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L'impero dei diritti dell'uomo di M. Ignatieff dal Corriere
25.01.2005

di MICHAEL IGNATIEFF (storico, direttore del Carr Center, Harvard)

Esportare la libertà è una buona idea. I rischi arrivano dall'illusione di avere la Provvidenza schierata al proprio fianco

Al presidente George W. Bush piace concludere i comizi con una perorazione sulla libertà - e quindi sulla democrazia - che non sarebbe solo il regalo dell'America al mondo, ma il dono di Dio all'umanità. Il passaggio è sempre applaudito, forse perché reca la lieta implicazione che quando l'America e i suoi soldati promuovono la democrazia all'estero, stanno facendo il lavoro di Dio, come anche in Iraq. Il nome di quest'idea è provvidenzialismo democratico. È diventata la visione strutturale di un'amministrazione che pure prese il potere nel 2001 disprezzando visibilmente una pretenziosa elevazione della politica estera. Tutto quello che John Kerry ed i Democratici vi potevano opporre era un prudente realismo, e, nella misura in cui le elezioni sono state un referendum sulla visione, il prudente realismo ha perso a mani basse. Le elezioni del 2004 hanno liquidato il capitolo finale in un avvincente riallineamento della politica americana. I Democratici, un tempo eredi di grandi sognatori come Franklin Roosevelt e Woodrow Wilson, rischiano di diventare il partito dei piccoli sogni, mentre i Repubblicani, che sotto Nixon e Kissinger sembravano decisi a spogliare la politica estera da ogni alto fine morale, sono diventati il partito che vuole cambiare il mondo.

Beninteso, non vi è necessariamente nulla di buono nel sognare in grande.

I grandi sogni possono essere folli. E pericolosi. Un sacco di persone - tra cui molte di fede cristiana - hanno trovato allarmante che un presidente possa davvero pretendere di sapere quale sia il progetto di Dio, e ancor più spaventoso che ci possano essere cristiani evangelici sicuri per grazia divina che lo stesso George W. Bush faccia parte di quel progetto.

Però, se l'aspetto provvidenziale del provvidenzialismo democratico può non piacere, resta vero che la promozione della democrazia da parte degli Stati Uniti ha dimostrato di essere una buona idea. L'America può anche essere impopolare come mai prima d'ora, ma la sua egemonia ha davvero coinciso con una rivoluzione democratica nel mondo. Per la prima volta nella storia, la maggior parte dei popoli della Terra vive in democrazia. In un'epoca pericolosa come questa, è la migliore notizia possibile, perché le democrazie, generalmente, non si combattono a vicenda e non si frantumano in guerre civili. Come risultato - e contrariamente all'opinione diffusa che il mondo stia diventando più violento - gli scontri etnici e civili stanno davvero diminuendo dai primi anni '90, secondo uno studio sui conflitti violenti condotto da Ted Robert Gurr all'Università del Maryland. La transizione può essere violenta - quando la democrazia giunse in Jugoslavia, il dominio della maggioranza portò per prima cosa alla pulizia etnica e ai massacri - ma una volta che le democrazie si sono stabilizzate, una volta che hanno istituito tribunali indipendenti e procedure volte ad impedire abusi, possono iniziare a promuovere gli interessi della maggioranza senza sacrificare i diritti della minoranza.

La democrazia presenta altri vantaggi, alcuni dei quali illustrati in un recente e persuasivo libro intitolato The Democracy Advantage (Routledge), a cura di un trio di autori capitanati da Morton Halperin che aveva dato una mano a istituire la «comunità delle democrazie» durante il mandato di Madeleine Albright al Dipartimento di Stato. Il vero test della democrazia non è vedere come funziona in Paesi che sono già ricchi. Le nazioni più ricche sono tutte democrazie, ma si tratta di quei Paesi fortunati che hanno lungamente beneficiato di geografia favorevole, istituzioni stabili e profitti imperiali.

L'esame consiste nel vedere se la democrazia funzioni nei paesi poveri privi di questi vantaggi. Alcuni analisti, come Fareed Zakaria, mettono in dubbio che si possa instaurare la democrazia in Paesi dove il reddito pro capite è inferiore ai 6000 dollari annui. Se non si può avere la democrazia finché lo sviluppo non raggiunge questo livello, e se per ottenere la crescita occorre il dispotismo, allora, secondo alcuni analisti, sarebbe saggio da parte degli Stati Uniti sostenere autocrazie orientate alla crescita come il Vietnam o Singapore.

