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Sfavillio (di Paola Carini)
7.01.2005

A Torino, dal 20 al 23 ottobre 2004, si è svolta la fiera del cibo organizzata da Slow Food, l’associazione internazionale che difende i prodotti tipici e le tradizioni culinarie nata in Italia per volontà di Carlo Petrini. Al Lingotto centinaia di produttori agricoli, pescatori, allevatori, artigiani, commercianti di 130 nazioni del mondo hanno esposto i loro prodotti per la gioia di frotte di visitatori affamati di esperienze nuove e gustose. Contemporaneamente, numerosi altri delegati si sono incontrati per tre giorni di simposi in occasione di Terra Madre, evento organizzato da Slow Food. Cinquemila persone, rappresentative di altrettante "comunità del cibo" tra cui quelle nativo americane, si sono ritrovate a discutere del cibo inteso come prodotto ultimo di un’agricoltura sostenibile, tradizionale, rispettosa dell’ambiente, che promuove la dignità delle persone che la praticano e tutela i consumatori.

Sebbene sembrino principi di un’ovvietà universale, essi non sono né condivisi né facilmente applicabili. Gli strenui difensori di metodi agricoli, di pesca, di produzione e distribuzione di prodotti "ecologicamente e socialmente sostenibili" comprendono singoli contadini, piccole e grandi comunità, associazioni di consumatori, fino ai più autorevoli portavoce come Vandana Shiva e lo stesso Petrini (eroe dell’anno 2004 per la rivista Time). È un gruppo numeroso e cosmopolita che si oppone ad un altro, numericamente piccolo ma immensamente potente, costituito da una manciata di multinazionali che fanno pressione sui governi del mondo, sulla Comunità Europea, sull’Organizzazione Mondiale del Commercio, sul Fondo Monetario Internazionale affinché le porte dei propri profitti non trovino alcun ostacolo legislativo per aprirsi. Un unico esempio, quello della proprietà intellettuale sui semi, è sufficiente per far comprendere quanto siano efficaci queste pressioni: se, per ipotesi, la Monsanto gode della proprietà intellettuale sul seme di un particolare tipo di cereale, significa che esso non è più di proprietà dei contadini che lo coltivano, lo conservano, e lo ripiantano l’anno successivo. Se lo fanno, diventano rei di furto; se non lo fanno, hanno la fedina penale pulita, ma sono costretti ad indebitarsi con la Monsanto per comprare, annata dopo annata, i semi di quel frumento geneticamente modificati e resi sterili. Questi grandi gruppi gestiscono il mercato, alterano la biologia del cibo e l’ecologia dei luoghi, impoveriscono i coltivatori e, con studi oppugnabili sulle conseguenze delle modifiche genetiche delle specie vegetali sugli esseri umani, di fatto non tutelano la salute dei consumatori.

Per le "comunità del cibo" incontratesi a Torino l’importanza degli alimenti travalica la soglia del semplice "mangiar genuino". Se per alcuni gruppi nativo americani dei sudovest il mais è ben più che un cereale (come raccontato in Zea Mexicana), per le popolazioni agricole dell’India il riso basmati è "il respiro vitale" e per gli tsimshian della costa nordoccidentale statunitense il salmone è l’aspetto con cui appare Bright-Cloud Woman, Donna Nuvola-Luminosa, la dea che protegge il salmone e lo dona agli esseri umani. Per le genti autoctone e per molti altri cittadini del mondo permacoltura, agricoltura biologica, sistemi di pesca o di coltivazione vecchi di millenni non solo garantiscono la sostenibilità, cioè la possibilità di usufruire di quell’ambiente preservandolo, ma anche uno sviluppo economico che tiene conto dell’equilibrio sociale e salvaguarda le culture, oltre che le colture. Questo atteggiamento non preclude in maniera assoluta la modifica dei semi – nel corso dei millenni l’uomo ha migliorato costantemente le sementi in termini di resa e di qualità – ma si oppone ad una manipolazione genetica che è manipolazione politica prima ancora che ambientale, economica e sociale. In questo senso il cibo è il risultato di una complessa sequenza di atti che iniziano con la produzione di ricchezza laddove esistono povertà ed emarginazione, con il rafforzamento della democrazia − nella sua accezione etimologica di potere del popolo − invece che del potere delle oligarchie economiche, con l’esclusione di pesticidi e fertilizzanti chimici per proteggere la salute umana e quella della natura, con la restituzione della dignità alle donne e agli uomini del sud geo-politico e della consapevolezza ai consumatori del nord.

