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A sinistra di Togliatti
19.02.2005

«I partigiani e il popolo della Resistenza sognavano una democrazia autentica, non una riedizione della democrazia liberale prefascista, limitata e manipolata dal potere economico. Le debolezze e le regressioni politiche dell’oggi? Dipendono anche da un eccesso di continuità nella lotta di Liberazione. Anche per questo occore tornare al significato dinamico della Resistenza». Conversazione contrastata quella con Luigi Cortesi, 76 anni ben portati, resistente nel bergamasco a 16 anni nelle «Fiamme verdi», già direttore della biblioteca Feltrinelli, due anni da cronista a l’Unità di Milano e professore emerito dell’Università Orientale di Napoli. Grande studioso di Bordiga, direttore della rivista pacifista Giano (pace ambiente, problemi mondiali), pubblica oggi una raccolta di saggi quanto meno audace e frutto di una vita di lavoro: Nascita di una democrazia. Guerra, Fascismo, Resistenza e oltre (Manifestolibri, pagg. 499, Euro 28). Complicata l’intervista. Perché lo studioso, comunista di sinistra impenitente - una vita di discussioni e polemiche con gli amici Ragionieri, Procacci, Della Peruta, De Rosa, De Felice e Merli - rilancia nelle sue pagine la tesi della Resistenza non diremo tradita, ma almeno soffocata. E in massima parte per colpa di chi? Del solito Togliatti. Che Cortesi sottrae alla demonizzazione di destra, e a quella di Aga Rossi e Zaslvaski. Ma che nondimeno, pur col suo genio e con la sua autonomia da Stalin, contribuì a suo dire a mettere un fatale tappo continuista al movimento del 1943-45. Ma Togliatti non capì meglio di tutti la situazione internazionale? «Capiva certo, ma fu più realista del re, e benché abbia compreso in anticipo il tema della pace mondiale, rimase prigioniero del vincolo internazionale in chiave moderata. Come nel 1956». Cominciamo.

Professor Cortesi, il fulcro del suo libro è l’idea di una Resistenza ingabbiata dalla continuità istituzionale. Davvero era possibile un epilogo più radicale del biennio 1943-45?

«Sì. E lo penso non sulla base dei miei desideri o delle mie propensioni ideologiche, ma guardando alla lotta politica dentro la Resistenza, un fenomeno contraddittorio ed oscillante. Mi sono soffermato sui capi comunisti della Resistenza al nord, Longo, Secchia e Curiel, le mie fonti storiografiche. Secchia se lo chiederà, e in nome di tutti i resistenti di sinistra: "potevamo fare di più?"»

Non c’è il rischio dell’eterna «lamentatio» postuma? In fondo la Resistenza fu minoritaria, limitata al nord, quasi un miracolo...

«Non sono d’accordo, né sul limite nordico, né sul minoritarismo. Le Quattro giornate di Napoli, e non solo, lo dimostrano. E poi c’era un movimento diffuso, di autodifesa sontanea, per nulla marginale. Infine non è giusto distinguere tra le due minoranze combattenti e la grande zona grigia in mezzo. Questa zona di varia coloratura oscillava da una maggiore a una minore simpatia per la Resistenza. Con l’antifascismo però come vissuto maggioritario. Ecco perché - per lo più - non fu guerra civile. Ma ecco anche l’errore di De Felice: l’ "ingrigimento" non era generale».

Benché simpatizzante per l’antifascismo quella zona era senz’altro moderata, o no?

«Come ogni movimento la Resistenza era piantata su un processo variegato. E anche passivo e sottotraccia, passibile di evolvere in avanti»

Ma senza la «Svolta di Salerno», a incardinare nella continuità il tutto, vi sarebbe poi stato un processo unitario e più impetuoso?

«Occorre allargare il discorso al contesto della guerra. Dentro quel contesto, sullo sfondo di una situazione in movimento, agiscono forze in contrasto. C’è una destra del Cln e una sinistra, e infine c’è il dibattito dentro la sinistra in ordine alla strada democratica da seguire, immaginando il dopo. Ebbene l’onda lunga della Resistenza si proponeva di spezzare la continuità con il vecchio stato. Mentre liberali e democristiani volevano preservarla. Ancora tra il 1944 e il 1945 la sinistra, socialista, azionista e anche comunista lottava per una rottura che non rifondasse le istituzioni liberalmoderate, ma prefigurasse uno stato nuovo e su basi di massa»

Il contrasto di cui lei parla paralizzava però la Resistenza, che si svolgeva all’ombra degli Alleati. Senza lo sblocco «badogliano» voluto da Togliatti non vi sarebbero state forse paralisi e disgregazione?

«Quando Togliatti sbarca a Napoli nel 1944 da una parte ci sono i badogliani, e dall’altra gli antifascisti, senza grandi divisioni. Ovviamente Croce e Sforza già lavoravano per il compromesso poi propiziato da Togliatti. Non c’era blocco, ma solo l’opposizione dell’antifascismo a entrare nel governo con Badoglio. Un governo che invece rilanciò le componenti moderate e più compromesse con quell’Italia che la Resistenza voleva superare. La Svolta di Salerno provocò altresì lacerazioni, anche se Longo, Secchia e Curiel non gettarono alle ortiche la linea antifascista anteriore. Sia interpretandola in chiave tattica. Sia per riguardo al proconsole venuto da Mosca, presumibilmente garantito da un quadro di accordi internazionali. Per loro Togliatti era il centro-destra del Pci, lo conoscevano bene e lo rispettavano. Insomma le divisioni interne comuniste, su una diversa Resistenza, c’erano. E i documenti lo comprovano. Il che, sommato agli altri dissensi antifascisti e ai movimenti...»