Halperin e i suoi colleghi non sono d'accordo con questa tesi di «prima sviluppo, poi democrazia». Sostengono che i vantaggi della democrazia diventano evidenti se si paragonano Paesi con reddito lordo pro capite inferiore a 2000 dollari diventati democrazie - come gli Stati baltici, il Mozambico, il Senegal e la Repubblica Dominicana - con Stati autoritari come la Siria, l'Angola, l'Uzbekistan e lo Zimbabwe. Le democrazie povere permettono più crescita, meno mortalità infantile e maggiore aspettativa di vita. E la recente immagine delle decine di migliaia di persone una notte dopo l'altra nelle gelide strade di Kiev ha ricordato agli stanchi democratici d'ogni luogo che la democrazia è l'unico sistema politico che dice a ciascun individuo: tu conti, e il tuo voto conta. Quindi, i cattivi leader non possono prendere in giro i democratici e aspettarsi di farla franca.

Mentre la dignità conferita dalla democrazia piace a tutti - i sondaggi d'opinione nei paesi Arabi, per esempio, indicano una netta preferenza per la democrazia -, non tutti credono che possa mantenere le promesse. La delusione rispetto alla democrazia in America Latina sta crescendo, perché le nuove amministrazioni che hanno sostituito i governi militari negli anni '90 non sono riuscite a onorare la promessa di crescita. Alcuni economisti accusano le democrazie di aumentare la spesa sociale per compiacere gli elettori, per poi inguaiarsi coi deficit e non poter sostenere politiche economiche efficaci. Halperin e i suoi co-autori obiettano che le democrazie non tendono affatto a incrementare il deficit, e se talvolta possono mancare di disciplina, sono comunque in grado di evitare gli errori più gravi, come l'industrializzazione forzata della Cina che negli anni '50 e '60 costò milioni di vite.

Nonostante gli sbagli commessi, i cinesi pongono un problema alla tesi che la democrazia funziona meglio dell'autocrazia. Il governo del perfido e corrotto partito unico ha gestito la spettacolare crescita economica in Cina quasi quintuplicando i redditi tra il 1982 e il 2002, da 186 a 944 dollari. Al confronto, la democratica India nello stesso periodo è riuscita soltanto a raddoppiare il reddito pro capite. La Cina continua ad attirare una quota straordinaria degli investimenti destinati ai Paesi in via di sviluppo. Il suo mercato è vastissimo, la manodopera a basso costo, e il governo mantiene stabili le cose.

L'interrogativo, però, è quanto a lungo possano combinarsi crescita ed autocrazia.

Oggi, il Partito Comunista non rappresenta più del 5 per cento della popolazione, la sua corruzione irrita milioni di persone e, presto o tardi, sia i vincitori che i perdenti del boom cinese chiederanno di dire la loro su come vengono governati. La democrazia potrà impiegarci un po' ad arrivare in Cina, ma se ciò non avvenisse, come farà il partito a gestire in modo pacifico le tensioni crescenti tra città e campagne, classi, regioni e settori? Nelle recenti elezioni indiane, il Bjp (Bharatiya Janata Party, partito del popolo indiano) al governo, dominato dagli Hindu, si è vantato del boom del software e dei call center guidato da Bangalore negli anni '90, ma gli elettori poveri, che non ne hanno mai ricevuto alcun vantaggio, lo hanno condannato alla sconfitta. Se il nuovo governo del partito del Congresso manterrà le promesse fatte a questi elettori, la democrazia mostrerà come si può armonizzare la crescita con una maggiore equità, una lezione che la Cina farebbe meglio a imparare alla svelta. Promuovere la democrazia - e non solo il buon governo - è un'idea talmente buona che Halperin e i suoi colleghi suggeriscono che la Banca Mondiale ed il Fondo Monetario Internazionale abbandonino la pretesa tecnocratica di dispensare solo consigli economici e inizino invece a promuovere la democrazia come prerequisito per il progresso economico. Il programma «Millennium challenge account» dell'amministrazione Bush fa proprio questo: mira a distribuire, per la prima volta, oltre 5 miliardi di dollari dell'assistenza americana all'estero a quei Paesi che «governano in modo giusto» e «investono a favore del loro popolo».

Per gli americani, il problema è cosa fare quando democrazia e interesse nazionale entrano in conflitto. Parlando l'anno scorso al «National Endowment for Democracy», il presidente ha riconosciuto che l'America non potrà avere una strategia politica realizzabile contro il terrorismo islamico senza intercedere a favore della democrazia nel mondo musulmano. Il problema è che se gli Stati Uniti agiscono così, i nuovi regimi al potere dopo le elezioni in Egitto o in Pakistan potrebbero essere violentemente antiamericani. «Un uomo, un voto, una sola volta» è un'altra reale preoccupazione: gli islamici (o i despoti secolari) che si servono della democrazia elettorale per abolire la democrazia stessa.