Di questo e di molto altro hanno discusso i delegati durante il convegno di Terra Madre, poco tempo prima che l’inferno si abbattesse nel Sud-Est asiatico. Tra i delegati nativo americani giunti a Torino per il Salone del Gusto c’era il navajo Justin Willie, direttore dell’Indigenous Permaculture Center in Arizona, educatore e coltivatore. Da vent’anni alle prese con bambini navajo della scuola materna e delle elementari, Willie cerca di far riscoprire ai più piccoli il valore dell’alimentazione tradizionale a partire dalla coltivazione dei prodotti tipici. Tornare ad apprezzare i piatti navajo significa abbattere l’incidenza del diabete mellito, così alta tra i nativo americani, soprattutto tra i bambini, e ripristinare gli usi antichi e i racconti ancestrali, la propria lingua e la propria spiritualità. Il ritorno alla terra in questi termini è l’unica difesa possibile ora che il mondo, secondo i navajo, si trova nel suo quarto stadio, quello dello sfavillio. Ogni cosa sembra sfavillare, dice Willie, come i tizzoni di un fuoco, e questo non è bene. Similmente ad altri popoli autoctoni, anche i navajo sostengono che le profezie di catastrofi naturali si stanno per avverare perché la Terra è maltrattata e sfruttata. Quel che non è in sintonia con la natura attrae sfavillando come una chimera, mentre rappresenta in realtà un circolo vizioso in cui la Terra, più è abusata, più si ribella. Il pianeta non sopporta più la devastazione e, se il cambiamento non avverrà presto, non sopravviveremo. Così diceva la madre di Willie quando lui era bambino.

Ora, dopo un maremoto di proporzioni catastrofiche, produrre e distribuire cibo seguendo questi principi così ampiamente condivisi da popolazioni così diverse, diventa improrogabile in prospettiva della futura ricostruzione di quelle zone. Se, come afferma Amartya Sen, alle popolazioni povere dell’Asia importa tanto il pane quanto la democrazia - perché se non si hanno diritti non si ha nemmeno diritto al pane - allora il cibo e le sue implicazioni politiche, sociali, economiche ed ambientali laggiù giocherà un ruolo determinante. Non è più moralmente né ecologicamente né socialmente sostenibile accettare che la ricchezza di pochi schiacci milioni di persone sotto una miseria che le rende vulnerabili a tutto, anche agli sconquassi della natura. Se non vincerà una prospettiva di sviluppo turistico sostenibile che integrerà anche i pescatori cingalesi, se si continueranno ad abbattere altre foreste di mangrovie per far posto a villaggi turistici a ridosso del mare, gli esiti saranno disastrosi per tutto il mondo, non solo per l’Asia. Perché il cibo sano, come l’acqua, è un diritto universale inalienabile che non è compatibile con nessun brevetto o imposta doganale che possa favorire l’attuale oligopolio. Intendere in questo modo il cibo significa avere il potere di rivoluzionare politicamente, economicamente, commercialmente e socialmente l’assetto del mondo in senso democratico. Significa poter spegnere le faville di un fuoco distruttore compiendo un gesto semplice: nutrirsi di un cibo buono e sano che è frutto del rispetto degli esseri umani gli uni per gli altri e per la natura. E questo è davvero tutto ciò che è fondamentale per vivere, in ogni angolo del mondo, una vita degna.

di Paola Carini

nella foto: Justin Willie

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