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Mario Agostinelli su Referendum 15 Giugno.
23.05.2003

E’ singolare come il dibattito sul referendum per l’estensione del reintegro da licenziamento ingiustificato anche al di sotto dei 15 dipendenti sia stato finora avvolto da una cortina fumogena che ha sviato l’informazione sullo sfondo dei calcoli politici e delle responsabilità individuali, offuscando l'oggetto della discussione, e diffondendo così la sensazione che ci troviamo soltanto di fronte ad una sorta di incidente da rimuovere.
Eppure, proveniamo da una straordinaria stagione europea - e non solo – in cui milioni di persone nelle piazze, nelle assemblee, con scioperi e forum partecipatissimi, hanno sollevato speranze di cambiamento riscoprendo la persona, la cultura della pace ed i diritti sociali in contrasto con i dogmi della globalizzazione liberista. Tanto più nel nostro Paese, dove una mobilitazione senza precedenti ha riproposto il lavoro al centro di una idea rinnovata di cittadinanza solidale. Ma l’offensiva durissima contro le conquiste, la rappresentanza e la democrazia dei lavoratori non si è arrestata e ad una azione vastissima, non solo del mondo del lavoro, ma anche di settori che hanno travalicato i confini politici tradizionali, ha fatto riscontro una convergenza tra associazioni padronali e governo disposta ad infrangere lo stesso tessuto costituzionale e diretta contro due cardini quali l'articolo 11 della Carta e l'articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori.
Con questo retroterra, quanto più ci avviciniamo al 15 giugno tanto più sarà difficile non andare al cuore dei contenuti e continuare solo a recriminare sulla opportunità più o meno discutibile del referendum.
Muoviamoci subito, allora, con la stessa pacata determinazione di Epifani, rivolta sia a dar valore alla partecipazione, mentre Berlusconi ci vorrebbe solo spettatori passivi, sia ad aprire una impegnativa stagione di riforme e di estensione per via legislativa dei diritti dopo l’affermazione del si.
In effetti le questioni reali sono tutt’altro che risolte o risolvibili se il referendum non ci fosse e rimanesse in piedi su due piani complementari l’attacco del governo italiano e della destra europea di Aznar-Berlusconi-Blair contro il modello sociale a cui si ispira tutto il giuslavorismo del vecchio continente.
Bisogna partire dal fatto che, in contrasto con lo slancio delle manifestazioni di questi ultimi mesi e con l’ispirazione che stava dietro le conquiste dello Statuto, la maggior parte dell’esperienza quotidiana nei luoghi di lavoro – per giovani e ragazze in particolare – è tornata ad essere lontana da una partecipazione dignitosa e creativa alla produzione di valore sociale e che la precarietà che oggi contraddistingue la prestazione lavorativa determina insicurezza ed un’esistenza difficile da programmare.
La cittadinanza è in pratica scissa dal lavoro e l’estraneità e l’alienazione rispetto a quest'ultimo sono esse stesse inafferrabili, perché non si può emancipare o liberare qualcosa che oggi c’è e domani chissà.
Un’area sempre più vasta, in particolare nel settore delle piccole aziende e delle prestazioni a tempo, ha sempre più coscienza dei propri diritti, ma non è in grado di darsi rappresentanza diretta per conquistarli. E' costretta così a sperare in una attenzione “assistenziale” dall’esterno, magari anche da parte di un sindacato a cui partecipa per simpatia, ma senza potersi autocostituire e farne quindi parte attiva con lotte e scioperi, o utilizzando permessi o assemblee ad essa inapplicabili.
Questa vastissima porzione del lavoro ha avuto l’intelligenza di guardare agli strumenti che negli anni del fordismo la classe lavoratrice aveva conquistato: l’articolo 18, l’assemblea nei luoghi di lavoro, la delega sindacale, i permessi retribuiti, il collocamento pubblico: tutti codificati nello Statuto del 1970 e attinenti però ad un modello organizzativo della produzione che si va riducendo e che li riguarda direttamente in parte minima. Come conseguenza, mutua da quegli strumenti e dalla centralità dell'articolo 18 l'idea forte e radicale di estenderli ed adeguarli alla propria realtà e vede nel si al referendum una occasione per aprire un percorso non dissimile da quello lungo e aspro che aveva portato la democrazia oltre i cancelli delle fabbriche trent’anni fa.