Senza quel Togliatti sarebbe stata possibile una rivoluzione antimonarchica, antiliberale e antifascista?

«Non parlo di rivoluzione in senso stretto, ma di una spinta democratica e radicale più avanzata. Grosso modo penso a un antifascismo non monarchico, più vigoroso e più rigoroso. Come quello ipotizzato da Eugenio Curiel ne La nostra lotta: rivoluzione democratica, che spostasse avanti i suoi limiti. Curiel, che influenzava i "livornisti" Longo e Secchia - influenzati a loro volta da Bordiga - proviene dall’esperienza italiana, dal fascismo di sinistra. E percepisce il sommovimento italiano. Così come lo percepivano Spano e Gullo al sud nel 1943. Nell’insieme, una serie di fermenti spontanei, refrattari a indicazioni politicistiche dall’alto...»

Ma su quali forze di massa reali poteva contare allora questa «rivoluzione democratica»?

«Restiamo al 1943. Crolla il fascismo e c’è Stalingrado all’inizio dell’anno. Ma la classe operaia sciopera a lungo in primavera, e il movimento si espande fino al sud in giugno. Passa da Torino, Milano Napoli. Alla metà di agosto la spinta, che arriverà al dicembre, riprende. Ed è repressa da Badoglio. Un centinaio di morti fino all’8 settembre, data ambivalente ma non certo di "morte della patria". Un anno operaio il 1943, e dopo 20 anni di stasi! In tutto questo sommovimento Longo e Secchia vedono la principale forza politica della resistenza, destinata a congiungersi con la lotta armata, che è già partita nel quadro della guerra. Quanto a Curiel, non era affatto un intellettuale isolato, ma la punta di tutta una generazione nuova, che usciva dai Guf e dalla fronda antiregime. E che stava già dando le sue prove nel cinema, nella pittura, nella letteratura, dalla fine degli anni trenta».

Classe operaia, ceto intellettuale, autogoverno partigiano, partiti e reti di solidarietà: tutto ciò poteva scavalcare il moderatismo e gli Alleati?

«Occorreva certo fare delle alleanze, misurare i passi, ma le forze c’erano eccome. Quando a Torino si ammaina la bandiera rossa e comincia il dopoguerra, Amendola scrive pagine malinconiche e di delusione. In tutti c’è il senso di un recedere, di una rinuncia. Non al potere, ma a quote di potere per un’avanzata ulteriore»

Francamente lei fa i conti senza l’oste. Senza l’Italia moderata. Senza le divisioni ideologiche tra antifascisti. E senza la spartizione geopolitica. Insomma, in assenza del compromesso istituzionale da lei deprecato, la democrazia come poteva nascere?

«Mi defilo rispetto alla storia con i "se". Mi limito a fare un censimento delle forze allora disponibili e delle idee in campo. Perché l’insistito radicalismo del mio libro? Perché oggi l’Italia conosce una regressione davvero inimmaginabile, politica e di memoria. Gli anni di Berlusconi stanno facendo terra bruciata su tutto quello di cui parliamo. E adesso i nodi vengono al pettine. Anche perché evidentemente la Resistenza non ha inciso quanto avrebbe potuto».

La Costituzione repubblicana con i suoi princìpi non fu una grande conquista? E poi la sinistra pesa e ha pesato...

«Sì, ma l’una e l’altra sono poste in questione. Perciò occorre rimettere in circolo i presupposti della Resistenza. Come volle fare col 1789 Jaurès, grande storico della Rivoluzione francese. Il quale diceva: "ho raccolto le carte della Rivoluzione per gettarle nel vento della vita". E lo diceva a un secolo del 1789. Oggi invece a 60 anni della Resistenza c’è un offuscamento molto più grave. E le cause vanno cercate negli anni successivi al 1945. Gli azionisti videro molto in anticipo questo offuscamento. Ecco perché si deve tornare alla Resistenza come a un problema politico attuale. Alla Resistenza come anticorpo etico contro l’Italia odierna. In nome dei suoi valori, e anche delle sue feconde contraddizioni».

Mi consenta ora di chiederle: in che senso la «democrazia progressiva» alla Curiel era diversa da quella di Togliatti? In altri termini: a quale differente democrazia post-resistenziale lei fa riferimento nella sua polemica storiografica?

«La parte più attiva della Resistenza avrebbe voluto ricollegarsi alla tradizione libertaria e democratica del movimento operaio: democrazia parlamentare e oltre. Parlamento e una rete di istanze dal basso. Di comitati territoriali e di fabbrica. E con la memoria del soviet originario del primo Lenin alle spalle, profittando dell’occasione offerta dal 25 Aprile. Tutte cose che stavano anche nel Socialismo liberale di Rosselli».

Mi perdoni, ma Pietro Secchia era stalinista e non certo libertario. E chiese a Stalin il placet per una politica ben diversa da quella di Togliatti.

«Non è vero. Era un uomo del suo tempo, fedele al ruolo dell’Urss come tutti i comunisti. Eppure nel 1941 al confino criticò a fondo e per iscritto la Storia del Pcb di Stalin. La accusava di schematismo catechistico, di non aver capito la rivolta Kronstadt e persino di incomprensione del ruolo della Nep, che già Lenin a suo dire aveva applicato con ritardo. Capisce? Nel 1941! L’incontro con Stalin del dicembre 1947? Secchia non voleva fare la rivoluzione. Chiedeva lumi nel caso di una vittoria elettorale del Pci nel 1948. Era un pragmatico e non una testa calda. Mi creda, io lo conoscevo bene».

da www.unita.it

 

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