigore ed efficacia.

Oggi, le democrazie sono tutte o quasi tutte alle prese con il fenomeno populista. Secondo le parole di Marco Tarchi, il populismo è diventato «l'ospite scomodo della democrazia». Siamo ben lontani dalle pulsioni effimere dell'Uomo qualunque in Italia o del Mouvement Poujade in Francia. Sia che il governo populista fallisca, sia che si adegui alle necessità della governabilità, i movimenti populisti partecipano al potere in molti paesi e smentiscono sempre più coloro che credevano che si trattasse solo di un brutto momento da superare. Il populismo fa sempre più parte del paesaggio democratico

europeo e da questo punto di vista ci siamo senz'altro americanizzati. E per americanizzazione, mi riferisco sia all'America del Sud, che all'America del Nord nelle loro varianti populiste. Dall'America del Sud abbiamo importato la denuncia della corruzione e delle élite, private e pubbliche; lo stile politico basato sull'abuso dei media; una retorica alla volta riduttrice e spesso violenta nel ricorso a quello che, una volta, era indicibile. All'America del Nord abbiamo preso in prestito il rigetto dei partiti politici come strutture programmatiche, anche se le cose stanno cambiando, e una retorica del popolo e dei valori dei quali è portatore contro le élite; stiamo anche prendendo in prestito lo stile della pubblicità negativa che insiste più sui difetti del prodotto concorrente che non sui meriti propri. La politica dell'odio si sostituisce al dialogo tra le forze politiche. Dall'America del Nord e da quella del Sud abbiamo importato un altro elemento, la leadership nella sua versione migliore, il caudillismo nella sua versione peggiore.

La ricerca disperata del capo accomuna ormai quasi tutti i sistemi democratici e risponde a una rivendicazione costante di tutti i populismi: identificarsi a un leader che diventa l'incarnazione e il portavoce del popolo mistificato.

Democrazia e populismo sono tra loro profondamente intrecciati. Entrambi, in modi diversi, si occupano della posizione e del ruolo del popolo all'interno delle istituzioni democratiche. Mentre i sistemi democratici sono costantemente in lotta, a causa della difficile associazione tra i principi - a volte tra loro conflittuali - della democrazia e della rappresentanza, il populismo tende a respingere del tutto il principio della rappresentanza, o almeno a limitarne il più possibile l'uso. Da questo punto di vista, il populismo rappresenta il punto di massima tensione tra il potere delle élite e il ruolo delle masse. Lo status particolare del populismo deriva dal fatto che spesso esso si colloca in una posizione ambigua: non accetta pienamente gli abituali strumenti della democrazia rappresentativa ma non adotta neppure forme strettamente anticonvenzionali di partecipazione politica. Le sue azioni appartengono più al repertorio tradizionale della politica elettorale che a quello della mobilitazione sociale. Il populismo rifiuta i partiti, ma in genere si organizza come movimento politico; è fortemente critico nei confronti delle élite politiche, ma si presenta alle elezioni; rivendica il potere del popolo, e pure fa affidamento alle seduzioni di un leader carismatico.

Conclusioni

Il destino del populismo, così come abbiamo cercato di definirlo, è legato a quello dei regimi democratici. Il populismo è l'espressione esacerbata della posizione del popolo all'interno delle istituzioni democratiche, in particolare in tempi in cui i sistemi politici non funzionano come dovrebbero, quando le tensioni diventano troppo acute, quando i canali d'espressione del dissenso funzionano male, o quando si ha la sensazione che le élite politiche abbiano tradito la fiducia di coloro che rappresentano. La democrazia rappresentativa è messa in questione in nome della democrazia (del popolo). Ciò spiega perché, nonostante questo centrale elemento costitutivo, il populismo si presenti sotto vesti diverse: la natura della protesta, i canali di comunicazione e gli strumenti politici adottati dai populisti sono fortemente condizionati dalla struttura del sistema politico, dalla natura dei problemi all'ordine del giorno, dallo stile conflittuale o consensuale della politica, e così via. Ma - nonostante tali variazioni nel tempo e nello spazio e nonostante la sua ambiguità costitutiva - il populismo non può essere visto e analizzato semplicemente come una sorta di patologia. Esso piuttosto rappresenta il segnale di un malessere democratico che gli attori politici e i cittadini farebbero bene a prendere sul serio. Rappresenta un valido e tempestivo promemoria del fatto che la democrazia non è data una volta per tutte, ma rappresenta invece una costruzione che deve essere costantemente rinnovata.

L'anno scorso, a Stoccolma, la grande politologa Hannah Pitkin, che ci ha offerto la riflessione più acuta sulla rappresentanza, si chiedeva: «can Democracy be saved?». Una domanda che, di fronte all'espansione inarrestabile del fenomeno democratico, può apparire paradossale. Ma che è invece fondamentale se non vogliamo accontentarci dell'apparenza, del formalismo e del nominalismo.

Permettetemi di concludere trasformando l'interrogativo in imperativo categorico: la democrazia deve essere salvata.

 

da www.ilriformista.it

 

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