A questa esigenza, che ha preso vigore anche dalle iniziative forti di una intera stagione, non si può rispondere guardando altrove proprio quando le forze conservatrici, usando i numeri del maggioritario per svuotare ogni dialettica sociale, varano i decreti che cancellano la contrattazione e il controllo del mercato del lavoro in sfregio a milioni di lavoratori in sciopero o inviano un contingente militare in Iraq a fianco degli occupanti, a dispetto di migliaia di bandiere che rimangono appese ai balconi.
Si ritiene d'altra parte realistica l’apertura di una stagione di riforme per via legislativa destinate all’allargamento del potere del mondo del lavoro senza contemporaneamente provare a dimostrare a questo Governo, anche attraverso lo strumento democratico di una consultazione del corpo elettorale, che la maggioranza del Paese considera questi i temi prioritari rispetto ad una agenda politica caratterizzata invece dagli affari e dallo scontro con la magistratura?
Bisogna capire poi che il movimento di Porto Alegre, di Genova e di Firenze sente vicino il sindacato perché l’impotenza provata di fronte ad un sistema di impresa che oggi nella sua dimensione globale sfugge ai vincoli contrattuali cui precedentemente doveva sottostare nei luoghi tradizionali della produzione, lo porta a puntare su diritti universali anche nei luoghi di lavoro. Il movimento vive quindi come indispensabile il bisogno di riunificare il lavoro tutelato e quello senza leggi e contratti sulla base di diritti che valgano per tutti. Un obiettivo che rimarrebbe però sulla carta, se non si desse anche al lavoro cosiddetto informale la possibilità di autoorganizzarsi e di darsi una sua rappresentanza, senza la quale qualsiasi conquista non è né importabile né esigibile.
In fondo, Maroni nel "libro bianco" ed i giuslavoristi europei autori del documento sul lavoro di Blair Aznar e Berlusconi hanno già imboccato una strada alternativa all'estensione dell'articolo 18: cancellare i diritti in essere nel rapporto di lavoro, flessibilizzare al massimo e destrutturare il mercato del lavoro con la sua privatizzazione ed il sostegno di ammortizzatori in caso di licenziamento, così da trasformare il diritto all’occupazione in una perenne attesa di una prestazione a comando. Il passo necessario al corso di questa strategia sta nell'abolire - altro che estendere! - il reintegro al licenziamento ingiustificato. L'ineffabile ministro del welfare, che lo sa bene, al referendum infatti partecipa con un no tondo.
In questo contesto le perplessità che hanno indotto alcuni ad indicare l'astensione andrebbero riconsiderate. Infatti solo con la prevalenza del “si” viene dischiusa la possibilità nei sessanta giorni successivi al 15 Giugno di un percorso legislativo in cui politica ed economia si pongano al servizio dei diritti.
In questi giorni si legge che le conseguenze del referendum sarebbero vessatorie per i datori di lavoro e che si renderebbe impossibile la sopravvivenza di un intero settore dell'economia, con la conseguente perdita di posti di lavoro. E' facile osservare che la norma attuale è discriminatoria per i lavoratori e che di questo non se ne parla proprio. Giancarlo Paletta, nel dichiarare l'astensione del PCI sullo Statuto, aveva messo in guardia che con la soglia dei 15 dipendenti si sarebbe introdotta una divisione da recuperare prima o dopo nel mondo del lavoro. Ecco quindi l’opportunità perché la sfida di rendere esigibile il reintegro per giusta causa anche sotto la soglia attuale venga modulata nel tempo con una serie di misure che incidano sulla struttura produttiva e sull'organizzazione del lavoro in modo tale che la competizione si trasferisca dai costi alla qualità, alla cooperazione, all'immissione di tecnologia e conoscenza, al credito agevolato per obiettivi: tutti temi decisivi ma mai affrontati perchè nella quotidianità si lascia spazio ad un accanimento vero e proprio sul fattore lavoro.
