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Figlio mio, quanto mi costi di Chiara Saraceno www.lavoce.info
22.05.2003

È bene che nel porre la questione della denatalità, o meglio della bassa fecondità italiana, si affronti anche quella del costo dei figli. Aiuta a uscire da approcci puramente moralistici (l’egoismo delle giovani generazioni). Anche se, ovviamente, nella scelta di avere o non avere un figlio, o di averne uno in più, non sono in gioco solo o innanzitutto fattori economici.

Tuttavia, porre la questione del costo fa capire meglio quali sono le circostanze più favorevoli a una scelta di procreazione nel contesto attuale. Quindi anche a valutare quali possano essere le politiche più efficaci non tanto per incentivare le nascite, quanto per non disincentivarle: per non scoraggiare chi vorrebbe avere un figlio, o averne uno di più, ma è fortemente scoraggiato dalle prevedibili conseguenze sul piano economico e in senso più lato di partecipazione sociale, oltre che dalla lunga durata delle responsabilità economiche.

Più cresce, più costa

Come segnalano da molti anni gli studi in questo campo, ripresi anche da lavoce.info e più di recente dal convegno organizzato dalla Accademia dei Lincei, il costo dei figli è composto da almeno due elementi: il costo del loro mantenimento e il costo del tempo che deve essere loro dedicato.

Se il primo è sostenuto vuoi dal solo padre, vuoi dal padre e dalla madre insieme, il secondo costo è sostenuto nel nostro Paese quasi esclusivamente dalla madre: in termini di investimento di tempo e di mancata possibilità di guadagno, o di guadagno ridotto.

Di più, entrambi i costi tendono ad aumentare nel tempo, man mano che i figli crescono. Il primo perché i beni di consumo (inclusa l’istruzione) necessari a un figlio adolescente e giovane sono maggiori e più costosi di quelli necessari per un bambino piccolo. Il secondo perché quanto più a lungo una donna sta fuori dal mercato del lavoro per dedicarsi alla cura dei figli, tanto più difficile è per lei rientrarvi.

Il modo più diffuso di stimare il costo di un figlio, limitatamente a quello di mantenimento, consiste nel calcolare la quota di reddito aggiuntivo che sarebbe necessaria a una coppia o a una famiglia per mantenere lo stesso tenore di vita, pur tendendo conto del fatto che parte dei costi sono sostenuti dalla collettività (in primis, tramite l’istruzione e la sanità). A seconda dei calcoli, si va dal 22 per cento circa a un terzo. Ad esempio, Drudi e Filippucci hanno stimato che nel 1995 una famiglia con un bambino tra gli 0 e i 6 anni, per mantenere lo stesso tenore di vita di una famiglia senza figli con una spesa mensile pari alla media di quell’anno (3.900.000 lire), avrebbe dovuto sostenere una spesa aggiuntiva di 1.638.000 lire mensili. Nel caso di un ragazzo, la spesa aggiuntiva avrebbe dovuto essere di 1.950.000. Naturalmente, si può sostenere che chi ha figli, ha stili di vita diversi da chi non ne ha, non solo per costrizione, ma per scelta. Queste cifre danno, però, l’ordine di grandezza del problema.

Mamme e lavoro

Se si pensa che tuttora in Italia la presenza di un figlio fa drasticamente diminuire la partecipazione delle madri al mercato del lavoro (nella coorte di età 30-39 anni di oltre 30 punti percentuali), si comprende come i costi aggiuntivi invece di essere compensati da un aumento di reddito sono spesso accompagnati da una riduzione dello stesso. Non è un caso che soprattutto tra le famiglie numerose l’incidenza della povertà sia molto alta: è povero un quarto di tutte le famiglie con tre o più figli, come ha segnalato il rapporto della Commissione di indagine sulla esclusione sociale del 2001 e come è stato ripreso dal rapporto annuale dell’Istat presentato ieri.

