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Fragile Italia
20.11.2004

Sarebbe scorretto e anche ingeneroso, nel valutare le sue future prestazioni, non riconoscere i pesanti oneri con cui il nuovo ministro degli Esteri dovrà affrontare compiti essenziali per il futuro del Paese. Il primo onere è lui stesso ovvero un passato e presente politico che continuerà ora a inseguirlo, ora a condizionarlo. l secondo è la natura del governo che egli è chiamato a rappresentare, la sua politica estera, e la modalità con cui è stato nominato; il terzo è lo stato della Casa che è chiamato a dirigere.

1) Gianfranco Fini è troppo intelligente per non sapere che l'equazione fascismo-comunismo può servire per scopi propagandistici locali ma, sia pure per motivi opposti, come non ha corso presso buonaparte dei suoi seguaci, è inutilizzabile nei rapporti con gli altri stati. Lo ha sperimentato a sue spese il presidente del Consiglio nel suo primo incontro con i suoi colleghi europei e con lo stesso presidente degli Stati Uniti. Il più anticomunista degli americani non dimentica che il suo paese ha combattuto una guerra mondiale contro il fascismo e contro il nazismo, né può trascurare il fatto che il comunismo è oggi inesistente in Europa. Nei rapporti con numerosi colleghi europei egli dovrà pur tener conto che essi ritengono la resistenza e la liberazione dall'occupazione nazi-fascista uno degli elementi costitutivi della loro identità statuale (così come avviene per gli Stati ex satelliti  nei confronti dell'Unione Sovietica). In altre parole, il revisionismo storiografico politicamente ispirato non ha corso fuori dai nostri confini nazionali.

È da verificare se tali considerazioni non rendano ancora inopportuna la nomina a ministro degli Esteri di un post-fascista. Si tratta anche di sfuggire anche a forme più sottili di condizionamento provenienti dal passato. Va dato atto a Fini e al suo partito di avere compiuto un atto moralmente e storicamente doveroso chiedendo scusa agli Ebrei e agli Israeliani. Ne può derivare un fondato senso di colpa che, se si traducesse in un'accettazione acritica della politica estera del governo israeliano in carica, determinerebbe la rinuncia definitiva da parte dell'Italia al ruolo che le compete nel quadro mediorientale e che, invece, richiede un punto di vista assolutamente laico.

2) L'onorevole Fini è il quarto ministro degli Esteri italiano dalla Costituzione del secondo governo Berlusconi. Renato Ruggiero, la cui autorevolezza era e resta universalmente riconosciuta, è stato costretto alle dimissioni perché il presidente del Consiglio ha abbandonato la tradizionale politica europeista che, dagli anni Cinquanta in poi, ha segnato l'identità dell'Italia nei suoi rapporti con gli altri Paesi. Da allora Silvio Berlusconi ha esasperato ed estremizzato l'amicizia con gli Stati Uniti, trasformandola in una dipendenza umiliante al punto di violare l'articolo 11 della Costituzione con l'intervento in Iraq e rendendo inefficace il suo ruolo in Europa con danno degli stessi interessi americani, come percepiti dal Dipartimento di Stato. Quella amicizia è stata sostituita da un rapporto politico e personale con il presidente degli Stati Uniti («Dear George»), sterile, in quanto non ripagato. Valga come esempio la questione dell'allargamento del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, per il quale manca ogni rassicurazione - in casi come questi è soltanto la diplomazia pubblica a contare - da parte di Washington. Si tratta di un rapporto fragile, malgrado la rielezione di George W. Bush, in quanto l'impostazione unilateralista della sua politica estera ha trovato nella trappola irachena quel macigno che potrebbe dirottare l'opinione pubblica americana in maniera impetuosa e radicale quanto la sua vittoria elettorale.

Nel frattempo l'Italia è totalmente isolata in Europa: esclusa da ogni costituendo direttorio, di per se negativo, addirittura all'epoca della presidenza italiana dell'Unione Europea, con Blair come unico interlocutore, ma anche fautore della riforma dell'Onu che ci esclude, a sua volta escluso da un dialogo sempre più fitto tra le principali potenze europee in cui la Spagna ha preso il nostro posto. Cosa resta? Il flirt con il dittatore libico che ha già prodotto il frutto avvelenato degli esuli restituiti al dubbio destino che gli riserva Tripoli? Il rapporto con Putin, inquinato dalla difesa dei misfatti ceceni ed a probabili affari di cui occorrerebbe indagare la natura? Insomma, una politica estera tutt'altro che inesistente, ma fondata su servilismo, cartapesta e rapporti personali che non si traducono in diplomazia, a conferma dei peggiori stereotipi nazisti che colpiscono il nostro Paese.

A Franco Frattini immediato predecessore di Fini va riconosciuto il merito di avere smussato qualche angolo, contenendo i danni dell'impostazione, ma anche la responsabilità di non avere modificato di una virgola gli orientamenti di Berlusconi che, nei colloqui privati non si peritava di delegittimarlo, invitando gli interlocutori stranieri a rivolgersi direttamente a lui. Ma è ancora più significativo che Frattini abbia ottenuto la sua promozione europea non solo prendendo le distanze da Rocco Buttiglione (come da elementare buon senso), ma dalla natura del governo che lo ha designato, vero problema che affligge l'Europa e buona parte del mondo libero, causa profonda della bocciatura del medesimo Buttiglione.

3) Questa eredità a cui Fini medesimo aggiunge il peso del suo passato non tanto remoto e anche le modalità della sua nomina (gli intrecci con le caotiche trattative sulla finanziaria e sull'Irpef non sono sfuggite agli osservatori stranieri) incombe anche sulla Farnesina, principale strumento della nostra politica estera. Si tratta di una diplomazia umiliata nella sua dignità e nella sua notevolissima personalità, capace di misurare, giorno per giorno, la voragine in cui è precipitato il buon nome e l'influenza del Paese che è chiamata a rappresentare. Essa è guidata da un segretario generale che, con le sue note e variegate risorse, ha condotto una guerra senza quartiere contro il ministro Frattini (e contro Renato Ruggiero, che se ne era liberato, dalla posizione egualmente influente di rappresentante permanente presso l'Unione Europea). Una delle prime sfide che il nuovo ministro dovrà affrontare sarà quella di guidare il proprio ministero, scegliendo tra un'onerosa coabitazione e un conflitto dall'esito incerto che offrirà la misura (o una delle misure: non esageriamo l'importanza dell'ambasciatore Vattani) della capacità del nuovo ministro di conquistarsi qualche indipendenza dagli interessi di Silvio Berlusconi.

Non stupisca che queste osservazioni non abbiano il carattere di un attacco preventivo al nuovo ministro degli Esteri; piuttosto quello di una messa in guardia di fronte ai pericoli che, insieme con lui, corre il nostro Paese.

È fuori luogo invocare bipartisanship di fronte a diversità di orientamento politico che governo e opposizione hanno il diritto-dovere di non sottacere in Parlamento e al Paese. Tali differenze esistono e sono gravi. Ma qui è in gioco qualche cosa di più profondo. Tre anni e mezzo di governo Berlusconi rischiano di ridurre l'Italia a quella che, molti anni fa, il principe di Metternich definì «un'espressione geografica». Oltre alla Resistenza ci vediamo costretti a difendere il Risorgimento. La precarietà della posizione internazionale dell'Italia è tale che qualsiasi inversione di tendenza, anche minima, che il nuovo ministro degli Esteri riuscisse ad effettuare, dovrà essere accolta con riconoscenza, al di fuori di ogni calcolo politico di corto raggio.

di Gian Giacomo Migone su l'Unità, 19.11.04

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