Quindi promuovere la democrazia è rischioso, ma appoggiare gli autocrati non fa che posticipare il giorno della resa dei conti con la rabbia popolare. Durante la guerra fredda, gli Stati Uniti hanno spalleggiato autocrati come lo scià di Persia, mettendo l'America dalla parte sbagliata di una genuina insurrezione popolare contro la tirannia, la rivoluzione sciita del 1979.

Gli Stati Uniti ne stanno ancora pagando il prezzo in terrorismo, proliferazione nucleare e ostilità.

Cercare di annullare le elezioni quando vanno contro i propri interessi è un altro errore, come ha imparato la Francia appoggiando i militari algerini dopo la vittoria elettorale del Fis islamico nel 1992. Meglio avere gli islamici al potere - a fare errori, a imparare a servire l'elettorato - che sostenere autocrazie che tradiscono il loro popolo. Il partito al potere in Turchia è musulmano, e la democrazia, più la speranza di entrare in Europa, ne hanno disciplinato il radicalismo.

Tuttavia, la lezione più difficile da imparare per un potente popolo democratico non è quale Paese sostenere ma come gestire le sue enormi aspettative. Gli Stati Uniti possono promuovere, incoraggiare e sostenere la democrazia, ma non possono imporla. Nel 2000, l'abile assistenza americana all'opposizione serba contribuì a rovesciare Slobodan Milosevic, ma quell'evento è destinato a restare un'eccezione. Gli Stati Uniti possono aiutare i popoli con le elezioni, ma spetta ai popoli stessi ancorare le libere istituzioni alla propria terra. Il provvidenzialismo democratico nutre l'illusione che sia l'America a guidare la storia mondiale. L'America ha un grande potere e dovrebbe usarlo, ma non sempre la storia è al servizio dei grandiosi progetti americani.

Secondo i pessimisti, il provvidenzialismo democratico se l'è cavata per un pelo in Afghanistan ma incontrerà la sua Waterloo in Iraq. Gli influenti partiti sunniti chiedono già di rimandare le elezioni, temendo che il diffuso astensionismo della loro comunità si combini con la difficoltà generale nel fare svolgere le elezioni nelle aree sunnite, e porti gli sciiti a un potere eccessivo. L'insurrezione sta tentando di sopprimere la democrazia sul nascere uccidendo ogni iracheno che lavora per il governo di Allawi.

Se la rivolta alla fine arrivasse alla vittoria il costo del fallimento - per tutti gli iracheni, senza tenere conto degli Stati Uniti - sarebbe enorme. Se l'Iraq l'anno prossimo non sarà riuscito a darsi istituzioni semi-legittime, e una costituzione che assegni risorse e poteri a ogni comunità che costituisce il Paese, l'invasione americana avrà solo sostituito una pericolosa dittatura con uno Stato fallito, santuario dei terroristi.

I pessimisti sostengono che gli Stati Uniti stanno imponendo la democrazia in Iraq con la minaccia delle armi, ma è provato che milioni di curdi e sciiti, e pure alcuni sunniti, desiderano appassionatamente libere elezioni nel loro Paese. Non vi è ragione per cui i soldati americani e della coalizione non possano aiutarli ad assicurare un voto relativamente libero, proprio come hanno fatto in Afghanistan. Questo momento, per spaventoso e precario che sia, rappresenta l'ultima possibilità per gli iracheni di uscire dal tunnel del governo baathista e dal caos dell'incipiente guerra civile.

L'amministrazione americana però deve dimostrarsi all'altezza della propria retorica. La fede in un Dio schierato a favore della libertà e della democrazia può avere contribuito a rendere il presidente Bush così superficiale riguardo ai dettagli della guerra in Iraq, e così incredibilmente sicuro nel dichiarare «missione compiuta» un'operazione appena cominciata. Un altro punto interrogativo sull'impegno americano per la democrazia all'estero è il suo atteggiamento verso la democrazia in casa propria. La democrazia è qualcosa di più che il governo della maggioranza degli stati repubblicani. La fede democratica esige anche il rispetto per la magistratura, la difesa della separazione costituzionale dei poteri, la ragionevole attenzione per le opinioni del resto dell'umanità, per non parlare dell'osservanza di trattati ratificati democraticamente come la Convenzione di Ginevra. Ultima ma non meno importante, l'umiltà che viene dalla consapevolezza di essere al servizio di un intero popolo, e non di un disegno provvidenziale che solo i veri credenti possono capire.

(traduzione di Laura Toschi)

Corriere della Sera, 24 gennaio 2005

www.corriere.it

 

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