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La chiesa di Don Giussani di M. di Schiena
26.02.2005

LA CHIESA DI DON GIUSSANI E QUELLA DEL CONCILIO
Cordoglio, rispetto e, per i credenti, preghiera sono il giusto modo di porsi di fronte alla morte di don Giussani, il sacerdote che certamente ha lasciato una significativa «orma di pié mortale» sul cammino della Chiesa cattolica, un cammino sorretto dallo Spirito ma attraversato, nello svolgimento della sua vicenda storica, da profezie e da errori, da grandi speranze e da ripiegamenti su interessi particolari, da aperture e da chiusure, da testimonianze e da cadute. Nessuno che abbia seguito la vita, il pensiero e le attività di don Giussani può mettere in dubbio la sua grande Fede e la sua perfetta buona fede. Ma va detto con ruvida franchezza che i frutti del suo servizio e del suo lavoro non sono stati sempre di segno positivo ed hanno sovente provocato involuzioni e divaricazioni nel laicato cattolico e talvolta nella stessa gerarchia ecclesiastica favorendo la formazione di aree sostanzialmente impermeabili agli insegnamenti del Concilio Vaticano II.

L’associazionismo promosso da don Giussani si è infatti distinto più per l’esaltazione della sua identità dentro e fuori la comunità cristiana che per la ricerca del dialogo e della comunione, più per la scelta di reazione e di contrapposizione alla cultura laica (e segnatamente a quella di sinistra) che per la capacità di cogliere in essa i «segni dei tempi», più per la voglia di una baldanzosa “presenza” che per la fatica di una lungimirante mediazione, più per le “opere” e gli “affari” che per la preghiera e la missione, più per la inclinazione a dotare di potere l’esperienza cristiana che per la sapienza di farne fermento capace di lievitare nella società civile solidarietà e giustizia, più per la commistione fra religione e politica che per la necessaria distinzione dei due ambiti di impegno su una linea di coerenza ed al riparo da reciproche strumentalizzazioni.

Si sono così fatte strada teorie e pratiche che hanno puntato all’accantonamento dell’ecclesiologia del Concilio Vaticano II che riscopre la Chiesa come «popolo di Dio» chiamato ad abbracciare l’intero mondo per annunciare a tutti, in libertà e carità, il Vangelo di Cristo. Una Chiesa-popolo che «non pone la sua speranza nei privilegi offerti dall’autorità civile» e che utilizza per la sua missione «solo quei mezzi che sono conformi al Vangelo e al bene di tutti secondo le diversità dei tempi e delle situazioni». Sono inoltre emerse scelte lontane dalla sensibilità “pastorale” dello stesso Concilio che afferma il rispetto dovuto all’autonomia delle realtà sociali e politiche, sottolinea la doverosità dell’impegno rivolto ad eliminare le ingenti disparità economiche e le conseguenti discriminazioni, denuncia l’arbitrio di gruppi e nazioni che hanno in mano un eccessivo potere economico, sollecita la promozione dei diritti umani fondamentali, condanna la guerra e chiede alla comunità internazionale di costruire la pace facendosi carico della condizione di quelle vaste regioni del pianeta che si trovano in uno stato di intollerabile miseria. E queste distanze dal Concilio hanno determinato nell’associazionismo cattolico sofferenze e lacerazioni non certo riparate dal recente abbraccio, voluto dalla CEI, fra i vertici di Comunione e Liberazione e dell’Azione Cattolica.

Ma come è possibile vivere la fedeltà al Vangelo senza opporsi, con la critica più radicale, al liberismo ed a “questa” globalizzazione che sta aggravando le disuguaglianze in tutto il mondo ed affamando la maggior parte dell’umanità? Come è possibile non insorgere con tutte le proprie forze e con la necessaria coerenza contro la guerra preventiva ed infinita di Bush che semina morte e rovine e punta alla colonizzazione dell’intero pianeta? Come si può essere testimoni di verità e giustizia assecondando nel nostro Paese politiche in favore dei ceti privilegiati ed in danno delle fasce sociali più deboli? Perchè si è stati vicini e si continua ad esserlo ad uomini ed ambienti politici ossessionati dal potere e poco sensibili agli interessi popolari? E come mai non si contesta per la sua inattendibilità la sorprendente affermazione dell’on.le Berlusconi secondo la quale don Giussani, interpretando a modo suo le sollecitudini celesti e riprendendo una infelicissima sortita vaticana vecchia di settantacinque anni e riferita a Mussolini, avrebbe definito il leader di Forza Italia «uomo della provvidenza»? Domande queste destinate a restare senza convincente risposta ma che vanno incalzantemente poste per favorire il superamento di un malinconico passato specialmente nel momento in cui si manifestano nella Chiesa i segni di una nuova primavera che vuole rilanciare il Concilio e dare rinnovato vigore alle grandi domande di liberazione e di pace.

Brindisi, 25 febbraio 2005

Michele DI SCHIENA

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