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Auguri (di Paola Carini)
18.12.2004

Il 31 dicembre prossimo si conclude la decade che le Nazioni Unite hanno dedicato alle popolazioni indigene. Numerose commissioni e sottocommissioni hanno lavorato affinché i diritti di queste popolazioni venissero riconosciuti e difesi dall’ONU, quell’organismo sovranazionale che, negli anni, ha operato per promuovere i diritti della persona e le sue libertà fondamentali. I documenti, frutto di lunghe mediazioni, sono tanto avanzati quanto inapplicati, poiché la pressione politica che l’ONU può esercitare sui singoli stati è pressoché inesistente. Se, da un lato, l’ONU intende presentarsi come paladina della pace e dei diritti umani, dall’altro la sua scarsa autorevolezza, schiacciata sotto il notevole peso politico degli stati più forti all’interno di essa, ne erode le fondamenta. Non è un caso, quindi, che siano sempre i diritti inalienabili delle persone indigene, quelle più deboli, ad essere considerati un po’ meno inalienabili di quelli degli altri.

Il testo ritenuto pietra miliare è la bozza della Dichiarazione dei Diritti delle Popolazioni Indigene. L’articolo 29 riconosce alle popolazioni indigene pieno controllo della proprietà intellettuale e culturale e il diritto di attuare misure efficaci per controllare ed eventualmente sviluppare ogni tipo di risorsa: culturale, tecnologica, umana o genetica. Questo significa che alle popolazioni indigene viene riconosciuto il diritto di controllare e gestire sé stessi e il proprio sapere: da ciò che nel continente nordamericano viene chiamata TEK – traditional ecological knowledge – ossia conoscenza ecologica tradizionale (quindi la conoscenza di flora, fauna e tecniche agricole), alle conoscenze mediche, dalle tradizioni orali e le arti alla persona umana e al suo codice genetico.

Queste poche righe proposte dieci anni fa hanno creato una frizione tra delegati indigeni e delegati di Stati Uniti, Canada, Gran Bretagna, Australia e Nuova Zelanda il terzo giorno dei lavori della Decima Commissione delle Nazioni Unite per i Diritti Umani riunita a Ginevra in questo periodo. La delegazione della Nuova Zelanda ha ritenuto che l’articolo non fosse di pertinenza di quel gruppo di lavoro poiché è oggetto di discussione in altre commissioni delle Nazioni Unite. L’immediata reazione delle delegazioni indigene è stata quella di richiamarsi al testo della Sottocommissione per la Promozione e la Protezione dei Diritti Umani che rappresenta l’impianto programmatico di difesa dei diritti umani su cui la Dichiarazione poggia. Ogni delegato indigeno ne ha auspicato un ulteriore miglioramento proponendo emendamenti anche alla luce delle politiche aggressive del WTO (World Trade Organization) e della scarsa attenzione a questi diritti in altre sedi dell’ONU. La Dichiarazione, a loro parere, deve essere la charta da cui ogni altra azione legislativa non può prescindere. Per protesta contro certi stati che vorrebbero addirittura modificare il testo della Sottocommissione e contro la ventilata idea di discutere a partire da un testo elaborato unicamente dal presidente della Commissione, il 29 novembre scorso sei rappresentanti indigeni hanno iniziato uno sciopero della fame conclusosi solamente il 2 dicembre.

In questi quattro giorni una buona fetta dell’opinione pubblica mondiale (almeno di quella a cui è stato garantito il diritto di sapere cosa stava succedendo in quelle sedi), ha inondato l’ONU di fax ed e-mail in appoggio alla protesta, scuotendo le Nazioni Unite fino ai suoi vertici. In un messaggio congiunto i delegati indigeni Adelard Blackman (Buffalo River Dene Nation) del Canada, Andrea Carmen (Yaqui Nation) dell’Arizona, Alexis Tiouka (Kaliña) della Guyana Francese, Charmaine White Face (Oglala Tetuwan, Sioux Nation Territory) del Nord America, Danny Billie (Traditional Independent Seminole Nation) della Florida, Saul Vicente (Zapoteca) del Messico denunciano i tentativi continui di certi stati di indebolire la bozza della Dichiarazione. Il lavoro stesso delle commissioni e sottocommissioni rischia di svuotare di forza politica, ancorché legislativa, l’esito finale di dieci anni di discussioni. Il loro auspicio è quello che, pur essendo in una casa – quella dell’ONU - che ha aperto loro le porte senza però aprire cuore e mente alle istanze indigene, le popolazioni indigene di tutto il globo non rinuncino mai ai loro diritti. Spiegano altresì la loro decisione di sospendere lo sciopero della fame a seguito dell’intervento del rappresentante dell’Alto Commissariato per i Diritti Umani e del Vice Presidente della Commissione per i Diritti Umani, i quali si sono impegnati a continuare a lavorare nel futuro con i delegati indigeni affinché nessun testo che non sia quello della Sottocommissione venga adottato dalla Commissione per i Diritti Umani. Uno degli effetti positivi della protesta è il fatto che prima che la Commissione si riunisca di nuovo il prossimo marzo, i delegati indigeni si incontreranno con l’Ufficio della Commissione stessa per stabilire, qualora i lavori si protraggano, la partecipazione di popolazioni e organizzazioni indigene che non possono essere presenti a Ginevra.

La decade intitolata alle popolazioni indigene era iniziata con il presupposto di rafforzare la cooperazione internazionale per risolvere i problemi affrontati dalle popolazioni indigene in aree quali i diritti umani, l’ambiente, lo sviluppo, la scuola, la salute. Se l’articolo 29, dando piena autorità agli indigeni e garantendone contemporaneamente i diritti fondamentali, è diventato materia di contenzioso internazionale, significa che quei principi cozzano con le politiche economiche di stati forti e con le mire di gruppi multinazionali per i quali le terre, la flora, la fauna e persino i corpi degli indigeni del mondo sono merce sfruttabile, quando non già sfruttata. Materie prime, specie vegetali ancora sconosciute e DNA umano sono ciò che attrae verso il sud politico e geografico del mondo, dove è possibile attuare uno sfruttamento energetico, farmaceutico e medico senza regole. Esso deve continuare a rimanere la terra dell’impunità affinché nemmeno principi enunciati per via teorica con presupposti di attuazione pratica piuttosto remoti ne possano intralciare il cammino.

Ricordiamocelo, quando vediamo nelle vetrine gioielli scintillanti molto probabilmente fatti con i diamanti delle miniere che si trovano sul territorio dei boscimani, cacciati dalle loro terre e rinchiusi in campi profughi. Perché il loro prezzo è ben più alto di quello riportato dal cartellino.

Ricordiamocelo, quando leggiamo che tra molte tribù indio delle Colombia il numero di bambini e adolescenti morti per suicidio è altissimo. Perché la "defogliazione della terra" va di pari in passo alla defogliazione dello spirito, proprio come aveva intuito Laurens Van Der Post.

E allora tanti auguri alla Dichiarazione dei Diritti delle Popolazioni Indigene che, speriamo, vedrà la luce in un futuro molto prossimo. E auguri ai guaranì, ai jarawa, ai boscimani, ai navajo, ai tlingit e a tutte le etnie del mondo. E a quei delegati di tutto il mondo che si alzeranno per difendere i diritti di quelle etnie. Perché senza di loro non c’è né mondo, né futuro per il mondo. Auguri a tutti, dunque, per un mondo migliore.

Paola Carini

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