Se a questo aggiungiamo che i figli tendono a rimanere a lungo in famiglia, come segnala di nuovo il rapporto annuale dell’Istat, e più in generale sono considerati "a carico" dei genitori ben oltre le semplici esigenze di mantenimento (sono i genitori a garantire per lo più l’accesso alla abitazione e al credito ai figli maggiorenni; sono loro a integrare un reddito insufficiente o a fornire una rete di protezione nel caso di perdita del lavoro in un mercato del lavoro sempre più flessibile, così come a occuparsi dei nipoti in assenza di servizi adeguati), appare evidente come in Italia il costo dei figli si prolunghi e aumenti nel tempo in proporzione maggiore rispetto a quanto avviene negli altri Paesi.

Per modificare questa situazione occorre procedere con un pacchetto di misure di sistema e non occasionali, in cui si combinino a) facilitazione alla conciliazione tra lavoro familiare e lavoro remunerato (quindi servizi, ma anche politiche dei tempi di lavoro più amichevoli), per le donne ma anche per gli uomini; b) forme di trasferimenti diretti per compensare in parte il costo dei figli; c) facilitazioni alla autonomia economica dei giovani.

I casi svedese e francese, pur nella loro forte diversità, bene esemplificano come vada articolato un pacchetto minimamente efficace.

Un ambiente "ostile" ai figli

L’Italia è ben lungi dal presentare una situazione favorevole. Le politiche di trasferimento diretto sono scarse, confuse, limitate ad alcune categorie di genitori, spesso contraddittorie con l’obiettivo di incoraggiare il lavoro delle madri. Le politiche di conciliazione riguardano ancora quasi esclusivamente il lavoro dipendente a tempo indeterminato, ignorando la nuova situazione dei contratti di lavoro atipico, dove si concentrano non solo giovani di entrambi i sessi, ma donne di tutte le età. In dieci anni, i servizi per la primissima infanzia hanno aumentato il loro tasso di copertura soltanto dal 5 al 7,4 per cento. Allo stesso tempo, lo spazio – politico ed economico - per ampliare la spesa sociale si è fortemente ridotto. Si è fatto tutto ciò che si poteva (e forse anche ciò che non si poteva) con lo strumento fiscale, tenuto conto che in Italia l’imposizione fiscale è a base individuale. E l’ambiente complessivo è lungi dall’essere amichevole nei confronti di chi ha più di un figlio (si pensi al costo dei trasporti, dei servizi di tempo libero, ecc. che quasi mai prevedono sconti in caso di più figli).

A fronte di questa situazione, la proposta del ministro del Welfare Roberto Maroni, di dare un bonus di 800 euro per un anno, o forse tre, per ogni neonato, pur bene intenzionata, sembra mancare il bersaglio.

Se le risorse sono scarse, occorre distribuirle in modo più efficiente e razionale, e con l’obiettivo del massimo di efficacia. Sarebbe più opportuno razionalizzare ed estendere il sistema attualmente disordinato di assegni per i figli (assegno al nucleo familiare, assegno per il terzo figlio), coordinandolo più strettamente al sistema di detrazioni fiscali, anche per ovviare alle note questioni della incapienza. E investire le risorse aggiuntive che si possono trovare, da un lato, in una più massiccia offerta di servizi, chiamando anche le imprese a fare la loro parte, come già sta avvenendo, ma sostenendo anche l’azione dei comuni e degli enti locali, del terzo settore. Dall’altro, si dovrebbe investire nella costruzione di un sistema di protezione sociale più adeguato alle nuove circostanze del "lavoro flessibile" e meno residuale rispetto alla solidarietà familiare attesa (o prescritta).

Per saperne di più

Commissione di indagine sulla esclusione sociale, Rapporto sulle politiche contro la povertà e l’esclusione sociale. 1997-2001 (a cura di C. Saraceno), Carocci, Roma 2002.

Drudi I. e Filippucci C., "Il costo dei figli e dei genitori anziani" in Osservatorio nazionale sulle famiglie e le politiche locali di sostegno alle responsabilità familiari, Famiglie, mutamenti e politiche sociali, Bologna, il Mulino, 2002, vol. II, pp. 195-229.

Istat, Rapporto Annuale 2002, Roma, 21 maggio 2003.

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di Chiara Saraceno

da www.lavoce.info

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