Chi nomina il nome di Dio invano di CLAUDIO MAGRIS
Il Regno dei cieli, ammonisce duramente Gesù nel Vangelo, non appartiene a coloro che dicono di continuo: «Signore, Signore!». Avere troppo spesso e a sproposito Dio sulle labbra non è un buon segno, né per la fede né per la cultura, l'intelligenza e l'onestà di una società . Nelle ultime settimane e negli ultimi giorni c'è stata una crescente, blasfema «commistione tra affermati disegni divini e cointeressenze umane», sferzata da Giorgio Grigolli su quell'eccellente giornale che è Il Nostro Tempo , bisettimanale cattolico della diocesi di Torino. Far coincidere i disegni di Dio - e magari immani catastrofi attribuite disinvoltamente alla sua volontà - con i propri interessi è una bestemmia ben più sacrilega e repellente di quelle che si sentono per strada.
Una sciagura che fa morire tante persone fa sempre guadagnare qualcuno, se non altro le imprese di pompe funebri, ma pensare che sia stato Dio a farle morire, come un sicario assoldato per accrescere quei profitti, è un'indecenza e una imbecillità . Chi è sicuro che Dio sia dalla sua parte, come i nazisti che proclamavano «Gott mit uns», Dio è con noi, è quasi sempre un imbroglione violento o - come in quel caso - assassino, che per fortuna, come in quel caso, spesso finisce male.
Di queste bestemmie contro il Padreterno e contro la più elementare intelligenza e umanità le cronache recenti ci hanno dato numerosi esempi da manicomio: dal reverendo Jerry Falwell, leader della «maggioranza morale» (termine privo di qualsiasi senso e dunque truffaldino) in Virginia, secondo il quale «l'America ha votato come voleva Dio», declassato dunque a spot elettorale, a quegli ecclesiastici evangelici americani non meno mentecatti secondo i quali l'eccidio dell'11 settembre è stato la punizione di Dio per le colpe degli Stati Uniti. In Italia non singoli balordi, bensì il capo del governo ha dichiarato ufficialmente - con parole definite per fortuna «sciocchezze» anche da persone a lui politicamente assai vicine ma non squinternate né inclini al sacrilegio - di rappresentare Cristo contro l'Anticristo. Non sembra che Giovanni Paolo II, che ha qualche titolo in più per considerarsi vicario di Cristo, sia preoccupato di questa concorrenza sleale.
Pure qualche alto esponente della Chiesa cattolica si è lasciato andare - stranamente, perché la formazione culturale cattolica è solitamente di altra levatura - a dichiarazioni peregrine, per usare un rispettoso eufemismo, secondo le quali - così ha detto il cardinale Renato Martino - col maremoto in Asia «Dio forse ha voluto mettere alla prova la nostra capacità di essere solidali». Migliaia di persone sarebbero dunque morte e migliaia rimaste prive di tutto affinché io, un mio collega di Dipartimento o l'eventuale lettore che mi sta ora leggendo sul Corriere potessimo ringalluzzirci della nostra generosità , soddisfatti di aver nobilmente sborsato una piccola somma.
Con tutti gli sms in continuo aumento, scrive Grigolli dimostrando una ben altra formazione cattolica, l'Onnipotente sarà certo soddisfatto dell'esito dell'esperimento. Dio che mette alla prova è un profondo tema religioso ed è bene non farne involontarie parodie.
L'inflazione del nome di Dio impazza soprattutto negli innumerevoli dibattiti mediatici dedicati alla tragedia del maremoto asiatico, dinanzi alla quale ci si domanda perché Dio l'abbia permessa o voluta, se e in quale connessione essa stia con le colpe degli uomini, se essa metta o no in discussione la misericordia o l'esistenza di Dio. Alla tv, alla radio, sui giornali, si afferma o si nega un significato religioso di questa tragica vicenda, si accusa Dio e/o l'uomo; rappresentanti delle varie confessioni religiose, filosofi, intellettuali espongono le dottrine delle loro Chiese, delle loro ideologie e della loro filosofia sul dolore, la colpa, il castigo, il destino, l'amore, l'ira o l'indifferenza di Dio.
Ogni sventura, ogni ingiusta e atroce sofferenza pone certo - soprattutto ai credenti - l'antica, terribile domanda sulla responsabilità di Dio: dov'eri tu, quando succedeva questo intollerabile scandalo, quando un innocente veniva umiliato, calpestato, torturato, massacrato, trucidato? Questa domanda, questo grido che è insieme di protesta e di aiuto, è forse l'essenza della religione, che nasce per rispondere al dolore e per riscattarlo; è insieme la sua forza e la sua debolezza, la forza della sua partecipazione al dolore e della sua promessa di redenzione e la debolezza dell'inadempimento di quella promessa, mai mantenuta eppure mai cancellata.