In questo modo l'Italia, anziché entrare nell’”economia della conoscenza”, obiettivo di un’Europa sociale, e produrre stabilità attraverso la formazione e la valorizzazione del fattore umano, si fa sostenitrice di un modello di precarizzazione, incrementando la propria presenza nelle piccolissime imprese attraverso una attività produttiva di beni e servizi condizionata da fattori di costo. Con il doppio effetto di portarci in una zona bassa della competizione internazionale e di condizionare lo sviluppo dei diritti.
Quando si pensa che tutte le azioni economiche e commerciali di successo per le imprese minori (distretti, consorzi, trasferimento di tecnologia, marchi di qualità) ne aumentano virtualmente la dimensione per dare efficacia a rapporti economico-produttivi di tipo cooperativo, non si capisce perché una azione per i diritti non debba situarsi in una medesima prospettiva accompagnandosi a misure ad hoc di politica economica ed industriale e debba invece sottostare alla peggiore competizione al ribasso.
Tra l’altro, pochi considerano la riduzione della platea degli aventi diritto che si è già verificata dall'approvazione dell'articolo 18 ad oggi, riduzione che dal punto di vista politico, in particolare per la sinistra, è un problema di non poco conto. A parte il pubblico impiego, dove l'applicazione vale in qualsiasi unità del territorio nazionale, nel settore privato l'effetto congiunto dell'aumento degli occupati nelle piccole imprese, dell'esplosione del lavoro parasubordinato e dell'estensione abnorme dei contratti atipici, ha comportato dal 1970 ad oggi la sottrazione del 20% della forza lavoro occupata all'obbligo del reintegro, con uno scompenso più sfavorevole per le nuove generazioni. Sono modifiche strutturali della produzione e dell'organizzazione del lavoro ad avere provocato questo sconvolgimento, ma è del tutto comprensibile che la rappresentanza del lavoro chieda ora di correggere questa asimmetria, che va a totale vantaggio delle imprese.
Da ultimo occorre pensare anche alle prospettive sindacali di un successo del si. Sul piano dei diritti si potrebbero considerare ad esempio le comunicazioni anche in rete tra lavoratori dispersi nella catena produttiva, le assemblee territoriali, i permessi retribuiti a rotazione, l'accesso allo scambio di informazioni via Internet, locali e bacheche autogestite in mense interaziendali. Metteremmo infatti alla prova anche nell’area del lavoro più esposta le tutele del Titolo III dello Statuto, oggi applicabili solo sopra i 15 dipendenti, che consentirebbero la nascita di un sindacato “dei” e non “per” i lavoratori, come sta a cuore alla CGIL.
In fondo, con la discussione sul contenuto di questo referendum stiamo riscoprendo come la soglia dei 15 dipendenti appartenga ad un modello non generalizzabile e sia anacronistica rispetto alle prospettive. C'è chi punta ad abbatterla verso l'alto, ma per estendere a tutti il risarcimento monetario e chi, al contrario, ne vuole eliminare l'incongruenza cogliendo la sfida attualissima del valore del lavoro e dell'irriducibilità della persona. Questo alla fine è il senso della polarizzazione in atto.
Si tratta di una dicotomia ancora presente nella prospettiva costituente dell'Europa e ancora non pienamente risolta nemmeno con la Carta dei Diritti Fondamentali. Il Forum Sociale Europeo di Parigi, a Novembre, assumerà il tema della dignità e del diritto universale del lavoro nella piattaforma con cui andrà al confronto con le proposte della Convenzione, che fin qui sembrano appannaggio di riservate decisioni di una ristretta elite guidata da Giscard d'Estaing. Sarebbe imbarazzante trovarci ad un appuntamento di movimento, magari di massa e condiviso come quello del 2002 a Firenze, per avanzare le stesse richieste che si sono eluse quando erano in campo in un appuntamento democratico come quello del 15 Giugno.

Mario Agostinelli, maggio 2003

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