Ma occorreva lo tsunami, con i suoi oltre duecentomila morti, per riaccorgersi di questo? Forse che la morte di un solo individuo straziato non pone, con altrettanta forza, quella domanda, non spinge con altrettanta forza a invocare Dio, ad afferrarsi a lui, a negarlo, ad accusarlo, a pregarlo o a bestemmiarlo con eguale diritto? Anni fa le cronache riportavano la storia di una prostituta che, poiché portava troppo pochi soldi ai suoi magnaccia, fu costretta per punizione da essi - cui auguriamo di cuore, se sono vivi, un'analoga fine - a mangiare i propri e i loro escrementi e fu poi uccisa a morsi. Non basta lei, per chiamare Dio alla sbarra - o, secondo altri, per affidarla alla sua misericordia e alla sua vendetta? Ogni vittima pone, da sola, queste domande sulle cose ultime. Il numero delle migliaia e migliaia di morti e diseredati non aggiunge nulla a queste domande. Quel numero pone problemi pratici diversi: enormi problemi tecnici, economici, sociali, politici, d'ordine pubblico e così via; non muta la metafisica né lo scandalo esistenziale della sofferenza, che è sempre lo stesso, la storia di Giobbe. Quei problemi gravissimi vanno affrontati non discutendo su Giobbe, sulla colpa o non colpa di quegli indonesiani o di quei turisti annegati, su Dio che tace, bensì analizzando e attuando le misure pratiche più adatte a lenire le sofferenze delle popolazioni colpite. Questo non ci esime dal porci ogni giorno quelle domande sul perché del dolore, poiché ogni giorno - anche senza maremoti, attentati, bombardamenti, sventure e violenze d'ogni genere - ci costringe a porcele, indipendentemente dalla nostra professione di fede, di ateismo o di agnosticismo.
Abbiamo sentito la tv chiedersi non concretamente ma fumosamente se lo tsunami abbia a che fare con la colpa. Le grandi religioni - correttamente intese ed esposte - insegnano a concepire lucidamente la colpa, non come un enigma fumoso. Esistono sciagure dovute agli uomini, come le guerre e altre violenze, ed esistono sciagure dovute alla natura, come i terremoti, ma non sempre la distinzione è facile, perché talvolta chi muore sotto le macerie di un terremoto è vittima sia delle sconvolte viscere della terra sia dei ladri che hanno fraudolentemente costruito le case poi crollate sugli uomini in zone sismiche dove non bisognava costruirle, ladri che una scossa trasforma in assassini.
Alcune catastrofi naturali sono causate o concausate pure dall'attività criminosa o irresponsabile di quella specie naturale che sono gli uomini.
La colpa è solo individuale e solo in quanto tale, in quanto specifico atto criminoso, è punibile. Credenti e non credenti possono parlare solo della sua punibilità da parte del Codice penale, senza pretendere empiamente di identificarsi con Dio o di punire in suo nome. Abbandonarsi alla volontà di Dio è una cosa, pretendere di identificarla con la propria, come donna Prassede nei Promessi Sposi , è insieme stupido, crudele e sacrilego. Nel Libro di Giobbe la figura peggiore e più empia la fanno i suoi supponenti amici, convinti di sapere che egli si è meritato i castighi di Dio.
Certo, a parte la responsabilità di ognuno di noi, viviamo tutti in un mondo che non è innocente, che è segnato e in parte costituito da tante colpe commesse - violenze, ingiustizie, abusi, crudeltà che ci sono ignote ma di cui lo sentiamo fisicamente pervaso e compenetrato, come l'aria dallo smog. Il peccato originale - spiega il grande teologo gesuita Karl Rahner, cattolico rigorosamente ortodosso - non è una malvagia tendenza ereditaria trasmessaci da Adamo come le tare nei romanzi ottocenteschi, ma è l'oggettiva situazione del mondo in cui veniamo a trovarci, che non è privo di colpa e nel quale si inserisce la nostra azione che, buona o malvagia, coopera alla sua salvezza o perdizione. Mi auguro dunque dibattiti mediatici che parlino non di Dio, ma di come hanno luogo i soccorsi, con tutto ciò che questo implica.
Per il resto, è bene attenersi, credenti e non credenti, a un comandamento ribadito con forza dal cristianesimo e ancor più dall'ebraismo: «Non nominare il nome di Dio invano».
Corriere della Sera, 21 gennaio 2005
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